Lea Melandri, Ma dove sono stati fino ad ora?

3b8bd0f14385beba4e5c76ac4f1d6f20.jpgda LIBERAZIONE ,29 APRILE 2008Lea MelandriDi fronte alle parole ricorrenti -“radicarsi nel sociale”, “ritorno nei quartieri”, “apertura all’esterno” – viene spontaneo chiedersi: «ma dove sono stati finora?»+++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++Di fronte alle parole ricorrenti -“radicarsi nel sociale”, “ritorno nei quartieri”, “apertura all’esterno” – viene spontaneo chiedersi: «ma dove sono stati finora?». Forse in riunione. Con tutti quegli organismi impalcati l’uno sull’altro, fino alla cima della piramide del partito, l’autoreferenzialità è inevitabile, la schiera dei dirigenti si infoltisce e quando si cerca la “base” ci si accorge che non c’è più. Nel documento della Conferenza nazionale di organizzazione, approvato il 16-17 dicembre 2006, si diceva che la crisi della politica e della forma partito riguardava anche Rifondazione: separatezza dei gruppi istituzionali, burocratismo, centralismo, personalismi, ingessamento del dibattito democratico. Nel Comitato politico nazionale di circa una settimana fa, convocato a ridosso del terremoto elettorale e dietro la pressione di quanti, dentro e fuori Rifondazione, vorrebbero avviarsi rapidamente verso una nuova sinistra “unita e plurale”, l’idea di un possibile scioglimento, reale o immaginaria che sia, ha risvegliato spinte contrarie: la difesa di una “comunità di appartenenza”, il rafforzamento di un “corpo collettivo”, della sua storia, delle passioni che lo hanno alimentato. Un riflesso noto, prevedibile, che parla del difficile rapporto tra “gruppo chiuso” e “gruppo aperto”, tra processi di “accomunamento” e settarizzazione, è venuto a coprire un lutto duplice: la sparizione di elettori fedeli e l’affacciarsi su un vuoto organizzativo, spinto quasi fatalmente verso la figura rassicurante di un leader carismatico. Colpisce il fatto che la minaccia alla propria sopravvivenza, il pericolo di disgregazione, dispersione di qualcosa che è stato conquistato con fatica, si sia così massicciamente spostata sul versante da cui sembrava venire, al contrario, la possibilità di un’apertura e di un potenziamento.«Se nell’estraneo al gruppo non viene colta l’ostilità ma il suo contrario, vale a dire se nell’estraneo noi troviamo non il diverso ma l’uguale, il comune a noi, che pure esiste, allora tutto il movimento di elaborazione del gruppo si svolge con un senso diverso». La “comunanza stessa”, in questo caso, diventa “un bene da estendere” (Elvio Fachinelli, Gruppo chiuso o gruppo aperto? , “Quaderni piacentini”, n.36, nov. 1968). Perché i gruppi, le associazioni, l’assemblea che si è riunita a Firenze il 19 aprile per proporre “case comuni della sinistra”, sperimentazione di “laboratori di analisi e di pensiero”, spazi decisionali aperti a tutti, “fuori da leaderismi e da centralismi democratici”, non ha convinto a procedere nel ripensamento della forma partito avviato a Carrara, il 29 marzo-1 aprile 2007 con la nascita della Sinistra europea? Perché si invocano territori, radicamenti, soggetti sociali perduti, e non si vede la terra su cui si mettono i piedi, luoghi e persone che già ci sono? Perché tanto insistenza sull’ “ascolto” di interlocutori lontani e distratti, e tanta sordità alla voce del vicino? Perché l’accelerazione verso la “costituente” di un nuovo soggetto della sinistra, capace di “impastare” idealmente lotte sociali e culture politiche diverse, non convince neppure chi, come me, non ha storia di partito né desidera averla, e pensa che questa forma organizzativa sia esaurita, e non da ora? Se a molti oggi appare inadeguata l’idea di partito come “organizzazione di combattimento”, centralizzata e gerarchica – una specie di “stato dentro lo stato” – anche il dibattito che dovrebbe aprire la strada a nuove forme organizzative, così come è stato finora, appare molto meno “aperto, ampio, plurale” di quanto prometta. Al di là delle affermazioni, traspare il rischio, sollevato al Cpn da Franco Russo, che a mettersi insieme siano solo “gruppi dirigenti”, e, soprattutto, che si tratti ancora una volta di un ceto politico “neutro”, cioè sostanzialmente maschile, tanto da far rimpiangere la consapevolezza nuova che era apparsa nella relazione di Franco Giordano a Carrara: «E per noi maschi c’è un problema che riguarda l’abbandono di ogni universalismo neutro e del riconoscimento della nostra parzialità, di dismettere il narcisismo che è sempre il segno più pubblico del cerimoniale del potere».Ma non è solo la partecipazione democratica a far difetto in assemblee che dovrebbero far dialogare o confliggere culture diverse, e che si limitano a far sfilare sequenze di interventi “preiscritti”, cioè pensati prima e al di fuori della relazione personale che si crea in un incontro, fuori quindi dagli imprevisti e dai cambiamenti che ne possono sortire. Insieme al femminismo, il pesante rimosso che si porta dietro la sinistra è tutto ciò che, connesso al destino femminile, è stato messo al bando dalla politica: il corpo, la persona, l’intelligenza e la sensibilità legati a esperienze fondamentali come la nutrizione, la riproduzione, l’amore, la cura. Di questa “mutilazione” e delle conseguenze che ne sono derivate alla vita politica, scrive con grande lucidità Marco Deriu, nel suo articolo Gli uomini il desiderio e la crisi della politica (“Pedagogika”, n.6, dic. 2004):«Quando si parla della crisi della politica e della partecipazione, si fa riferimento alla crisi dello Stato, delle istituzioni, dei partiti, dei sindacati. Si fa riferimento cioè alla crisi delle forme, delle strutture, delle organizzazioni. Di conseguenza si propongono riforme, interventi, operazioni di ingegneria politica, nuove aggregazioni politiche nella speranza di colmare il vuoto…La concezione strumentale dell’azione politica, tipica della cultura maschile, tende a deificare i valori e i desideri di cambiamento sociale, trasformandoli in qualcosa di esterno, di oggettivo, di quantificabile. Le persone, in questo tipico modo di agire finalistico, divengono mezzi, strumenti, materia da plasmare per realizzare i nostri progetti razionali. Invano si cercherebbe nei discorsi degli uomini politici uno sforzo di consapevolezza che riconosca il legame tra sé e il mondo, tra la propria esistenza e l’esistenza di altri esseri. In altre parole, quello che ci manca più di ogni altra cosa non è un nuovo progetto politico, un nuovo soggetto o una nuova formazione. Ci manca invece una politica che sia il riflesso di un desiderio autentico e radicale di vivere, di vivere insieme con gli altri».Per un’azione politica che voglia tener dentro “unità e pluralità”, differenza e condivisione, è necessario il rapporto diretto tra persona e persona, ma anche la disponibilità del singolo a lavorare su di sé, a mettersi in discussione. Quando si constata con sorpresa – come nel caso degli operai che hanno votato a destra – che “identità sociale” e “soggettività politica” sono scisse, si dice indirettamente che l’individuo, non solo non coincide col cittadino – anzi, diceva Tocqueville, è il suo “peggior nemico” – ma non si identifica neppure totalmente con la sua collocazione nei rapporti di lavoro, col suo essere in un territorio, né solo col suo ruolo sessuale nella coppia, nella famiglia.L’essenza della politica, il motore primo della conflittualità sociale e della trasformazione, si sono venuti spostando, di volta in volta, su questo o quell’aspetto dell’esistenza, facendolo diventare unico e centrale. Dire che nel “sé”, nel vissuto del singolo si danno concentrati e amalgamati bisogni, identità, luoghi, rapporti, passioni, fantasie, interessi e desideri diversi, è riconoscere che c’è un “territorio” che sfugge, o esorbita, dai confini storici e geografici, dai luoghi della vita pubblica – e quindi irriducibile al sociale – che è la vita psichica, una terra di confine tra inconscio e coscienza, tra corpo e pensiero, in cui affondano radici ancora in gran parte inesplorate.Le “viscere” razziste, omofobe, misogine, su cui la destra antipolitica ha fatto breccia per raccogliere consensi, è il sedimento di barbarie, ignoranza e antichi pregiudizi, ma anche sogni e desideri mal riposti, che la sinistra, ancorata al primato del lavoro e della classe operaia, ha sempre trascurato, come se dopo il grande balzo della coscienza operato da Marx non ci fossero stati altri rivolgimenti altrettanto radicali, come la psicanalisi, il femminismo, la non violenza, la biopolitica, l’ambientalismo.L’individuo, la persona, la soggettività intesa come esperienza del singolo e come corpo pensante, si sono fatti strada con fatica, fuori da vincoli famigliari e comunitari obbligati, e se sono andati assumendo sempre più le forme di un individualismo chiuso alla solidarietà, è anche perché su questo versante partiti e movimenti di sinistra hanno preceduto separati, guardandosi reciprocamente con sospetto. “Il personale è politico”, per chi si preoccupava negli anni ’70 di salvaguardare la grande “unità di classe”, suonava come uno slogan “borghese”. Oggi, chi sottolinea la dimensione metropolitana del politico, chi si batte per i diritti civili di conviventi, di gay e lesbiche, per la libertà femminile, per la cittadinanza dei migranti, passa per “radical chic”. Eppure è dalla testimonianza diretta dei singoli, voci che si raccolgono fuori dal dibattito pubblico, fuori, soprattutto, dalla cerchia del ceto politico, che il “sociale” tanto invocato prende forma, caricandosi di ragioni e di senso. Non necessariamente quelli che ci aspettiamo, ma che tuttavia non possiamo ignorare, se si vuole davvero costruire un’alternativa meno violenta e alienata di società.Tatiana Gentilizi, giovane operaia della Zanussi di Forlì, nell’intervista pubblicata dalla rivista “Una città”, così descrive il suo lavoro: «L’importante lì è non parlare del tuo lavoro, che è un po’ deprimente, ma di tutt’altro. Parli delle vacanze che hai fatto, di quello che ti sei comprata, del Grande fratello . Se non guardi il Grande fratello , là dentro sei un po’ tagliata fuori…I giovani che entrano in fabbrica lo fanno probabilmente per bisogno, ognuno ha la sua storia. Però tutti, o almeno la stragrande maggioranza, lo vedono come un momento di transizione, per cui non si interessano più di tanto del loro essere operai…Non c’è più una condivisione profonda del lavoro, l’importante è passare comunque le otto ore nella maniera più tranquilla possibile e poi del domani chissenefrega, si vedrà. Di positivo c’è che ti dà la possibilità di pensare ad altre cose, puoi anche ascoltare la musica: puoi portare il walkman e sentirlo in un solo orecchio..Oggi l’operaio si sente meno operaio e prevalgono le strategie individuali».«Non si vive di solo pane», dice Bloch, «soprattutto quando non se ne ha». L’insegnante di una scuola per apprendisti commessi e impiegati spinge i suoi alunni a mobilitarsi il 1° maggio sul disagio della loro condizione. Lei porta in corteo il cartello “Viva l’unità delle masse popolari”, loro, pochi numericamente, esclamano “basta con la politica”. Alla richiesta di quali fossero i loro interessi, le ragazze rispondono: «Le nostre letture sono di tutti i generi, in particolare riviste come Grazia , Gioia , Grand Hotel ». «Il mondo cui tendevano e tendono – commenta l’insegnante sulla rivista “L’erba voglio”(n.1, luglio 1971) – e che vedono riflesso in tali letture, è un mondo fatto di vita non pressata dal bisogno di guadagno, una vita fatta di cose belle, di automobili sportive, di profondi affetti e storie amorose…vita che non vivono, e a cui pure tendono». In nota all’articolo, la redazione commenta: «Per poter veramente lavorare con la gente, per poterla concretamente toccare, bisogna passare, e non è ironia, proprio attraverso i suoi sogni».Non potevamo accorgercene prima?

Lea Melandri, Ma dove sono stati fino ad ora?ultima modifica: 2008-04-29T19:51:05+02:00da mangano1
Reposta per primo quest’articolo