Intervista a Giorgio Morale sulla scrittura

d4925e59ba99f718c2296c5414ecd07a.jpgSortino, Chiesa Madre, fotografia Sebastiano Aglieco postato da scrittureinattesa. Nel tuo romanzo di recente pubblicazione PAULU PIULU, pubblicato da Manni, emerge chiaramente quanto dobbiamo, nella nostra vita, ai padri, agli insegnanti, agli avi. O quanto non dobbiamo, a seconda dei punti di vista.A volte ancora adesso guardandomi allo specchio cerco in me i tratti delle persone a cui somiglio; allo stesso modo a volte faccio il gioco di dirmi: “Cosa devo a questo e cosa a quello?”, cominciando da mio padre e mia madre, da insegnanti e conoscenti, e trovo cose di cui sono debitore, riconoscibilissime. Ad esempio, devo a mio padre, mi dico, la pazienza e l’accettazione della fatica, a mia madre una certa inclinazione sentimentale… e così via. Altre cose invece sono nate, in modo altrettanto evidente, come reazione agli altri, come una correzione di quanto ho visto o mi è stato proposto e che più o meno coscientemente ho rifiutato. Ad esempio, ho rifiutato la chiusura della mia famiglia di origine e ho cercato a mio modo di volgerla in apertura, e chi sa, forse anche questo lo devo a mio padre e a mia madre, il sentire l’apertura non come un dato di fatto ma come un bisogno e una conquista.Perciò direi che il mondo in cui nasciamo è comunque il nostro riferimento, nel bene e nel male; alla fine però ognuno trova la sua strada, senza che l’esito possa essere prevedibile. Sempre più vivere mi pare infatti un’avventura, sulla cui conclusione non trovo altro da dire che le parole antiche di Erodoto: “Di tutte le cose bisogna vedere come vanno a finire”.2. Si capisce, già da molto piccoli, anche se irrazionalmente, che cosa faremo da grandi. Tu quando hai capito che avresti fatto lo scrittore?Nel mio libro di prima elementare c’era una poesia che non so quanti oggi ricordino, potrebbe anche essere andata persa per sempre e io essere l’unico a ricordarla: non so più chi fosse l’autore, ma sicuramente non era un “poeta laureato”. Io so ancora quella poesia a memoria, parlava di un uccellino che soffriva il freddo e la fame, a cui un bambino aveva promesso per il giorno dopo delle briciole. Il dramma era che l’uccellino non arrivava al giorno dopo perché moriva durante la notte. Ricordo che questa poesia mi muoveva alle lacrime e domandavo agli altri se a loro accadeva lo stesso. Desideravo scrivere anch’io qualcosa che emozionasse me e che come me emozionasse gli altri.Spesso sono queste prime letture, anche se di maniera, a diventare i primi modelli, da cui partire per trovare una propria voce, una scrittura consapevole. Ci sono vari momenti, nel corso della nostra vita, in cui ci sembra di dover cominciare daccapo, e a volte anch’io ho fatto piazza pulita di certe cose che avevo scritto. Oggi mi sembra che tutto ciò che scriviamo sia prezioso, la scrittura è preziosa, non necessariamente per il risultato in sé, ma come modo per alimentare uno spazio interiore e crescere in consapevolezza; e poi, per chi ha un interesse specifico per la scrittura, anche in vista di un progressivo affinamento dei propri mezzi e di un adeguamento della trascrizione all’ascolto.3. Spesso i maestri sono persone che finiscono per giocare il ruolo che noi attribuiamo loro. Penso, nel tuo libro, alla figura di un nonno che ama la poesia, che forse avrebbe voluto scrivere e che non ha potuto…ma che sicuramente permette al bimbo Paulu, di immaginare, di scorrazzare e di scoprire.Sì, forse c’è un duplice movimento: da una parte troviamo ciò che cerchiamo, dall’altra ciò che troviamo non può che diventare parte di noi. Penso che ci sia comunque una nostra opzione, esercitata tra quello che ci è stato possibile incontrare. Il nonno recita a Paulu poesie, ma solo perché ha trovato Paulu disponibile all’ascolto quel gesto è diventato gravido di futuro.4. Nell’osservazione che i bambini conducono, tutta sensoriale a prima vista, selvaggia, le cose acquistano una voce, un modo di comunicare che lo scrittore ha il compito di cogliere. Il primo tentativo di scrivere riguarda sempre la scelta delle parole giuste. Scrivere, dunque, è avere la possibilità di conoscere il mondo in altro modo, in altra forma?Sicuramente trovare la “parola giusta” mi pare il primo compito e la prima aspirazione di chi scrive. Una volta il poeta era addirittura colui che dava il nome alle cose, come Adamo nel giorno della creazione. Oggi questa convinzione non è così forte, e questo indebolimento è costitutivo della nostra condizione di oggi. Ma ciononostante penso che continui ad essere vero che scrivere, come leggere, per questo essere che è l’uomo, per cui cioè il linguaggio è qualcosa di fondamentale, è anche un modo di acquisire e di comunicare conoscenza.Infatti nel momento dell’invenzione, dove credevamo di trovare solo la parola giusta, troviamo anche un significato inatteso, di cui noi stessi per primi ci stupiamo. E il lavoro per trovare questa parola è non solo estetico, ma innanzitutto etico, fatto di apertura e disponibilità, forse le stesse dei bambini a cui tu accenni. Richiede mettere in discussione noi stessi e il nostro rapporto con le cose; e per farlo al meglio la scrittura interroga sempre anche se stessa, e per questo è viva.Purtroppo spesso mancano le parole per dire, allora dove non arriva la parola interviene l’“aura”. A volte isolare la parola la lascia risuonare in tutta la sua ricchezza; a volte combinare le parole fra di loro fa nascere corti circuiti, accumuli, silenzi e sonorità capaci di trasmettere ciò che sfugge alla nominazione. Così tra le parole sembra circolare il respiro stesso delle cose, e costituisce quello che tu chiami una possibilità di conoscere il mondo in altra forma. La scrittura ha infatti la capacità di illuminare il particolare e il transitorio, con le sue zone d’ombra e le sue contraddizioni. Il pensiero, la politica, le grandi astrazioni non lo fanno.5. Esiste, a tuo avviso, nella scrittura, il compito di restituire qualcosa? Di dar conto di un dono?Da sempre si confrontano due modi di intendere la scrittura: come risposta a una mancanza, a una ferita, quasi una compensazione, una soddisfazione vicaria; o come il frutto di una esuberanza, una sovrabbondanza di vita che trabocca. A me pare che in fondo in fondo la dualità non esista: anche se si tratta di una ferita, essa dà sangue che produce nuova vita. In questo senso la scrittura è un dono, sempre, che è sufficiente ricompensa a se stesso, anzi presuppone una gratitudine: se scrivo, è perché qualcosa vale, qualcosa resta, fosse pure il dolore, la rabbia; è perché c’è vita, che accolgo e rilancio, fosse pure l’esperienza di una lacerazione o di un vuoto. E accade come dice Nietzsche in “Umano troppo umano” (ma anche Leopardi lo diceva prima di lui), “Tutte le cose buone sono forti stimolanti della vita, persino ogni buon libro che sia scritto contro la vita”.6. Il tuo stile mi ha ricordato molto Calvino. In genere una scrittura che fa ordine, piuttosto che farsi trascinare. Una scrittura responsabile. Responsabilità verso se stessi o anche verso il lettore?In “Paulu Piulu” rievoco in questo modo le mie prime esperienze di lettura sul tavolo di cucina, al tempo del primo anno di scuola: “Attorno c’erano i gesti sbilenchi, le parole sbagliate, le risposte arcane, la penuria dei pasti, i vestiti sulle sedie ad asciugare, le scarpe strette, i cappotti sui letti, i bicchieri rotti, i calcoli fino all’ultima lira. Però nel libro tutto era bello e a posto”. Questa mi pare una qualità della scrittura, che persino ciò che è caotico, brutto, scomposto in essa trovi una forma. Sì, probabilmente è un’esigenza di chiarezza e di precisione, necessarie da una parte per raggiungere una scrittura il più possibile fedele all’ascolto; e dall’altra necessarie per acquistare la levità giusta per raggiungere l’altro. È perciò una forma di responsabilità, sia verso se stessi sia verso gli altri.7. Chi incomincia a scrivere sa bene che risponde spesso a una voce misteriosa. A un impulso irrefrenabile. Io credo che debba prima scrivere, poi cercare i simili. Infine il pubblico. Credi che questa progressione possa funzionare per tutti? E per te, com’è stato?Mi pare che ogni opera abbia una vita a sé, ma penso comunque che anch’io possa riconoscermi nella progressione che tu indichi. Pare anche a me che la partenza sia quello che tu chiami impulso. Succede che tutti abbiamo a un certo punto da fare dei conti con la nostra vita o col nostro tempo o con un’esperienza vera o immaginaria significativa. La prima età con cui si fanno i conti mi pare la giovinezza. E così, dopo una fase di scrittura “giovanile”, il mio primo impulso è stato scrivere un romanzo sulla giovinezza, poi l’impulso è stato tenuto a coltura e meditato, è cresciuto piano piano, finché è diventato bisogno e urgenza. Ne è nato il mio primo romanzo, “L’ora del caldo”, a cui ho cominciato a lavorare nel ‘92, ma che è anche quello che ancora adesso mi soddisfa di meno.Dopo avevo altri progetti per la testa (quello che poi sarebbe diventato “Elle”), quando all’improvviso nel ‘94 una sera mi è venuto forte un ricordo e il modo, che trovavo bello, di dirlo. L’ho scritto, e a sorpresa sono emersi tanti altri ricordi, proprio tanti, così che ho messo da parte quello che avevo in mente per dedicarmi a questo flusso, da cui è nato “Paulu Piulu”. Dico questo per dare l’idea di quello che io intendo quando si parla di “necessità”: per me vuol dire che un’opera s’impone, che un tema, delle immagini, delle parole continuano a crescerci dentro e ci accompagnano per giorni e giorni fino a trascinarci a scrivere.Una volta che l’opera era già in essere ho pensato agli altri, a chi idealmente potevo dedicarla, quindi ai cosiddetti “lettori ideali”.Giorgio MoraleCommenti»1. alessandra paganardi – Febbraio 28, 2008 Caro Giorgio, caro Sebastiano,grazie per questo bel dialogo. Anch’io sento di dovere molto ai miei maestri, sebbene, purtroppo, se ne possano incontrare molti di cattivi. E’ molto brutto quando ciò accade a persone care più giovani di noi, come un figlio, un nipote o un allievo. Ma forse, per vie diverse, servono anche queste figure negative. La tua storia e i tuoi ricordi, Giorgio, pur nella diversità di ambienti e di esperienze, hanno molte analogie con i miei vissuti. Desidero riflettere, in particolare, a proposito della poesia che ti commuoveva: credo che tutti, ma in particolare noi che scriviamo, abbiamo una fiaba privilegiata, che ci ha dato l’”imprinting” emotivo a scrivere la nostra visione del mondo. Avevo quasi dimenticato che la “mia” fiaba è stata il “Principe felice”: una storia quasi ignorata, che ha molte analogie con la tua poesia. Grazie per avermelo riportato alla memoria. Buona continuazione, un forte abbraccio. Alessandra Paganardimessage

Intervista a Giorgio Morale sulla scritturaultima modifica: 2008-02-28T17:59:58+01:00da mangano1
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Un pensiero su “Intervista a Giorgio Morale sulla scrittura

  1. Grazie, Attilio, della bella sorpresa. E grazie, Alessandra, per condividere la tua esperienza e la tua “fiaba privilegiata”.

    Capisco, Alessandra, cosa vuoi dire quando parli di maestri cattivi, e penso che in molti casi regalano una sofferenza inutile, di cui si potrebbe volentieri fare a meno…

    Un abbraccio
    Giorgio

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