Stefano Tassinari, Pietro Tresso, chi era costui?

65977030315db0fbb912191dfce64483.jpgda LIBERAZIONE 29/03/2008La storia di Pietro Tresso, imprigionato e “giustiziato” in Francia da resistenti come lui perché trotskista. Un’anticipazione da “Il vento contro” di Stefano Tassinari a giorni in libreria«Io partigiano, per gli staliniani canaglia e spia»da “Il vento contro” di Stefano Tassinari, Tropea pp.190, euro 13Dintorni di Queyrières, Alta Loira, 20 ottobre 1943Cammina a fatica, Pietro, e anche Abraham incespica nelle proprie scarpe aperte dal gelo della montagna, e dalle troppe notti passate in cella, e dai giorni incomprensibili di questo strano sequestro. Tra loro parlano piano, usando le parole strascicate di una lingua straniera da fuorusciti, imparata nei lunghi anni dell’esilio, in una Parigi di fughe e di riunioni, e di cambi d’appartamento in men che non si dica. Sono parole amare le loro, stordite da ordini urlati in un francese pronunciato con diversi accenti, mentre la neve ghiaccia anche i pensieri. E sono parole condivise, questa volta, dopo i litigi feroci e i saluti sospesi, e poi ripresi come se niente fosse, tra una scissione e un riavvicinamento, un vecchio partito da lasciare e uno nuovo da fondare, con gli occhi rivolti a una purezza sempre fuori stagione, e il cuore in subbuglio per le amicizie e gli amori che restano dall’altra parte. C’è una meta da raggiungere, così hanno sentito dire, ma non si sa perché. Le loro mani sono libere, eppure sentono di essere dei prigionieri, trattati senza garbo da comunisti come loro, ma diversi, molto diversi.. Pietro si gira verso Jean e Maurice, gli altri due con i quali lui e Abraham formano il quartetto dei guardati a vista, dei compagni che nessuno chiama compagni, né prima, quando erano rinchiusi nel carcere di Le-Puy-en-Velay, né dopo che un gruppo di maquisards li ha liberati assieme ad altri settantacinque prigionieri politici, prendendo d’assalto la prigione. Ma Jean e Maurice sono troppo distanti per sentire le sue eventuali parole, e allora lui si limita a uno sguardo d’intesa, che li vorrebbe rassicurare senza riuscirci. Il quartetto, in realtà, sarebbe un quintetto, ma da un paio di settimane Albert è sparito. È successo pochi giorni fa, prima delle nevicate. Gli avevano ordinato di andare a funghi nella foresta del Méygal, la stessa in cui si trovano adesso, pochi chilometri più a est rispetto al campo partigiano di Raffy, piccolo borgo di fattorie abbandonate posto proprio sopra il villaggio di Queyrières, nell’Alta Loira. Mancava il cibo per i resistenti, e quando c’è poco da mangiare i funghi vanno benissimo. Erano partiti in tre, verso le sette del mattino, ma il giorno dopo, quando già si pensava a un’imboscata, ne rientrò soltanto uno e senza notizie di Albert. Ufficialmente si erano persi in questo bosco fittissimo e quasi buio, il che potrebbe essere credibile, ma da quel giorno uno dei capi del campo “Wodli”, Théodore Vial detto Massat, a Pietro e agli altri era apparso più nervoso del solito. Ora Massat cammina davanti a loro, con un mitra a tracolla e un basco scuro calcato sulla testa. Cammina e basta, senza dire niente, come se conoscesse la strada a memoria. Sembra l’unico a sapere dove porti questo sentiero stretto tra gli alberi, ma è inutile fargli domande, perché tanto lui non risponde, oggi come un anno fa, quando erano rinchiusi tutti nella stessa prigione, lui, Pietro, Albert, Jean, Abraham, Maurice e tanti altri antifascisti arrestati dai tedeschi o dai poliziotti della Repubblica di Vichy. In galera, a loro cinque, né Massat né gli altri avevano mai rivolto la parola. Un giorno, durante l’ora d’aria, Pietro gli aveva chiesto d’accendere e Massat, senza guardarlo in faccia e rivolgendosi soltanto al resto dei detenuti, era salito su un gradino urlando: «Che nessuno si azzardi a dare neanche un fiammifero a queste canaglie, a questi traditori, a queste spie della Gestapo. È un ordine!».Canaglie, traditori, spie della Gestapo… . A Pietro era salita in corpo una rabbia incontenibile, eppure ce l’aveva fatta a mantenersi calmo, per non cadere in una trappola fin troppo evidente. Bisognava separare gli aspetti politici da quelli personali, per far sì che i primi non si riflettessero negativamente sui secondi. Ne aveva accennato, in una lettera, anche a Gabriella Seidenfeld, sorella della sua compagna Barbara. «Mia cara Gabriella… il punto nero per noi, qui, sono i nostri rapporti con gli staliniani. Per questi signori noi siamo, naturalmente, una banda di vipere lubriche e tutta la tiritera che senza dubbio conoscete. Di conseguenza, i nostri rapporti con loro si riassumono nella mancanza di ogni rapporto, di qualsiasi tipo esso possa essere. Loro ci ignorano e noi li ignoriamo. Dal punto di vista personale questo non mi preoccupa affatto, ma il loro odio contro di noi non ha limiti. Tanto peggio».Canaglia, traditore, spia della Gestapo… proprio a Pietro, a Pietro Tresso detto Blasco, già militante dei giovani socialisti fin da ragazzino, poi condannato da un tribunale come sovversivo e oppositore della guerra e per questo spedito in trincea per trentatrè mesi con il grado di tenente in un battaglione punitivo, dirigente della federazione del Psi di Vicenza nella corrente della sinistra interna, membro fondatore del Partito Comunista d’Italia nel ’21, responsabile del lavoro clandestino del PCd’I, rivoluzionario di professione a Mosca e Berlino, organizzatore sindacale, esule antifascista in Francia, clandestino ai Castelli romani e sulla costa genovese, componente, per anni, dell’Ufficio Politico e del Comitato Centrale del PCd’I… .Canaglia, traditore, spia della Gestapo! Nell’osservare il mitra che dondola appeso a una spalla di Théodore Vial, Pietro, disarmato come i suoi tre compagni, sente risuonare quelle calunnie indecenti come se fossero proiettili sparati dalla bocca di Massat, e poi dalla sua arma, puntata all’improvviso contro di loro. Pensa ad Albert, Albert Demazière detto Bébert, l’amico e il compagno di battaglie e prigionie. Sarà riuscito a scappare, approfittando del disorientamento dei due controllori, o il suo corpo starà marcendo da qualche parte qui vicino, sotto questa coltre di neve? E poi pensa a Debora Seidenfeld, che lui, come tutti, ha sempre chiamato Barbara: vent’anni di vita insieme, e non una vita facile, ordinaria o qualsiasi, di quelle garantite dai soldi, dall’obbedienza, o dall’integrazione sociale. No, tutt’altro, la loro è stata una vita avversa alla normalità dei destini come ai tanti ordini costituiti, scandita dall’amore e dalle separazioni forzate, dai documenti falsi e dalla vie di fuga, dalle infamie subite e da quelle finite fuori bersaglio. Dalla notte dell’evasione, quella tra il primo e il due di ottobre 1943, Barbara non sa più niente di lui e lui di lei. Prima si scrivevano due volte alla settimana, limite stabilito dal regolamento del carcere, e qualche volta lei era riuscita a fargli visita, anche se solo per mezz’ora e con due grate di ferro a separarli. Erano lettere di preoccupazione e di affetto reciproci, ma anche di inattesa fiducia nel futuro e di convinzione nella capacità di entrambi di resistere…«Gli avvenimenti sembrano precipitare ed il giorno della nostra liberazione può essere vicino. Sono certo che, per quel giorno, tu sarai a le Puy ad aspettarmi all’uscita della prigione e mi porterai una camicia e una cravatta. Per il resto mi cambierò a casa. Ma ne avremo certamente ancora per qualche mese almeno. Coraggio, coraggio. Baci. Tuo Pietro».da “Il vento contro” di Stefano Tassinari, Tropea pp.190, euro 1329/03/2008

Stefano Tassinari, Pietro Tresso, chi era costui?ultima modifica: 2008-03-29T20:39:07+01:00da mangano1
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