Elisabetta Ambrosi, Intervista a Zygmunt Baumann

4c1b594db7d450eb72e799fe521e5e6b.jpgda RESET, 27 MAGGIO 2008″Quella sinistra che non sa più proteggere”Zygmunt Bauman intervistato da Elisabetta AmbrosiSpaventati, impauriti, in cerca di protezione per sé e per il proprio territorio: così appaiono i cittadini europei. I quali votano sempre più per le coalizioni politiche che promettono protezione dagli effetti della globalizzazione. È dunque possibile dire che il vero criterio di scelta, in occasione delle elezioni politiche, non è più la (vecchia) distinzione destra-sinistra ma la posizione delle forze politiche verso i cambiamenti globali? Ne parla in questa intervista il sociologo di origine polacca Zygmunt Bauman, che spiega: la sinistra ha perso la sua identità e dimenticato il suo impegno nella difesa dei poveri; così il logo “no global” è diventato appannaggio della destra.«Come si può infatti pensare, come ha fatto la sinistra, di arrestare l’ondata di una globalizzazione incontrollata di capitale, finanze, criminalità, droga e traffico di armi, terrorismo e migrazioni avendo a disposizione i mezzi di un solo Stato?», dice l’autore di libri come Paura liquida e La solitudine del cittadino globale: «L’unica soluzione sta in un neomatrimonio tra potere e politica, ma questa volta su un piano globale, planetario, dell’umanità. Ma le forze che fluttuano incontrollate, pure se antagoniste, sono tutte ostili a qualsiasi imposizione dall’alto. Eppure, prima o poi, la risposta alla globalizzazione andrà data. Nel frattempo, il risultato sarà solo miseria». Il clamoroso successo della Lega Nord alle recenti elezioni politiche in Italia sembra dimostrare che il vero criterio determinante per questo tipo di consultazioni, in questo Paese ma forse anche in Gran Bretagna, non si rifletta più nella collocazione a destra o a sinistra, bensì nell’atteggiamento dei vari partiti verso la globalizzazione.La destra italiana è sostanzialmente riconducibile a una serie di valori: il “no” alla globalizzazione, il “sì” al protezionismo, la caccia all’immigrato, la difesa del territorio. Il neonato Partito Democratico, dal canto suo, rivela un atteggiamento di apertura verso i processi di liberalizzazione, il libero mercato, l’immigrazione e così via.Lei sostiene, mi sembra di capire, che gli elettori non si trovano più a scegliere tra “destra” e “sinistra”. Mi pare una diagnosi assolutamente corretta. Vorrei soltanto aggiungere che, nell’esprimere tale giudizio, lei fa riferimento a una scelta tra partiti che si presentano agli elettori (o che sono presentati dai media) come “destra” o “sinistra”. I criteri alla base di tale attribuzione o auto-attribuzione, tuttavia, sono ormai sempre più ambigui e incerti. Se si tiene conto di tutto ciò, la sua diagnosi può apparire, in fondo, non così paradossale…Due sono i criteri più sovente utilizzati, oggi, per l’attribuzione di “credenziali di sinistra”. Entrambi, tuttavia, sono criteri che portano fuori strada. Il primo si rifà alla scuola di pensiero della “Terza Via”: essere “di sinistra” significa saper concretizzare con efficacia e coerenza gli obiettivi che la anche “destra” invoca e cui, tuttavia, non sa dar corso nel modo giusto. Fu il “New Labour” di Tony Blair, per intenderci, a munire di fondamenta istituzionali le idee e i progetti ancora informi di Margaret Thatcher (“Non esiste la società, ma solo individui e famiglie”, e via dicendo) così come la sua dottrina di individualismo, privatizzazione e deregulation rampante. E fu il Partito Socialista francese (Ps) a favorire più di chiunque altro lo smantellamento dello Stato sociale in Francia. Quanto ai partiti “post-comunisti” dell’Europa centro-orientale (ribattezzati “social-democratici” per tema di esser tacciati di inestinta devozione al passato comunista), rappresentano i più entusiastici e rumorosi difensori, nonché i più scrupolosi fautori, della libertà per le classi più ricche e dell’abbandono dei poveri al loro destino… Il secondo criterio, invece, prevede la ricomposizione di un’idea di “sinistra” a partire dalla “coalizione arcobaleno”, ossia dall’eterogeneo e pittoresco mosaico di resti, scarti e rifiuti di una scena politica dominata dal copione della destra. In questo caso, l’idea nasconde una “sostanza” puramente negativa in quanto priva di un nocciolo o di una coesione interna. Il rifiuto, parziale o totale, decretato dai registi-sceneggiatori di destra offre alla “sinistra” l’unico collante con cui può/spera di restare unita. È questa la chiave di lettura dei recenti fatti in Italia, ad esempio, e in misura minore anche in Francia. Qual è la via alternativa, allora, per afferrare e comprendere il fenomeno della “sinistra”?La via alternativa nasce da due assunti fondamentali alla base della percezione tipicamente di “sinistra” della condizione umana, delle sue prospettive e inesplorate potenzialità. Il primo assunto prevede che la comunità ha il dovere di cautelare ogni suo membro contro le sventure subite a livello individuale. Il secondo asserisce: come la tenuta di un ponte si misura a partire dalla solidità del suo pilastro più piccolo, così la qualità di una società dovrebbe essere misurata a partire dalla qualità della vita dei più deboli tra i suoi membri. Questi due presupposti costanti e non negoziabili mettono la sinistra in perenne rotta di collisione con la realtà della condizione umana nel regime capitalista, poiché imputano invariabilmente al capitalismo i peccati di “spreco” e “immoralità” che si manifestano nell’ingiustizia sociale. Ora, il problema è che se venissero analizzati alla luce dei suddetti presupposti, quasi tutti i partiti che oggi vantano ufficialmente il titolo di “sinistra” subirebbero, con ogni probabilità, una sonora bocciatura. Per oltre un secolo, la sinistra ha avuto come tratto distintivo il culto di una comunità cui spettava il sacrosanto dovere di assistere e prendersi cura di tutti i suoi membri, all’insegna della collettività, a fronte di forze potenti cui non è possibile reagire autonomamente. I socialdemocratici hanno continuato, in ogni caso, a riporre le proprie speranze di realizzare tale compito nello Stato moderno, potente e ambizioso abbastanza da limitare i danni causati dal libero gioco dei mercati piegando gli interessi economici al rispetto della volontà politica della nazione e dei principi etici della comunità nazionale. Gli Stati-nazione, tuttavia, non godono più della potenza che vantavano in passato o speravano di conquistare. Gli Stati politici che un tempo reclamavano piena sovranità militare, economica e culturale sul proprio territorio e la sua popolazione, non esercitano più alcuna supremazia su tali ambiti della vita comunitaria. La condizione sine qua non per un concreto ed efficace controllo politico sulle forze economiche è che le istituzioni politiche ed economiche agiscano allo stesso livello. Ciò che, tuttavia, oggi non avviene. I poteri veri e propri, quelli cioè che determinano lo spettro delle opzioni e delle opportunità nella vita della gran parte della popolazione attuale, hanno trasceso lo Stato-nazione e si sono volatilizzati nello spazio globale, dove hanno gioco libero da qualsiasi controllo politico. La politica resta ancorata come in passato alla sfera locale, e si ritrova pertanto incapace di far presa su tali poteri, men che mai di padroneggiarli. Uno degli effetti della globalizzazione è il divorzio tra potere (nel senso del Macht tedesco, ovvero la capacità di realizzare un cambiamento) e politica. Nello spazio globale il potere è ormai totalmente svincolato dalla politica, mentre quest’ultima si ritrova priva di poteri nella sfera locale. Come giudica, in tal senso, lo strano capovolgimento politico cui stiamo assistendo, per cui i partiti della sinistra liberale tendono sempre più a difendere l’apertura dei mercati e la globalizzazione, mentre i partiti conservatori sembrano marciare in direzione opposta?Il mutamento cui accennavo prima ha sottratto ai socialisti uno strumento cruciale (l’unico?) volto a realizzare il loro progetto. Molto semplicemente, non è più possibile costruire uno “Stato sociale” che garantisca un’esistenza sicura ad ogni cittadino (né esso potrebbe sopravvivere) nella cornice dello Stato-nazione. Le forze che andrebbero piegate a tale obiettivo, infatti, sfuggono ormai al controllo dello Stato-nazione. I tentativi di servirsi dello Stato debole per attuare tale progetto sono stati, nella gran parte dei casi, vanificati dalla pressione di forze economiche globali ed extra-territoriali, o dei mercati. D’un tratto, i socialdemocratici hanno dato prova di sempre maggiore incapacità di tener fede alle loro promesse. Di qui il disperato tentativo di trovare un altro marchio e una nuova legittimazione: il “Partito Democratico” nel caso italiano, ma anche la “Sinistra Democratica” in Polonia, esemplificano perfettamente il punto di approdo di tale processo: nessun marchio, nessuna legittimità… In tali condizioni, gli epigoni della vecchia sinistra possono contare soltanto sui fallimenti dei propri avversari per una chance di vittoria, e sulle vittime disilluse e incollerite di tali fallimenti come unico bacino elettorale. La prima vittima collaterale è stata il tema della sicurezza nella vita dei cittadini, di quella cioè che io definisco existential security. L’ultimo gioiello di famiglia della sinistra, infatti, è stato dilapidato da partiti che non meriterebbero in realtà il titolo di “sinistra” e, per così dire, gettato in mare. Da qui è stato prontamente ripescato da forze che, altrettanto immeritevolmente, vengono definite di “destra”. Così, in Italia la Lega Nord promette ora di ripristinare la sicurezza nella vita dei cittadini, che il Partito Democratico minaccia invece di scardinare con un’ulteriore deregulation dei flussi commerciali e di capitali e più flessibilità nel mercato del lavoro, aprendo così definitivamente le porte alle misteriose, imprevedibili e incontrollabili forze globali (porte che in ogni caso, come ha appreso a caro prezzo, non possono più essere tenute sprangate). L’unica (furbesca) differenza è che si offre una nuova diagnosi delle cause dell’insicurezza. La colpa non ricade più, come teorizzava la vecchia sinistra, sul free-for-all, sul gioco al massacro del capitalismo (libertà per i facoltosi e i potenti, impotenza per i miseri e gli sprovveduti), bensì sulla condivisione forzata della ricchezza dei lombardi benestanti con i più indolenti siciliani o calabresi, e sull’inevitabile ripartizione dei mezzi di sussistenza di entrambi con gli stranieri. Si dimentica, così, che l’immigrazione di milioni di antenati degli italiani del Ventunesimo secolo negli Stati Uniti e in America Latina ha contribuito enormemente al loro attuale benessere. La popolazione, soprattutto in Italia, è terrorizzata dai cambiamenti. Cambiamenti che, nella totalità dei casi o quasi, sono legati alla globalizzazione. Innanzitutto l’immigrazione, poi il problema della sicurezza, la competizione tra Paesi ricchi e poveri, che mette a duro repentaglio le nostre imprese, la disoccupazione, ovvero la diffusione di lavori “flessibili” e assai mal pagati, l’inflazione. Tutti sintomi della globalizzazione, o almeno percepiti come tali. I comuni cittadini, forse irragionevolmente, hanno estrema difficoltà a scorgerne i benefici. Siamo sicuri che, come rivendicano alcuni osservatori pro-globalizzazione (Stiglitz, ad esempio), quest’ultima possa mostrare i suoi effetti positivi anche agli operai e alla piccola borghesia, ai cui occhi il modello globale è soltanto sinonimo (a torto? A ragione?) di precarietà del lavoro, esplosione della criminalità e insicurezza? Oppure, al contrario, è giunto il momento di riconoscere che la globalizzazione non offre vantaggi a tutti?Recita un vecchio proverbio inglese: “Il leopardo non muta le sue macchie” (il lupo perde il pelo, ma non il vizio). In realtà, anche se le macchie restano più o meno uguali, i leopardi possono ben cambiare (come stiamo vedendo ora), sia a destra che a sinistra. La “destra” è per definizione una forza conservatrice, votata alla difesa dello status quo e al recupero della tradizione. Oggi, però, lo “status quo” e la “tradizione” più celebrata e agognata in Europa sembrano identificarsi con una certa forma di responsabilità, da parte della comunità, a fronte della difficile congiuntura che i suoi membri attraversano: nel suo significato più autentico, l’approccio conservatore riflette l’intenzione di salvare questo status quo e questa tradizione dalla distruzione… Resta, tuttavia, un grande interrogativo: può una forza politica di qualsiasi natura arginare il flusso della globalizzazione incontrollata di capitali, scambi commerciali, finanza, industria, criminalità, droga e traffico di armi, terrorismo o migrazione delle vittime di tutte queste forze, contando esclusivamente sulle risorse di un singolo Stato? Ebbene, è possibile provarci. Lo stanno facendo Corea del Nord, Cina, Birmania, Cuba o Kyrgyzstan, con le conseguenze, per le rispettive popolazioni, che tutti noi conosciamo (e spesso subiamo) sin troppo bene…I problemi di origine globale possono essere risolti soltanto nella sfera globale. I cambi della guardia nei governi locali non ci avvicineranno di un passo alla loro soluzione. L’unico rimedio plausibile all’ondata di insicurezza globale sta in un connubio, in una fusione tra il potere delle forze già globalizzate e quello della politica, della rappresentanza popolare, del diritto e della giurisdizione. La soluzione, se mai è ipotizzabile, sta nel ricongiungimento tra potere e politica e nella fine dell’attuale divorzio. Ricongiungimento che, però, deve aver luogo a un livello superiore, globale, planetario, esteso a tutta l’umanità. Nella migliore delle ipotesi, siamo appena all’inizio di tale processo. E si direbbe che vi siano scarsissime probabilità di raggiungere l’esito auspicato. Voltando le spalle agli affari globali (tra cui la piaga della miseria), sprangando le porte e tenendo gli stranieri bene alla larga dal proprio Paese, tracciando nuove frontiere e moltiplicando le enclave neo-feudali, la promozione della sicurezza non farà alcun passo avanti. Più la politica locale si polverizza e le sue agenzie vengono ridimensionate (dunque indebolite), più i poteri già globali, che trascendono qualsiasi tipo di frontiera e costume o ispirazione locale, diverranno indomabili e invincibili.L’esempio più significativo chiama in causa la sicurezza nelle città: se agli immigrati spetta, com’è ovvio, il diritto di cercare una vita migliore in un altro Paese, favorendo così, tra l’altro, il nostro stesso tenore di vita, i politici (di sinistra) sembrano sottovalutare le effettive condizioni di vita nelle periferie di Roma, Napoli o Milano, ormai spaventosamente degradate e pericolose. Anche per questo è inutile, ormai, spiegare a cittadini terrorizzati i lati positivi della globalizzazione. Esiste una politica dell’immigrazione capace di offrire una risposta alle legittime paure dei cittadini? Quello tra “città” e “paura” è un binomio inscindibile sin dagli esordi dell’età moderna. (Ricorda la pellicola italiana “Napoletani a Milano”?) La città è un luogo di estranei che vivono tra estranei, l’uno inesorabilmente estraneo dell’altro (è questa la maledizione e, allo stesso tempo, il privilegio della vita cittadina… Chi proviene da tranquilli e isolati borghi rurali si riversa nelle città in cerca di nuovi stimoli, opportunità e avventure). Lo straniero incarna l’Ignoto, divenendo così fonte di ansia e apprensione. Quanto più ci appare estraneo e siamo incapaci di abituarci alla sua presenza nelle città, tanto più incute timore. Sono gli ultimi arrivati, pertanto, il bersaglio “naturale” del nostro rancore alimentato da un’insicurezza che semina paure. Eppure, la convivenza con l’estraneo è alla radice di timori e fobie diffuse da ben prima dell’attuale ondata migratoria e “diasporizzazione” dei più o meno grandi centri urbani di tutti i continenti del pianeta. Pur essendo inglesi a tutti gli effetti, i curiosi personaggi che popolavano l’East End londinese rappresentavano già un secolo fa una costante fonte di terrore per le classi più agiate, le quali poterono trincerarsi dietro ai prototipi delle nostre gated community, fortificarli e pagare la polizia per presidiarne l’ingresso. Soltanto il linguaggio allora usato per esprimere tali paure era diverso da quello attualmente in voga: nei raffinati salotti di Londra si discuteva di “classi pericolose” e misure “anti-complotto”, non di “stranieri” e provvedimenti “anti-immigrazione”. Il fatto che, come lei giustamente afferma, la vita nelle periferie di Roma, Milano e Napoli è spaventosamente degradata e pericolosa, non va imputato al differente colore della pelle o alla diversa religione di gente costretta a vivere in condizioni drammatiche e continuamente esposta al rischio. Il degrado e il pericolo scaturiscono dal fatto che queste periferie italiane, al pari delle banlieue di Parigi o Marsiglia e dei ghetti urbani di Washington e Chicago, fungono da pattumiera per esseri umani scartati, umiliati esiliati dalla “buona società”; uomini e donne, inoltre, tragicamente divisi anziché uniti da un unico destino. Chi si sente umiliato non rispetterà mai il proprio vicino, qualsiasi cosa provi o faccia, perché anch’egli è uno scarto della società cui non viene riconosciuta alcuna dignità né il diritto a un trattamento umano. Sarebbe assolutamente ingiusto addossare la colpa di tale situazione al “problema immigrati”. I nostri antenati accusavano gli scarti della società – i miseri, i disoccupati e via dicendo – di tramare una rivolta e minacciare la rivoluzione. Nessuno invece si aspetta che dalle “periferie” nasca un fronte comune contro la fonte delle attuali piaghe sociali… Si pensa che quegli ambienti possano produrre ed esportare soltanto mendicanti, spacciatori, teppisti e giovani delinquenti…Merita un’attenta riflessione anche il fatto che se, da un lato, le forze politiche contrarie alla globalizzazione stanno vincendo, d’altro canto il messaggio della sinistra no global ma democratica ha riportato una rovinosa sconfitta. La sinistra radicale, di smaccate simpatie no-global o anti-globalizzazione, è stata clamorosamente battuta, o meglio annientata nelle ultime elezioni politiche in Italia. Per la prima volta nella loro storia, comunisti e socialisti sono rimasti esclusi dal Parlamento. Il voto no global è ormai diventato appannaggio della destra, e per quale motivo? È forse un voto troppo “ideologico” e radicale per un Paese moderato come l’Italia? E altrove? La globalizzazione potrebbe essere il nodo centrale, come lei – giustamente, a mio parere – suggerisce, delle problematiche attuali e dell’impossibilità di agire come in passato, scegliendo tra gli stessi obiettivi e valutando status quo e prospettive future con i criteri di allora. Non credo, tuttavia, che le scelte del grosso dell’elettorato siano determinate dall’approccio alla globalizzazione. Almeno la maggioranza dell’elettorato giudica i leader politici in carica o aspiranti tali a partire dalla severità e dal rigore con cui affrontano il tema della sicurezza. E questi ultimi, in una sorta di corsa all’asta, cercano di battersi a vicenda a suon di promesse di intransigenza verso i germi di insicurezza – veri o presunti, purché siano vicini, a portata di mano, e possono essere combattuti e sconfitti. Forza Italia e la Lega Nord non vincerebbero mai le elezioni gridando slogan contro la globalizzazione e le multinazionali… Possono trionfare, invece, promettendo di proteggere i seri lavoratori della Lombardia dalle ruberie degli indolenti calabresi; di tutelare entrambi dai nuovi arrivati, spia della precarietà della loro posizione; e di prestare all’intera popolazione uno scudo contro gli invadenti mendicanti, malviventi, rapinatori e teppisti. Le minacce della globalizzazione ne escono assolutamente indenni. Le ultime elezioni politiche in Italia hanno evidenziato, tra l’altro, come i dipendenti e gli operai delle industrie votino sempre meno per la sinistra (sebbene negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, ad esempio, gli immigrati di origine asiatica o africana optino in larga maggioranza per i democratici). Come si spiega tale fenomeno, a suo giudizio? È colpa dei democratici (in Italia numerosi osservatori politici – oltre naturalmente agli elettori – hanno accusato la sinistra radicale di occuparsi più dei salotti che degli interessi della povera gente), oppure vi sono ragioni economiche, sociali e culturali di più vasta portata? Propenderei per quest’ultima ipotesi… I dipendenti e gli operai delle industrie non riflettono più la stessa categoria sociale di cinquant’anni fa. Soltanto un’esigua e declinante minoranza si sente legata alle imprese per cui lavora “stabilmente” o “a vita”. Soltanto una minoranza, infatti, ha un lavoro sicuro e può dire con certezza “ci rivedremo domani”, “tra un mese”, “tra un anno” e così via. Soltanto una minoranza, quindi, si sente stimolata a coltivare vincoli e legami di fedeltà reciproca. Ancor più importante, la contrattazione collettiva, i contratti nazionali di lavoro e relative condizioni d’impiego stanno scomparendo sotto i colpi della deregulation. Una maggioranza sempre più consistente di lavoratori ha ormai sposato la “flessibilità”, con la conseguente impossibilità, o quasi, di ancorare i sogni e i progetti della propria vita alle imprese (presumibilmente solide e durature, ma ad alto rischio di fusione, “scalate” o insolvenza) e al legame con i loro colleghi di lavoro (che cambiano in continuazione).Quella che un tempo, nella logica della loro cornice sociale, era la “classe operaia”, si è ormai atomizzata, diventando un aggregato fluido e svincolato di singoli salariati in competizione reciproca, anziché legati da un sentimento di solidarietà. Un quadro simile non favorisce di certo l’unione delle forze, il suggello di un patto verso un cammino comune, la fedeltà alla propria classe, la battaglie collettive… Né agevola la ricerca e l’azione concreta in direzione di un più proficuo modus vivendi con i datori di lavoro, i quali possono in qualsiasi momento rimangiarsi l’offerta di impiego o scomparire tout court. Le prospettive di una “politica di classe”, pertanto, sono decisamente magre. È assai improbabile che gli odierni operai delle industrie vincolino le proprie scelte politiche allo status di classe. In che modo, per concludere, una forza politica dovrebbe articolare il proprio messaggio sulla globalizzazione? È possibile dare una risposta convincente ai timori dei cittadini – senza tuttavia proporre un’agenda conservatrice – e raccogliere la sfida della globalizzazione? Reagire alla globalizzazione è un compito estremamente complicato, ma la politica non sembra, dal canto suo, respingere la complessità? Perché la sinistra sembra riscontrare maggiori difficoltà della destra nell’assolvere a tale compito (penso soprattutto al Pd in Italia, il partito che più ha a cuore i processi di riforma e cambiamento in luogo della rivoluzione ideologica)? “Una risposta alla globalizzazione”, come lei dice, non è tanto “complicata” quanto ardua da tradurre in realtà. È relativamente semplice, infatti, stabilire che cosa occorre fare. La vera incognita è chi ne sia capace (ovvero chi abbia sufficienti forze e determinazione). Finché resterà “selvaggia”, svincolata e incontrollata, la globalizzazione è destinata a travolgere e scompigliare i progetti, le speranze e le aspettative dei cittadini, con effetti più paragonabili a quelli di uno tsunami o un terremoto che non a lecite iniziative dell’uomo. Effetti che difficilmente potranno essere mitigati, e men che meno prevenuti, fintantoché nessuna agenzia trovi il modo di fronteggiare i poteri e l’influsso sul territorio delle forze già globalizzate. Il guaio è che tutto sembra congiurare contro l’emersione di un’agenzia di questo tipo. Come nel Wild West dei film hollywoodiani, dove i ricchi baroni del bestiame e i banditi, pur essendo in guerra l’uno contro l’altro, ravvisavano un interesse comune nella prosecuzione dello stato di illegalità e nell’assenza di leggi ferree e vincolanti, tutte le forze che oggi hanno gioco libero nella “terra di nessuno” dello spazio globale, per quanto acceso sia l’antagonismo reciproco, sembrano accomunate dall’ostilità verso l’imposizione di “una legge per tutti”, o addirittura verso la prospettiva di processi di globalizzazione un po’ meno “selvaggi” di quanto non siano stati finora. Prima o poi, giungerà senz’altro una “risposta alla globalizzazione”. A destare preoccupazione, tuttavia, è il numero di vittime e il grado di miseria umana che potranno risultare dalla nostra incapacità/indisponibilità ad offrirne una prima che sia troppo tardi…Traduzione di Enrico Del Sero__._,_.___

Elisabetta Ambrosi, Intervista a Zygmunt Baumannultima modifica: 2008-05-31T16:32:43+02:00da mangano1
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