La polemica fra REPUBBLICA e il CORRIERE

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Corriere della sera

Il CAVALIERE, LA GIUSTIZIA E IL PD
La patologia italiana

di Ernesto Galli Della Loggia

29 GIUGNO 2008

LA REPUBBLICA

la strana cura
della democrazia
di GIUSEPPE D’AVANZO

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Corriere della sera

Il CAVALIERE, LA GIUSTIZIA E IL PD
La patologia italiana

di Ernesto Galli Della Loggia

Chi legge un po’ di giornali e ha qualche conoscenza della scena pubblica
del Paese sa benissimo che anche l’attuale opposizione di sinistra così come
l’opinione pubblica che in essa si riconosce sono in stragrande maggioranza
d’accordo su almeno tre punti decisivi della patologia che affligge la giustizia
italiana. Questi: 1) l’obbligatorietà dell’azione penale da parte del pubblico
ministero, astrattamente prescritta dalla Costituzione, ha dato luogo nella
pratica, a causa della sua assoluta impraticabilità tecnica, al più totale arbitrio
d’iniziativa del pm stesso. Da guardiano autonomo e imparziale della legge il
pubblico ministero si è trasformato per forza di cose in padrone discrezionale
e incontrollabile della stessa; 2) il procedimento giudiziario italiano manca in
misura rilevantissima del necessario criterio di terzietà. Nonostante qualche
piccola modifica apportata, magistratura inquirente e giudicante sono
virtualmente una cosa sola: ogni imputato italiano si trova così a essere
sempre giudicato da un magistrato che è un amico e/o collega di colui che lo
ha messo sotto accusa; 3) il protagonismo mediatico- politico dell’apparato
giudiziario in genere e in modo tutto speciale dei pubblici ministeri è ormai
diventato un male gravissimo, oggettivamente esaltato e protetto da un
Consiglio superiore della magistratura al quale una malfatta legge istitutiva, e
ancora di più un infame sistema elettorale, consentono di esercitare
abusivamente i poteri di una virtuale terza Camera del sistema costituzionale.
Come dicevo all’inizio, anche una buona parte della sinistra e del suo
elettorato è convinta nel proprio intimo che le cose stiano così.
Si tratta, infatti, di fenomeni troppo clamorosamente evidenti, che tra l’altro
non esistono in alcun altro Paese dell’Occidente, e di cui fanno
quotidianamente le spese migliaia di cittadini, com’è ovvio senza distinzione
di destra e di sinistra. La domanda che a questo punto è (o dovrebbe essere)
naturale porsi è la seguente: è ragionevole o no pensare che gli aspetti
patologici della giustizia italiana sopra descritti abbiano qualcosa a che fare,
c’entrino qualcosa, con le vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi? E’
ragionevole o no immaginare, sospettare, che l’immane mole di procedimenti
giudiziari collezionati da costui (in una quantità, credo, superiore a chiunque
altro nella storia d’Italia, ma aspetto precisazioni da Marco Travaglio) abbiano
qualcosa a che fare con l’arbitrio dell’azione penale, con la mancanza di
terzietà, con la ricerca di visibilità mediatico-politica da parte dei pm? E’
ragionevole pensare una cosa simile, che esista un nesso di qualche tipo tra
questi due universi di fatti, o invece è una pura assurdità, un’insinuazione
senza fondamento, un volere dare corpo ai fantasmi? La sinistra riformista
(cioè più o meno l’intero Partito democratico), pur essendo convinta che
Berlusconi in qualche problema con la giustizia sia effettivamente incorso (e
personalmente mi unisco a questa convinzione), pensa però che un nesso ci
sia.
Pensa cioè che nelle vicende giudiziarie dell’attuale Presidente del Consiglio
si manifestino anche, e in misura spesso decisiva, tutti i parossismi patologici
della giustizia italiana. Ma non riesce a dirlo. La sua classe dirigente tace o
tutt’al più farfuglia, sospira a mezza bocca, perché non sa che pesci pigliare,
ricattata com’è dal suo passato recente, dal suo legame con la corporazione
dei magistrati e dalla paura di apparire complice con il nemico. Un’altra parte
del Paese, invece, diciamo una metà abbondante degli Italiani, anch’essa
pensa che sì, che è ragionevole credere che un nesso ci sia. E poiché non ha
le remore storiche della sinistra le basta questo, le basta vedere le patologie
presenti nelle vicende giudiziarie di Berlusconi, per considerare queste
comunque superiori alle sue eventuali colpe, e continuare a votarlo. Non già
perché sia una parte del Paese formata da uomini e donne dediti al malaffare
o moralmente ottusi, come invece pensa qualche moralista esagitato. Ma se
le cose stanno così, allora vuol dire che proprio i caratteri patologici della
giustizia italiana stanno rivelandosi i migliori alleati dell’eterno inquisito Silvio
Berlusconi. Che proprio questi caratteri gli hanno consentito e gli consentono
tuttora di apparire ragionevolmente una vittima, di nascondere dietro di essi i
problemi veri che ha: insomma di volgere a proprio favore le sue disgrazie
giudiziarie. Ma se le cose stanno così ciò vuol dire anche, per concludere, e
non è conclusione di poco conto, che il principale interesse della Sinistra
italiana dovrebbe essere, anzi è, uno solo: togliere ogni alibi al proprio rivale.
E cioè mettere fine una buona volta, lei per prima, alla devastante patologia
che affligge da decenni il nostro sistema giudiziario. Che poi, in tutta questa
faccenda, è anche il vero interesse del Paese.
29 giugno 2008

da LA REPUBBLICA

la strana cura
della democrazia
di GIUSEPPE D’AVANZO

AI LIVELLI infimi, il tempo non passa. Lo sapevamo. Berlusconi ci aveva
ricordato presto come fosse un’illusione ottica la metamorfosi in homme
d’Etat. Insofferente delle regole (etica, legalità, grammatica politica, sintassi
istituzionale), il magnate di Arcore vuole ieri come oggi ridisegnare lo Stato
sulle sue misure e interessi liberando il proprio potere – “unto” dal consenso
popolare – da ogni contrappeso. Il Corriere della Sera, pulpito liberale, ne
dovrebbe essere raccapricciato o almeno impensierito. Accade quel che è
già accaduto in passato: da quei pulpiti soi-disants liberali si odono
argomenti che tolgono il fiato.

La chiave è la consueta, è musica vecchia. Oltre ogni ragionevolezza, non si
vede e nulla si dice del fatto più scomodo: l’interesse privatissimo del capo
del governo, padrone di un Parlamento obbediente, a legiferare per
proteggere se stesso a prezzo della distruzione del processo penale,
dell’indebolimento della sicurezza nazionale, dell’incostituzionalità delle
norme che gli garantiscono una impunità perpetua. Si chiudono gli occhi
dinanzi allo “scandalo” berlusconiano: gli affari privati del presidente del
Consiglio sono la sola voce nell’agenda di un governo alle prese con un
Paese impoverito, stagnante, in declino, impaurito da una crisi di cui non
avverte né la fine né le vie d’uscita.

L’oratore non sembra interessato a capire che cosa avviene e che cosa può
avvenire. Non gl’importa. Il suo bersaglio è concreto. Vuole indicare
all’opinione pubblica dov’è “la patologia”; da chi e che cosa deve guardarsi il
Paese; chi minaccia con passi eversivi la legittimità del potere politico. Non ci
sono “i bolscevichi” oggi alle porte, come nel 1919/1924 quando Luigi
Albertini, direttore e comproprietario del Corriere, applaudì l'”anticorpo
fascista” salvando l’Italia da “gorghi del comunismo” (possono avere delle
costanti le storie collettive). Oggi, per l’oratore pseudo-equanime, l’orda
barbarica che minaccia il Paese e la democrazia, è nientedimeno che la
magistratura. Sono quelle toghe nere che con “l’arbitrio dell’azione penale,
con la mancanza di terzietà, con la ricerca di visibilità dei pubblici ministeri”,
imbrigliano Berlusconi “con un’immane mole di procedimenti giudiziari”.

Lasciamo perdere che all’oratore sfugge come la plastica dimostrazione della
terzietà dei giudici italiani sia proprio la storia giudiziaria dell’uomo di Arcore,
assolto e liberato dalla prescrizione, mai condannato. Dimentichiamo che, se
di Berlusconi si sono dovuti occupare centinaia di giudici in migliaia di
udienze, è per la scelta dell’imputato di fuggire dal processo e dai suoi
“giudici naturali” verso altri giudici, verso altri tribunali e Corti in attesa di
manipolare a suo beneficio codice penale (i reati), codice di procedura
penale (i processi), Costituzione (i poteri, il loro equilibrio).

Andiamo al sodo. L’idea che trapela dal sermone è che c’è una sola cura, e
necessaria: fine dell’obbligatorietà dell’azione penale; separazione della
funzione requirente da quella giudicante; ridimensionamento del Consiglio
superiore della magistratura. Osserviamo il mostro che questa “terapia”
partorisce. Carriere distinte, dunque. I pubblici ministeri diventano, come nel
codice napoleonico, procureurs impériaux o avvocati dell’accusa scelti,
istruiti, promossi, puniti dal ministro perché stanno al guardasigilli come il
prefetto al ministro dell’Interno (soltanto per pudicizia, forse, l’oratore non lo
spiega). L’azione penale non è più obbligatoria. Il pubblico ministero sceglie
a mano libera i suoi oggetti, guidato e consigliato dal potere esecutivo.
Difficile credere a qualche processo molesto che scuota l’alveare o affondi il
bisturi nella diffusa corruzione nazionale. Più facile immaginare che i “non
conformi”, le teste storte, gli “erranti” rischino qualcosa, magari soltanto vivere
con un bastone a poca distanza dalla testa.

Naturalmente, in teoria, anche il modello che prevede il pubblico ministero
diretto dall’esecutivo ha delle virtù (può bluffare il pubblico ministero
indipendente come essere ineccepibile il requirente che risponde al
ministro), ma ogni disegno normativo non nasce nel vuoto pneumatico.
Quello che si augura l’oratore pseudo-neutrale dovrebbe prendere forma
nell’Italia 2008 dove un uomo, che viene dal capitalismo d’avventura, governa
una signoria populista: possiede direttamente – e direttamente controlla,
come s’è visto nell’affare Saccà – l’intero sistema televisivo, un arsenale che
gli permette di “creare” la realtà, inoculare affetti o fobie, insufflare o
determinare la necessità di improrogabili decisioni. È l’uomo che, alla prima
occasione (1994), propone come ministro di giustizia un suo avvocato e
sodale (Cesare Previti), barattiere giudiziario, condannato poi per aver
corrotto un giudice regalando la più grande impresa editoriale del Paese (la
Mondadori) al suo Capo. È il presidente del consiglio che, nel suo quarto
governo, sceglie come guardasigilli non Giustiniano o Tommaso Moro, ma un
ragazzo che gli è stato segretario (Angelino Alfano).

Ora, da quel pulpito liberale, si vorrebbe sapere se questo conflitto d’interessi,
che scarnifica l’ordinata architettura dei quattro poteri (governo, Parlamento,
magistratura, informazione), rende possibile mettere in discussione
l’autonomia e indipendenza della magistratura liquidando tre norme
costituzionali: 104 (“La magistratura”, pubblico ministero incluso, “costituisce
un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”); 107 (inamovibilità
dal grado e dalla sede); 112 (obbligo d’agire). Come è ovvio e legittimo, lo si
può pensare. Lo si dovrebbe dire in trasparenza, però. Il Corriere della Sera,
come il Luigi Albertini del discorso alla Corona, Palazzo Madama, 18 giugno
1921, dovrebbe dire ai suoi lettori: noi qui, in via Solferino, tempio della
cultura liberale, crediamo che per migliorare la qualità della nostra
democrazia, e “salvare l’Italia”, i pubblici ministeri debbano essere diretti
dall’esecutivo. Cioè, oggi, da Silvio Berlusconi. Sono le parole che non si
ascoltano nel sermone finto neutrale. Con un paradosso guignolesco,
l’oratore chiede che a dire questa affabile bestialità da mondo sublunare
debba essere la “sinistra riformista”: dovrebbe “mettere una buona volta fine
alla devastante patologia che affligge da decenni il nostro sistema
giudiziario”.

Già incapace a tempo debito di risolvere il conflitto d’interessi, dovrebbe
dunque essere la sinistra, il Partito democratico, a sacrificare all’Egoarca
anche l’autonomia della magistratura perché la politica – questa politica, già
monca del Parlamento ridotto a rifugio di statue di gesso – viene prima del
feticcio legalistico. È proprio vero che “i maghi ingrassano dove esistono le
anime fioche”.

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La polemica fra REPUBBLICA e il CORRIEREultima modifica: 2008-06-30T17:25:00+02:00da mangano1
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