Jack Goody, Orientamenti obliqui per la freccia del tempo

463807908838117cb6441be5661e4a7a.jpgda IL MANIFESTO, 31 marzoLa cultura occidentale si è appropriata del tempo e dello spazio e ha rivendicato (a torto) l’invenzione di istituzioni come la democrazia: è questa la tesi avanzata da Jack Goody nel saggio «Il furto della storia» in uscita per Feltrinelli. Anticipiamo uno stralcio Allo scopo di contrastare il carattere etnocentrico di ogni tentativo di descrizione del mondo, è necessario elaborare una nuova metodologia che sia fondata su una prospettiva più critica Dall’inizio del diciannovesimo secolo, grazie alla presenza europea in tutto il mondo a seguito delle conquiste coloniali e della Rivoluzione industriale, la costruzione della storia mondiale è stata dominata dall’Europa occidentale. Anche presso altre civiltà, come la araba, la indiana, la cinese, si sono avute storie del mondo caratterizzate da parzialità (tutte le storie sono in qualche misura parziali); anzi, sono rare le culture prive dell’idea, sia pure rudimentale, che il proprio passato è in relazione con quello di altri, anche se i più iscriverebbero tali resoconti nella categoria del mito piuttosto che della storia. Un indispensabile scetticismoLa caratteristica dei resoconti europei, comune del resto anche a società molto più semplici, è stata la tendenza a sovrapporre la propria storia al mondo più ampio, a causa di una inclinazione etnocentrica, a sua volta estensione dell’impulso egocentrico che sta alla base di gran parte della percezione umana; e la possibilità da parte dell’Europa di dare corso a tale inclinazione è dovuta al suo effettivo dominio in molte parti del mondo. Ciascuno inevitabilmente vede il mondo con i propri occhi, non con quelli altrui. E sebbene in tempi recenti siano emersi orientamenti contrari in tema di storia mondiale, a mio parere questo indirizzo non è stato portato sufficientemente avanti a livello teoretico, soprattutto per ciò che riguarda le grandi fasi in cui concepire la storia mondiale.Per contrastare l’inevitabile carattere etnocentrico di qualunque tentativo di descrizione del mondo, passato o presente, occorre porsi in una prospettiva più critica. Questo significa innanzitutto assumere un atteggiamento di scetticismo riguardo alla pretesa occidentale, in particolare da parte dell’Europa (ma, beninteso, anche dell’Asia), di avere inventato pratiche e valori come la democrazia o la libertà. In secondo luogo, significa guardare la storia a partire dal basso anziché dall’alto (o dal presente). In terzo luogo, significa assegnare un peso adeguato al passato extra-europeo. Infine, occorre prendere coscienza del fatto che la stessa struttura portante della storiografia, la collocazione degli avvenimenti nel tempo e nello spazio, è variabile, soggetta a costruzione sociale e dunque a cambiamento. Non è fatta, cioè, di categorie immutabili, che promanerebbero dal mondo stesso nella forma in cui esse sono presenti alla coscienza storiografica occidentale. Gli abitanti del «vecchio paese»Le dimensioni temporale e spaziale oggi prevalenti furono tracciate dall’Occidente. Ciò avvenne perché l’espansione nel mondo rese necessarie la notazione cronologica e la costruzione di mappe, le quali fornirono l’intelaiatura non solo della geografia ma anche della storia. Beninteso, tutte le società hanno conosciuto concetti spaziali e temporali intorno ai quali organizzare la vita quotidiana. Tali concetti diventarono più elaborati (e più precisi) con l’avvento dell’alfabetizzazione, che fornì indicatori grafici per entrambe le dimensioni. Fu la prioritaria invenzione della scrittura, piuttosto che il possesso di una qualche intrinseca verità circa l’organizzazione spazio-temporale del mondo, a conferire alle più importanti società dell’Eurasia notevoli vantaggi nel computo del tempo e nella creazione e nel perfezionamento della cartografia, rispetto, per esempio, all’Africa, che aveva una cultura orale. (…) Il «furto della storia» non è soltanto l’appropriazione del tempo e dello spazio, ma anche la monopolizzazione dei periodi storici. Quasi tutte le società sembrano compiere qualche tentativo di classificare il proprio passato secondo differenti periodi di tempo di lunga durata, rapportati alla creazione non tanto del mondo quanto dell’umanità. Se, come è stato detto, per gli eschimesi il mondo è sempre stato come è ora, nella grandissima maggioranza delle società gli esseri umani di oggi non sono considerati gli abitatori primigeni del pianeta. La loro presenza sulla terra ha avuto un momento di inizio, che presso gli aborigeni australiani era chiamato «il tempo del sogno»; secondo i loDagaa del Ghana settentrionale, i primi esseri umani abitavano «il vecchio paese» (come tengkuridem). Calcoli cristianiCon la comparsa della «lingua visibile», la scrittura, la periodizzazione sembra farsi più complessa; troviamo l’idea di una primitiva età d’oro o paradiso, quando il mondo era un posto migliore in cui vivere, che l’umanità sarebbe stata costretta ad abbandonare a causa del suo (peccaminoso) comportamento: il contrario dell’idea di progresso e di modernizzazione. Altri ancora elaborarono una periodizzazione basata su cambiamenti nella natura degli utensili usati dagli esseri umani, che potevano essere di pietra, di rame, di bronzo o di ferro, una periodizzazione delle età dell’uomo che fu assunta come modello scientifico dagli archeologi europei del diciannovesimo secolo. In epoca relativamente recente, l’Europa si è appropriata del tempo in maniera più decisa, applicando la propria versione al resto del mondo. Beninteso, è indispensabile inserire la storia mondiale in un’unica cornice cronologica, se la si vuole considerare unitariamente. Ma si è dato il caso che il calcolo internazionale del tempo sia fondamentalmente cristiano, come cristiane sono le più importanti festività – Natale e Pasqua – celebrate da organismi mondiali come le Nazioni Unite, e questo vale anche per le culture orali del Terzo Mondo, che pure non aderivano al sistema di calcolo usato da quella che è solo una tra le maggiori religioni. Un certo grado di monopolizzazione è necessario nella costruzione di scienze universali come, poniamo, l’astronomia. Anche la globalizzazione comporta un certo grado di universalità: non si può operare con concetti meramente locali. Ma benché lo studio dell’astronomia fosse nato altrove, le modificazioni avvenute nella società dell’informazione e in particolare nella tecnologia dell’informazione nella forma del libro a stampa (proveniente peraltro, come anche la carta, dall’Asia) fecero sì che, nella sua struttura evoluta, la cosiddetta scienza moderna fosse occidentale. In questo caso, come in molti altri, globalizzazione ha voluto dire occidentalizzazione. L’universalizzazione diventa un problema molto maggiore nelle scienze sociali, per ciò che riguarda la periodizzazione. Nella storiografia e nelle scienze sociali, per quanto gli studiosi si sforzino di conseguire una «oggettività» weberiana, i concetti usati sono più strettamente legati al mondo che diede loro i natali. Per esempio, i termini «antichità» e «feudalesimo» furono chiaramente definiti alla luce di un contesto esclusivamente europeo, pensando al particolare sviluppo storico di quel continente. E nell’applicazione di quei concetti ad altre epoche e ad altri luoghi, sorgono dei problemi perché in quel caso vengono in primo piano i loro limiti molto reali. Dunque, uno dei grandi problemi dell’accumulazione del sapere riguarda il fatto che le categorie impiegate sono esse stesse in larga misura europee, in molti casi definite per la prima volta durante la grande fioritura di attività intellettuale che seguì al ritorno della Grecia alla cultura scritta. Fu allora che furono delineati i campi della filosofia e di discipline scientifiche come la zoologia, poi riprese in Europa. Sicché la storia della filosofia, quale è incorporata nei sistemi scolastici europei, è sostanzialmente la storia della filosofia occidentale dai greci in avanti. In anni recenti, gli studiosi occidentali hanno marginalmente dedicato qualche attenzione a temi analoghi presenti nel pensiero (pensiero scritto, cioè) cinese, indiano o arabo. Minore attenzione ricevono, comunque, le società prive di scrittura, benché si riscontrino tematiche a tutti gli effetti «filosofiche» nelle narrazioni orali rituali, come il mito del Bagre dei loDagaa del Ghana settentrionale. La filosofia è pertanto quasi per definizione una disciplina europea. Come è avvenuto per la teologia e per la letteratura, abbastanza di recente sono stati introdotti alcuni elementi comparatistici, come concessione a interessi indotti dalla globalizzazione. Ma, in realtà, la storiografia comparata rimane in gran parte un’utopia. (…)La linearità è un elemento costitutivo dell’idea di «progresso», che noi consideriamo «avanzata». Secondo alcuni, questa nozione è tipica ed esclusiva dell’Occidente, e in qualche misura effettivamente lo è, essendo attribuibile alla velocità delle trasformazioni avvenute principalmente in Europa a partire dal Rinascimento, nonché alle applicazioni della «scienza moderna» come la definiscono Needham e altri. Io direi piuttosto che una qualche nozione di progresso è tipica di tutte le culture scritte, con la loro introduzione di un calendario fisso, che per così dire traccia una linea di demarcazione. Ma questa non segnala affatto una progressione unidirezionale. Quasi tutte le religioni scritte contengono l’idea di una età d’oro, di un paradiso o giardino naturale, dal quale l’umanità dovette in seguito ritirarsi. Tale nozione comportava un guardare all’indietro, oltre che, in alcuni casi, un guardare in avanti verso un nuovo inizio. Anzi, un’analoga idea di paradiso si riscontra anche in culture orali. Ma nel passato si individuava una cesura netta; soltanto dopo l’Illuminismo, con l’imporsi della secolarizzazione, troviamo un mondo governato dall’attuale idea di progressione, non tanto verso una determinata meta, quanto da uno stato precedente dell’universo a qualcosa di differente, addirittura impensato, come nel caso dell’aeroplano, risultato insieme della ricerca scientifica e dell’ingegno umano.Uno degli assunti di fondo di molta storiografia occidentale è che nell’organizzazione delle società umane la freccia del tempo coincida con un equivalente incremento di valore e desiderabilità, cioè con il progresso. La storia diventa una sequenza di stadi, ciascuno derivato dal precedente e introducente al successivo, fino al culmine finale, che per il marxismo, per esempio, è il comunismo. Ma non occorre nutrire questo tipo di ottimismo millenaristico per dare una lettura eurocentrica della direzione della storia: per la maggior parte degli storici, il momento in cui scrivono è prossimo se non identico alla meta finale dello sviluppo dell’umanità. In tal modo, ciò che definiamo progresso riflette in realtà valori che sono specifici della nostra cultura, e che oltretutto sono di data relativamente recente. Un dubbio progressoParliamo di progressi nel campo delle scienze, nella crescita economica, nella civiltà, nel riconoscimento dei diritti umani (la democrazia, per esempio). Esistono tuttavia altri criteri in base ai quali misurare il cambiamento, e in certa misura essi sono presenti come discorsi antagonisti perfino nella nostra cultura. Se per esempio usiamo il criterio ambientale, la nostra società rappresenta una catastrofe sul punto di verificarsi. Se parliamo di progresso spirituale (la forma di progresso più importante per alcune società, anche se controversa nella nostra), si potrebbe dire che stiamo attraversando una fase regressiva. A livello mondiale, non si vedono molte prove di progresso dei valori, a dispetto degli assunti contrari che dominano l’Occidente.

Jack Goody, Orientamenti obliqui per la freccia del tempoultima modifica: 2008-03-31T18:38:19+02:00da mangano1
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