Fr.Lamendola,Rivedendo IL GIARDINO DEI FINZI CONTINI

FrANCESCO LAMENDOLA
RIVEDENDO IL GIARDINO DEI FINZI CONTINI
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Da Arianna edizioni, 27 novembre 2008

Allorché traspone per il grande schermo il romanzo di Giorgio Bassani «Il giardino dei Finzi-Contini», Vittorio De Sica (Sora, Frosinone, 1901 – Parigi, 1974) si è già pienamente affermato come uno dei maggiori registi del secondo dopoguerra, in particolare con la quadrilogia formata da «Sciuscià» (1946), «Ladri di biciclette» (1948), «Miracolo a Milano» (1951) e «Umberto D.» (1952).
Attore di teatro dal 1923, specializzato nelle parti brillanti e, poi di giovane amoroso, all’epoca dei «telefoni bianchi», aveva esordito nella regia con «Rose scarlatte» (1940) nel genere della commedia sentimentale, per passare ben presto a temi assai più impegnativi, sotto l’impulso di Cesare Zavattini, con «I bambini ci guardano» (1943).
Dopo la grande stagione neorealista, che già con «Miracolo a Milano» (sceneggiato da Zavattini e interpretato da Totò) aveva oltrepassato in direzione della denuncia sociale in chiave grottesca e surreale, vi era stato poi un ventennio di stasi, fino, appunto, a «Il giardino dei Finzi-Contini», caratterizzato da pochi film assai meno riusciti e stilisticamente incerti.
«Il giardino dei Finzi-Contini» segna il ritorno di De Sica ai suoi livelli migliori, preceduto e seguito da diversi film decorosi e premiati da un buon successo di pubblico, come «Matrimonio all’italiana» (1964), «I girasoli» (1969), «Una breve vacanza» (1973), tuttavia più inclini a una certa enfasi sentimentale che già si poteva inravedere nelle opere precedenti, ma entro limiti più contenuti.
Il romanzo di Giorgio Bassani, pubblicato nel 1962 e vincitore del Premio Viareggio, consente a De Sica di portare sullo schermo una delicata vicenda di amicizia e d’amore e, al tempo stesso, di denunciare la violenza della storia e la sua impietosa irruzione nella vita degli individui.
A Ferrara, nel 1938, quando entrano in vigore le leggi razziali, Giorgio – il giovane protagonista – (interpretato dall’attore Lino Capolicchio) si vede allontanato dalle biblioteche pubbliche, proprio mentre sta preparando la tesi di laurea, nonché dai circoli sportivi cittadini. In quella circostanza, la ricchissima famiglia ebrea dei Finzi-Contini, che possiede una villa circondata da un enorme parco, apre i cancelli a un gruppo di giovani, per la maggior parte ebrei, che possono così riprendere a giocare a tennis in quel campo privato.
Giorgio diviene particolarmente amico dei due giovani coetanei, figli dei padroni di casa: la bella ed enigmatica Micòl (l’attrice Dominique Sanda), già sua compagna di scuola, e il sensibile e timido Alberto (Helmuth Berger), gravemente malato ai polmoni. Della compagnia fa parte anche un operaio milanese, Malnate, (Fabio Testi), che non è ebreo ed è l’unico di estrazione schiettamente popolare (e di idee comuniste).
Frequentando il giardino per giocare a tennis, Giorgio s’innamora di Micòl; la quale reagisce chiedendogli di non venire più, perché vuol troncare sul nascere ogni speranza del giovane, cui pure si sente sinceramente affezionata. Giorgio, infatti, è troppo dolce e romantico; mentre Micòl si sente attratta dall’esuberanza un po’ aggressiva di Malnate: e, in fondo, preferisce non impegnarsi con nessuno, quasi sentendo incombere su di sé la rovina imminente.
Quando scoppia la guerra, la compagnia si scioglie definitivamente. Alberto muore di tisi; Malnate, richiamato nell’esercito, finisce disperso in Russia; solo Giorgio riesce a fuggire, prima che scatti l’ordine di deportazione per tutti gli ebrei di Ferrara, nell’inverno del 1943. Non solo Micòl e tutta la sua famiglia, ma anche il padre di Giorgio vengono presi e condotti in un edificio scolastico, ultima tappa prima di essere caricati sui treni diretti in Germania.
Il film sa rendere con notevole efficacia l’atmosfera malinconica e autunnale del romanzo, al quale è, forse, superiore come riuscita artistica, per merito anche della bellissima fotografia e della struggente colonna sonora.
Paolo Mereghetti, che gli concede solo due stelle, definisce il film «esangue ed elegante» e sostiene che «De Sica smorza i toni, annacqua la tragedia e tira a commuovere il pubblico»: tipico esempio di quello snobismo pseudo-intellettuale da cui è afflitta tanta parte della critica cinematografica blasonata.
Chi ha letto il romanzo, sa che i toni non sono affatto smorzati e che la tragedia non è per niente annacquata; la scena in cui la famiglia dei Finzi-Contini viene portata via in automobile, compresa la vecchissima nonna, e Micòl si volge a guardare per l’ultima volta i viali del grande parco inzuppati dalla pioggia, ha il respiro epico della tragedia, ma senza i languori eccessivi che si notano in altri film del regista.
L’unico punto in cui De Sica si è preso un po’ troppa libertà nei confronti del romanzo (e per questo, forse, Bassani rifiutò di firmare la sceneggiatura) è la scena in cui Giorgio, sconvolto dalla gelosia, si introduce nel giardino di notte e vede, attraverso i vetri della finestra, Micòl a letto con l’amico Malnate; la quale, a sua volta, lo guarda quasi con aria di sfida.
Molto bravo, invece, è stato De Sica a cogliere, oltre al senso di fatalità incombente sulla vecchia famiglia che vive da anni in una eccentrica solitudine, tra le «care vecchie cose di pessimo gusto» già cantate da Guido Gozzano, il dramma delle parole non dette fra Micòl e Giorgio, specialmente nella scena della carrozza.
Sorpresi da un improvviso acquazzone durante una partita a tennis, i giovani della piccola brigata si disperdono alla ricerca di un riparo; Giorgio e Micòl entrano nella vecchia rimessa e salgono, quasi per gioco, sulla carrozza che giace in un angolo, simbolo vetusto di un aristocratico stile di vita che appartiene ormai al passato. Seduti uno accanto all’altra, per un attimo i due giovani sembrano sul punto di confessarsi un reciproco sentimento: ed è la maliziosa, imprevedibile Micòl (una sorta di versione novecentesca della giovane Pisana de «Le confessioni di un italiano» di Ippolito Nievo) che pare voler stuzzicare il timido ed emozionatissimo Giorgio.
Ma l’incanto dura solo un istante; Giorgio non osa farsi avanti; e Micòl, scesa velocemente dalla carrozza, si allontana sotto la pioggia, in apparenza padrona di sé, salutando allegramente l’amico che, invece, da quel momento cade in preda a una passione tanto intensa quanto impossibile. Qualche tempo dopo, infatti, la ragazza lo pregherà di non venire più a trovarla: e, allo spettatore, rimane il dubbio se si sia trattato del comportamento incostante e capriccioso di una bella ragazza intelligente, ma un po’ troppo viziata; oppure del gesto altamente maturo di chi non vuol far soffrire una persona che stima profondamente e cui vuol bene, ma che sa di non poter ricambiare, anche perché, in fondo, si sente inspiegabilmente «diversa».
Molto bravi tutti gli attori; una speciale menzione spetta a Romolo Valli, che interpreta con sofferta umanità la parte del padre di Giorgio.
Dominique Sanda, con quel film, si rivelò al grande pubblico internazionale; mentre Lino Capolicchio è un Giorgio convincente, nella sua parte di giovane sensibile, onesto, leale, ma anche un po’ amletico nei suoi dubbi esistenziali e nel suo vano ribellismo all’ingiustizia della storia.
Ecco come Giorgio Bassani ha descritto quel magico momento fra i due giovani, nella vecchia carrozza dentro la rimessa, alla fine del secondo capitolo del suo romanzo (G. Bassani, «Il romanzo di Ferrara», Milano, Mondadori, vol. 1, pp. 442-46):
«Un altro giorno, l’ultimo, si era messo a piovere; e mentre gli altri riparavano nella “Hutte” a giocare a ramino e a ping-pong, noi due, incuranti di inzupparci attraversammo correndo mezzo parco per andare a rifugiarci nella rimessa. La rimessa attualmente funzionava soltanto da rimessa – mi aveva detto Micòl.-. Un tempo, tuttavia, una buona metà del vano interno era stata attrezzata a palestra, con pertiche, funi, asse d’equilibrio, anelli, spalliera svedese, eccetera: e questo al solo scopo che lei e Alberto potessero presentarsi ben preparati all’annuale esame di educazione fisica. Non erano certo lezioni molto serie quelle che il professor Anacleto Zaccarini, da anni in pensione e più che ottantenne (figurarsi!), impartiva loro una volta alla settimana. Divertenti però sì, forse le più divertenti di tutte. Lei non si scordava mai di portare in palestra una bottiglia di vino di Bosco. E il vecchio Zaccarini, diventando, da rosso di naso e di guance quale era normalmente, via via più paonazzo, se la scolava piani piano fino all’ultima goccia. Certe sere d’inverno, quando se ne andava, pareva addirittura che emanasse luce propria…
Si trattava di una costruzione di mattoni bruni, bassa e lunga, con due finestre laterali difese da robuste inferriate, col tetto spiovente coperto di tegole, e con le pareti esterne nascoste quasi per intero dall’edera. Non lontana dal fienile dei Perotti e dal vitreo parallelepipedo di una serra, vi si accedeva attraverso un ampio portone verniciato di verde che guardava dalla parte opposta alla mura degli Angeli, in direzione della casa padronale.
Restammo per un po’ sulla soglia, addossati al portone. Pioveva a dirotto, a strisce d’acqua oblique e lunghissime, sui prati, sulle grandi masse nere degli alberi, , su tutto. Faceva freddo. Battendo i denti, guardavamo entrambi dinanzi a noi. L’incantesimo a cui fino allora era stata sospesa la stagione si era rotto irreparabilmente.
“Vogliamo entrare?”, proposi, alla fine. “Dentro farà più caldo”.
All’interno del vasto stanzone, in fondo al quale, nella penombra, tralucevano le sommità di due lustre, bionde pertiche da palestra, alte fino al soffitto, aleggiava un odore strano, misto di benzina, olio lubrificante, vecchia polvere, agrumi. L’odore era proprio buono – disse subito Micòl tirando su col naso -. Anche a lei piaceva molto. E mi indicò, accostata a una delle pareti laterali, una specie di alta scaffalatura di legno scuro, gremita di grossi frutti gialli e rotondi, più grossi delle arance e dei limoni, che prima d’allora non avevo mai veduto. Si trattava di pompelmi messi lì a stagionare – mi spiegò -, prodotti in serra. Non ne avevo mai gustato? – domandò poi, prendendone uno e offrendomelo da fiutare. – peccato che lei non avesse, lì, un coltello per tagliarlo in due “emisferi”. Il sapore del succo era ibrido: assomigliava a quello dell’arancia e a quello del limone, con, in più, una punta d’amaro del tutto particolare.
Il centro della rimessa era occupato da due vetture affiancate: una lunga Dilambda grigia, e una carrozza blu, le cui stanghe, rialzate, risultavano appena più basse delle pertiche retrostanti.
“Della carrozza ormai non ce ne serviamo più”, diceva intanto Micòl. “Le poche volte che il papà deve andare in campagna si fa accompagnare con la macchina. E la stessa cosa facciamo io e Alberto quando ci tocca di partire: lui per Milano, io per Venezia. È l’eterno Perotti a portarci ala stazione. A saper guidare, in casa, non ci sono che lui (guida malissimo), e Alberto. Io no, non ho ancora preso la patente, e bisogna proprio che la primavera prossima mi decida… purché… il guaio è anche che beve talmente, questo macchinone!”
Si avvicinò alla carrozza, dall’aspetto non meno lustro ed efficiente dell’automobile.
“La riconosci?”.
Aprì uno sportello, montò, sedette. Infine, battendo con la mano sul panno del sedile accanto a lei, mi invitò a fare lo stesso.
Salii, e sedetti a mia volta, alla sua sinistra. E mi ero appena accomodato che, ruotando lentamente sui cardini per pura forza d’inerzia, lo sportello si chiuse da solo con uno schiocco secco e preciso da tagliola.
Adesso lo scrosciare della pioggia sopra il tetto della rimessa aveva cessato di essere udibile. Pareva davvero di trovarsi dentro un salottino: un piccolo salotto soffocante.
“Come la tenete bene”, dissi, senza riuscire a padroneggiare un’improvvisa emozione che mi si rifletté in un lieve tremito della voce. “Sembra ancora nuova. Non ci mancano che i fiori nel vaso”.
“Oh, per i fiori Perotti mette anche quelli, quando esce insieme con la nonna”-
“Dunque la adoperate ancora!”
“Non più di due o tre volte all’anno, e soltanto per fare qualche giro in giardino”.
“E il cavallo? È sempre lo stesso?”
“Sempre il solito Star. Ha ventidue anni. Non l’hai veduto, l’altro giorno, in fondo alla stalla? È ormai mezzo cieco, ma attaccato qui fa ancora una…pessima figura”.
“Scoppiò a ridere, scuotendo la testa.
“Perotti per questa carrozza ha una vera mania”, continuò amaramente, “ed è soprattutto per far piacere a lui (odia e disprezza le automobili: non puoi credere fino a che punto!) se di tanto in tanto gli diamo da portare a spasso la nonna su e giù per i viali. Ogni dieci, quindici giorni viene qua con secchi d’acqua, spugne, pelli di daino, battipanni: ed ecco spiegato il miracolo, ecco perché la carrozza, meglio se vista tra il lusco e il brusco, riesce tuttora a darla abbastanza da bere”.
“Abbastanza?”, protestai. “Se sembra nuova!”
Sbuffò annoiata.
“Non dire stupidaggini, per favore!”
Mossa da un impulso imprevedibile si era spostata bruscamente, rannicchiandosi nel suo angolo. Le sopracciglia corrugate, i tratti del viso affilati dalla stessa espressione di strano livore di quando certe volte, giocando a tennis, si concentrava tutta per vincere, guardava davanti a sé. Pareva invecchiata di dieci anni.
Restammo qualche attimo così, in silenzio. Poi, senza cambiare posizione, le braccia raccolte attorno alle ginocchia abbronzate come se sentisse un gran freddo (era in calzoncini corti e maglietta di filo, con un pullover annodato al collo per le maniche), Micòl riprese a parlare.
“Ha voglia, Perotti”, diceva, “di spendere per questo penoso rottame tanto tempo e tanto sugo di gomiti! No, dà retta a me: qui, in questa semioscurità, uno può anche mettersi a gridare al miracolo, ma fuori, alla luce naturale, non c’è niente da fare infinite magagnette saltano subito all’occhio., la vernice qua e là è partita, i raggi e i mozzi delle ruote sono tutti un tarlo, il panno di questo sedile (adesso non puoi rendertene conto, ma te lo garantisco io) è ridotto in certi punti a una tela di ragno. Per cui mi domando: a che scopo tutta la struma di Perotti? Ne vale la pena? Lui, poveretto, vorrebbe strappare al papà il permesso di riverniciare tutto quanto, restaurando e impastocchiando a suo piacere. Però il papà nicchia, al solito, e non si decide…”
Tacque. Si mosse appena.
“Guarda invece là il sandolino”, proseguì – e mi indicava nel mentre, attraverso il vetro dello sportello che i nostri fiati cominciavano ad annebbiare, una bigia sagoma oblunga e scheletrica accostata alla parete opposta a quella occupata dallo scaffale dei pompelmi. – “Guarda invece là il sandolino, e ammira, ti prego, con quanta onestà, dignità, e coraggio morale, lui ha saputo trarre dalla propria assoluta perdita di funzione tutte le conseguenze che doveva. Anche le cose muoiono, caro mio. E dunque, se anche loro devono morire, tant’è, meglio lasciarle andare. C’è molto più stile, oltretutto, ti sembra?” (…)
Infinite volte nel corso dell’inverno, della primavera, e dell’estate che seguirono, tornai indietro a ciò che tra Micòl e me era accaduto (o meglio, non era accaduto) dentro la carrozza prediletta del vecchio Perotti. Se quel pomeriggio di pioggia nel quale era terminata d’un tratto la luminosa estate di San Martino del ’38 io fossi riuscito perlomeno a dichiararmi – pensavo con amarezza -, forse le cose, tra noi, sarebbero andare diversamente da come erano andate. Parlarle, baciarla: era allora, quando tutto ancora poteva succedere – non cessavo di ripetermi .- che avrei dovuto farlo! E dimenticavo di chiedermi l’essenziale: se in quel momento supremo, unico, irrevocabile – un momento che, forse, aveva deciso della mia e della sua vita -, io fossi stato davvero in grado di tentare un gesto, una parola qualsiasi. Lo sapevo già, allora, per esempio, di essermi innamorato veramente? Ebbene no, non lo sapevo. Non lo sapevo allora, e non l’avrei saputo per altre due settimane abbondanti, quando ormai il brutto tempo, divenuto stabile, aveva disperso senza rimedio la nostra occasionale compagnia.»
Nel film, questa scena, fatta soprattutto di cose non dette, è resa con estrema sapienza, anche in senso formale; e Dominique Sanda, con i capelli e il vestito bagnati di pioggia e quel sorriso inquieto che le aleggia sul viso, è più sensuale e misteriosa che mai.
«Il Giardino dei Finzi-Contini» è un film da vedere: magari ne potessimo vedere spesso, ai nostri giorni, di film così intensamente poetici, così aspramente belli.

Fr.Lamendola,Rivedendo IL GIARDINO DEI FINZI CONTINIultima modifica: 2008-11-28T17:03:00+01:00da mangano1
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