Intervista a Naoki Sakai : la co-figurazione dell’altro

bdf43a9f5ebfa76e355329dab0e5a03c.jpgUn’intervista con Naoki Sakai di Giulana Benvenuti e Paolo Capuzzo -da IL MANIFESTO mercoledì 27 febbraio 2008.[…] La questione della soggettività, nell’orizzonte moderno, è stata tradizionalmente posta nei seguenti termini: come una o più persone rappresentano sé a se stesse. Quando parlo di «co-figurazione» voglio introdurre una dimensione dialogica nella questione della definizione dell’identità. Penso che dobbiamo chiederci in che modo la rappresentazioneche gli altri danno di noi influenzi la costituzione dell’identità. Nel caso dell’Asia lo schema della «co-figurazione» ci mostra come il «noi» degli asiatici si sia formato storicamente attraverso la costruzione immaginaria di un «loro» da parte degli europei. Non dobbiamo tuttavia pensare una logica binaria, perché la costruzione dell’identità ha una natura dialogica che implica l’interazione di diversi soggetti con diversi livelli di relazione e di potere. […]Quella traduzione del mondo nelle parole della sovranità Il traduttore rende rappresentabile la differenza tra due lingue. In questo senso, è un soggetto in transito che tuttavia esercita un dominio perché è lui a decidere di mettere in comunicazione l’interno (la mia lingua) con l’esterno(la lingua dell’altro) L’identità nazionale è l’esito di una relazione di potere e di adattamento cheogni paese stabilisce con le immagini dominanti di «national building».Un’intervista con lo studioso giapponese, animatore della rivistaNei giorni scorsi Naoki Sakai, uno dei più originali critici postcoloniali asiatici,ha partecipato a un convegno svoltosi a Rimini, dedicato alle prospettiveinternazionali su lingua, cultura e cittadinanza, e a un seminariobolognese.Sakai insegna negli Stati uniti, al Dipartimento di «AsianStudies»» della Cornell University, e si è occupato delle dinamiche politicheconnesse alle relazioni di potere transnazionali, alle trasformazioni dellostato-nazione, ai concetti di moltitudine, soggettività e «razza», nonché aldibattito filosofico e linguistico sulla traduzione. Il suo viaggio in Italia harappresentato un’importante occasione per discutere le sue tesi sullacomplicità tra globalizzazione e culture nazionaliste e per un confronto sulleidentità interrelate di Asia ed Europa. Ma anche per porre al centro deladiscussione pubblica un innovativo punto di vista sulla traduzione, elementofondante non solo dell’analisi dei rapporti di potere del mondo globalizzato,ma anche della formazione di un nuovo «soggetto moltitudinario». Loabbiamo incontrato dopo il seminario bolognese.Nelle giornate di studio bolognesi ha introdotto il concetto di «co-figurazione»in riferimento al rapporto tra Europa e Asia. Può spiegare cosa intende conquesto termine?Credo che ogni definizione dell’identità sia in primo luogo una questione diidentificazione e che l’Asia non sia un’eccezione. La questione dellasoggettività, nell’orizzonte moderno, è stata tradizionalmente posta neiseguenti termini: come una o più persone rappresentano sé a se stesse.Quando parlo di «co-figurazione» voglio introdurre una dimensione dialogicanella questione della definizione dell’identità. Penso che dobbiamo chiederciin che modo la rappresentazione che gli altri danno di noi influenzi lacostituzione dell’identità. Nel caso dell’Asia lo schema della «co-figurazione»ci mostra come il «noi» degli asiatici si sia formato storicamente attraverso lacostruzione immaginaria di un «loro» da parte degli europei. Non dobbiamotuttavia pensare una logica binaria, perché la costruzione dell’identità ha unanatura dialogica che implica l’interazione di diversi soggetti con diversilivelli di relazione e di potere.Prendiamo l’esempio del Giappone. Nel Settecento si è posta la questionedella nazione. Per il Giappone il riferimento nazionale era la Cina, ma allametà dell’Ottocento il riferimento divenne la Gran Bretagna, che soppiantòdecisamente il modello cinese. In questa fase storica il modello diidentificazione aveva come principale riferimento la borghesia britannica, chedivenne l’immagine dell’intero Occidente. Dopo la Seconda guerra mondialel’Occidente, per i giapponesi, ha iniziato ad includere l’America e Americasignificava esclusivamente Stati Uniti, non certo l’America Latina.Oggi l’identità giapponese è ancora molto influenzata da come vienerappresentato l’Occidente e questo pone non pochi problemi perché ilGiappone ha sempre avuto e continua ad avere relazioni importanti conpaesi come la Corea e la Cina. Ma non è più chiaro come rapportarsi ad essi,visto che l’identità giapponese si è costruita nella relazione privilegiata conl’Occidente. E anche dall’altra parte vi sono difficoltà perché il Giappone èstato percepito come un paese facente parte dell’Occidente, come un imperoal pari degli Stati Uniti.Certo, il Giappone ha conosciuto l’esperienza di un doppio livello di relazioniimperiali. Da una parte ha vissuto una condizione di soggezione a grandiimperi come la Cina o gli Stati Uniti, ma al tempo stesso ha esercitato unafunzione imperiale in varie parti dell’Asia….L’impero cinese ha avuto un ruolo importante per il Giappone fino all’iniziodell’Ottocento, ma teniamo presente che non è mai stato una nazione. È unfatto importante perché il Giappone, al contrario, ha costruito la propriaidentità come nazione. Anzi, si è considerato l’unica entità nazionalepresente in Asia, almeno fino al collasso dell’impero giapponese nel 1945. Isuoi modelli di nazione sono comunque sempre stati occidentali. Inparticolare l’Inghilterra e la Francia sono stati i modelli di nation buildingnellastoria giapponese. È solo con il ’45 che si è iniziato a percepire il processodination building giapponese come un processo di progressiva inclusione diminoranze, avvenuto attraverso l’apparato imperiale.A questo proposito, è interessante porre la questione del postcolonialismo, inparticolare nella relazione tra Giappone e Corea. Non crede?Per quanto riguarda la Corea dobbiamo riferirci al momento della suaindipendenza, avvenuta nel 1945 in seguito alla sconfitta del Giappone nellaSeconda guerra mondiale. Il Giappone, che non aveva riconosciuto fino aquel momento un’identità coreana separata dall’identità imperiale, nonsapeva più come relazionarsi a questa nuova entità. La stessa difficioltàvaleva anche per la Cina. Il problema si è posto in modo molto evidente apartire dagli anni Ottanta, quando le relazioni economiche, complicate dalprocesso di globalizzazione, hanno reso Cina e Corea concorrenti diretti delGiappone. E ciò ha avuto ripercussioni nei rapporti con gli Stati Uniti, ancheperché gli americani nel dopoguerra avevano una qualche fantasia imperialerispetto al Giappone. Ma negli anni Ottanta si sono confrontati con unaconcorrenza molto efficace. L’acquisto del Rockfeller Center da parte dellaSony fu soltanto l’episodio simbolicamente più plateale di queste mutaterelazioni.Tutto ciò mi sembra un buon esempio di «co-figurazione», vale a dire diidentità che si definiscono dialogicamente attraverso relazioni multiple.Quindi, nella mia prospettiva, il postcolonialismo ha poco a che fare con lacaduta dei regimi coloniali. Il post di postcolonialismo indica piuttosto chel’immaginario che segnava la relazione coloniale è inscritto incisivamentenelle identità odierne, al di là di quanto esse corrispondano o meno a delleesperienze collettive del passato.Una delle relazioni che lei ha problematizzato è quella tra l’unità della linguae l’unità della nazione. Perché è improprio parlare di unità della lingua?Non sostengo che oggi giorno non vi siano lingue nazionali. Il mio problemaè un altro. È quello di pensare all’origine delle lingue nazionali in un sensogenealogico. Ad esempio, nel Settecento in Giappone non vi era alcuna ideadi una lingua giapponese. La lingua scritta e quelle parlate facevanoriferimento ad una molteplicità di fonti e i parlanti spesso non si capivano tradi loro. Anche i dialetti e le forme regionali erano davvero molto diversificatieavevano tutta una serie di varianti ibride. Le èlite invece comunicavanoattraverso il cinese classico. Lo stesso si può dire della Cina. E allora midomando: perché le lingue dovrebbero essere unità discrete come le mele ele arance e non invece fluide come l’acqua?L’idea di un giapponese standard viene introdotta soltanto nel 1868, almomento della restaurazione Meji. Si trattava di una lingua del tuttoartificiale,introdotta intenzionalmente al fine di superare i conflitti locali. E perrealizzarequesto processo fu determinante la creazione di un sistema scolasticonazionale. Lo stesso si può dire dell’esercito. La creazione di un esercitonazionale fu un fondamentale veicolo di unificazione linguistica. Si miseinsomma in atto un consapevole processo di nation building che ebbe unsuccesso molto rapido. Il punto è che si è trattato di un processo artificiale,cioè costruito: non vi era nulla di naturale, perché avrebbero potuto prenderela lingua nazionale da qualsiasi parte. Alla scelta di elaborare un giapponesestandard hanno inoltre contribuito anche discipline moderne come lalinguistica.Posto che l’unità della lingua nazionale è strettamente connessa allacostruzione di un’identità nazionale e si propone di sostanziare unsentimento di integrazione nazionale, esaminare genealogicamente laformazione dell’unità della lingua consente di mettere in discussione l’idea diun’identità etnica fondata su delle origini naturali e dunque tuttol’immaginario associato con la lingua e la cultura nazionali.Le sue riflessioni sul linguaggio portano ad una rinnovata attenzione allatraduzione, intesa in senso ampio entro la rete di relazioni tra lingua, culturaeidentità. Nel suo libro del 1997, ha parlato di «soggettività in transito», checosa intende con questa definizione?Si tratta di un concetto correlato a quello di «co-figurazione». Quando si parladi traduzione generalmente si fa riferimento al rapporto tra due lingue. Ma aquesta prospettiva manca la percezione della presenza di un terzo agentenella comunicazione. Ad esempio, io non conosco la lingua russa e quandoincontro un russo non capisco che lingua sta parlando. È solo la presenza diun interprete a farmi capire che si tratta del russo. Senza la sua presenza nonsarei neppure in grado di capire che si tratta di un’altra lingua e che esisteungap tra le due lingue. Questo significa che il traduttore è colui che renderappresentabile la differenza tra due lingue. In questo senso il traduttore è unsoggetto in transito perché si sposta continuamente da una lingua all’altra edesercita una sovranità in quanto è lui a decidere di mettere in comunicazionel’interno (la mia lingua) con l’esterno (la lingua dell’altro). È un soggettochesi definisce in termini di «co-figurazione», di relazione, non semplicemente diautorappresentazione e per questo è un soggetto frammentato perché sidefinisce attraverso le sue molteplici relazioni.Lei è tra i promotori della serie di volumi «Traces», che hanno alcuni centri diinteresse privilegiati (biopolitica, modernità, globalizzazione) e tra questi latraduzione. Può raccontarci com’è nato questo progetto e quali sono le sueintenzioni?Il gruppo si è formato negli anni Novanta sulla base di un comune interesseper il rapporto tra lingua inglese e imperialismo. Generalmente l’approcciocritico a questo tema conduce alla rivalutazione delle lingue nazionali. Nonera questa la nostra posizione e abbiamo perciò cercato di creare uno spaziodi relazione tra lingue – del quale l’inglese fa parte, ma sul quale nonesercitauna funzione dominante – e di collocare la nostra attività intellettuale inquesto spazio. Ho girato il mondo per espandere questo progetto. Sono statoin Inghilterra, Francia, Germania, Singapore, Cina, Giappone, Australia enaturalmente in Canada e negli Stati Uniti.In questo momento i volumi della collana escono in quattro lingue (coreano,cinese, giapponese e inglese) e l’abbiamo collocata in quattro mercatieditoriali nazionali. Non si tratta insomma di volumi scritti in quattro lingue,madi quattro edizioni che fanno riferimento ai relativi mercati editoriali. E conunacerta sorpresa abbiamo costatato che il mercato americano è quello piùmodesto. Siamo consapevoli dei limiti di questo progetto, ad esempio lelingue in Cina sono numerose e non raggiungiamo perciò l’intero pubblico.Ma si tratta di un passo in avanti. Stiamo attualmente trattando con deglieditori tedeschi. È una serie di volumi monografici che si caratterizza per laforte interdisciplinarietà, ma la gran parte del lavoro riguarda la traduzioneperché riceviamo testi da più lingue che vengono poi tradotti. È il tentativo diaprire uno spazio comune di riflessione intellettuale sulla base di unamolteplicità di lingue e non sull’universalismo della lingua inglese. E questoriguarda anche gli autori che sono chiamati a rivolgersi ad un pubblicomoltitudinario, alla «moltitudine che io sono».PostcolonialeRelazioni transfrontaliere di un intellettualeNaoki Sakai nasce e studia a Tokyo. È un intellettuale molto presente neldibattito giapponese anche dopo il trasferimento negli Usa, dove insegnaprima all’Università di Chicago e poi alla Cornell University. Della sua ampiaproduzione, in parte disponibile solo in giapponese e in altre lingue asiatiche,vanno segnaliti due volumi usciti in inglese: «Voices of the Past: The Status ofLanguage in Eighteenth-Century Japanese Discorse» (Cornell UniversityPress) e «Translation and Subjectivity: On “Japan” and Cultural Nationalism»(University of Minnesota Press).Alla fine degli anni Novanta ha lanciato la collana «Traces»: attualmentepubblicati dalla Hong Kong University Press, i volumi della collana – fino aoggi ne sono stati pubblicati quattro – escono contemporaneamente ininglese, cinese, giapponese e coreano. «Traces» è intesa come una radicalesfida alla «differenza coloniale» che secondo Naoki Sakai continua aorganizzare la produzione e la circolazione del sapere e si presenta comespazio transnazionale e translinguistico di elaborazione critica della propriacollocazione geografica nell’Asia orientale ma aperto a contributi provenientida altre realtà. Per una presentazione del progetto, il sito internet:

Intervista a Naoki Sakai : la co-figurazione dell’altroultima modifica: 2008-02-28T16:58:30+01:00da mangano1
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