Biifo, Il 77 bolognese anticipò l’89

da LIBERAZIONE 30 DICEMBRE 2008
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Franco Berardi Bifo
Il movimento bolognese del 1977, che per molti aspetti anticipò processi culturali e politici destinati a svilupparsi nei decenni successivi, può essere considerato come un’anticipazione del 1989

Il movimento bolognese del 1977, che per molti aspetti anticipò processi culturali e politici destinati a svilupparsi nei decenni successivi, può essere considerato come un’anticipazione del 1989. Nel secondo dopoguerra Bologna era stata la città in cui il Partito comunista aveva esercitato in maniera ininterrotta un ruolo di governo, e la rivolta giovanile della primavera di quell’anno fu, prima di tutto nella coscienza dei suoi protagonisti, una rivolta contro la burocrazia e contro l’autoritarismo implicito nel modello riformista.
Il 1977 può essere considerato il punto di separazione tra l’epoca industriale e delle grandi formazioni politiche, ideologiche e statali – e l’epoca proliferante delle tecnologie digitali, della diffusione molecolare dei dispositivi trasversali del potere. A Bologna il movimento di quell’anno rappresenta anche la crisi finale del rapporto tra i movimenti e i partiti che provengono dalla storia della Terza Internazionale, in particolare il Partito comunista italiano.
Il rapporto tra il movimento e la sinistra tradizionale, che ereditava i suoi rituali e le sue ideologie dalla storia passata dell’epoca industriale fu un rapporto di conflitto e di rottura verticale. Non si trattava di una delle discussioni dogmatiche in cui ci si disputava l’egemonia sul movimento comunista, perché il movimento comunista si fondava su premesse che la generazione del ’77 liquidò nel momento stesso del suo costituirsi in movimento. Il ’77 si concepisce esplicitamente come movimento post-operaio, e respinge l’etica del lavoro che aveva fondato la storia culturale del movimento comunista novecentesco.
Quel movimento sfugge definitivamente alla presa concettuale e politica del movimento operaio terzinternazionalista, sia nella variante riformista del Pci, sia nella sua variante rivoluzionario-leninista. Il movimento del ’77 non aveva più niente a che fare con quelle vecchie storie. Eppure quelle vecchie storie gli presentarono il conto, lo circondarono con le loro anticaglie e le loro ossessioni.
Il Pci del compromesso storico cercò di isolare il movimento con una strategia di prolungata emarginazione culturale, ma alla fine il movimento, vincendo l’isolamento politico sul piano nazionale, riuscì a rompere l’accerchiamento culturale e a conquistare l’attenzione dell’opinione progressista europea. Da questo punto di vista dobbiamo dire, senza tante storie, che il 1977 (particolarmente quello bolognese) fu il primo episodio del 1989.
E’ a Bologna che inizia il processo di smantellamento definitivo della burocrazia stalinista che dopo il Memoriale di Yalta di Togliatti del 1964 si era riciclata come burocrazia riformista senza abbandonare la vocazione a schiacciare il dissenso, ad espellerlo, calunniarlo, mistificarlo, reprimerlo. A Bologna, nel marzo del 1977 apparve a molti che il principale nemico fosse il Pci. I comunisti lo dissero con incredulità, come se fosse uno scandalo denunciare il loro potere.
Ma l’asprezza di quello scontro va compreso nella prospettiva di un mutamento culturale profondo. Il movimento metteva in questione i due pilastri su cui si era fondata la cultura del Partito comunista: prima di tutto l’etica del lavoro, l’orgoglio del produttore che rivendica professionalità, mestiere, autogestione. Il movimento contrapponeva a questo il rifiuto del lavoro, l’assenteismo, la disaffezione, e la prospettiva di una progressiva decadenza del valore storico e produttivo del lavoro operaio.
In secondo luogo il movimento metteva in questione l’identificazione tra classe operaia e Stato, l’adesione profonda all’istituzione statale, considerata dal Pci come un elemento fondamentale dell’identità democratica. Il movimento preferiva affermare la tendenziale obsolescenza dello stato, e il suo svuotamento e la sua riduzione a macchina repressiva pura e semplice. Il feticismo della forma stato da parte del gruppo dirigente del Partito comunista era d’altronde legato alla teorizzazione leninista nella sua versione terzinternazionalista. Marx non aveva certo messo lo stato su un piedistallo. Era stato il Partito di Lenin, una volta giunto al potere, a identificare lo Stato operaio con l’ideale storico e politico del potere operaio. Con il senno di poi possiamo affermare che l’identificazione tra stato e potere operaio è una delle menzogne più profonde della teoria e della pratica staliniana, e una delle tracce più indelebili della tradizione terzinternazionalista e comunista.
A Bologna questa problematica si ripresentava, seppure in forma attenuata e riformata, e la santificazione dello stato come forma indiscutibile entro la quale ogni mediazione sociale deve essere ricompresa, era lontanissima dallo spirito libertario del movimento. In questo senso il movimento (soprattutto quello bolognese) porta su di sé una responsabilità culturale duplice: da una parte contribuì al ridimensionamento della religione statalista della sinistra. Dall’altra parte aprì la strada, in qualche misura, al liberismo che negli anni Ottanta dilagò nella cultura e nell’economia, dopo la vittoria di Thatcher e di Reagan.
Quando gli studenti si misero a contestare le baronie accademiche scoprirono che in buona parte erano rappresentate da baroni con la tessera del Pci. E i giovani operai emiliani si accorgevano che i padroni che li sfruttavano in molti casi avevano la tessera del Pci. E quando gli operai della Fiat attaccarono le politiche padronali e rivendicarono autonomia, si trovarono di fronte, a difesa di Agnelli, Giorgio Amendola, vecchio dirigente napoletano stalinista convertito a un riformismo autoritario. Per tutte queste ragioni il movimento identificò nel Pci un nemico e non un interlocutore con cui discutere.
Negli anni precedenti si era molto insistito, in Italia e all’estero, su una specificità dell’esperienza comunista italiana: il Pci era un partito più democratico rispetto ai partiti fratelli dell’Europa orientale o della Francia. Era vero, in qualche misura. Era stato certamente vero negli anni sessanta, e soprattutto nel periodo che aveva preceduto l’invasione sovietica in Cecoslovacchia. Alla fine degli anni sessanta nel Pci si sviluppò una dialettica culturale che registrava la novità del movimento studentesco, ma questa non giunse mai a scalfire il vertice, la direzione centrale, le ideologie forti che guidavano il partito-colosso. Negli anni settanta, poi, il Pci si era rinserrato nella torre d’avorio dell’autonomia del politico. Dopo il colpo di stato in Cile, Enrico Berlinguer aveva pensato che non ci fosse altra strada che quella del compromesso politico con la Democrazia cristiana. Quando vide crescere il movimento autonomo, e soprattutto quando vide che questo movimento attaccava proprio la roccaforte bolognese del Pci, reagì chiamando sprezzantemente i contestatori “untorelli”, e disse che non sarebbe riusciti, gli untorelli, a spiantare il bastione bolognese.
Ma la previsione di Berlinguer alla lunga fu smentita dai fatti. Il ’77 mette in moto una dinamica di corrosione che si può leggere, oggi, alla luce di quel che accadde dodici anni più tardi, nell’89, in tutta Europa. A partire dal 1977 le iscrizioni al Partito Comunista iniziarono a declinare inesorabilmente. La sinistra non sapeva vedere nient’altro che la superficie istituzionale della politica, e non seppe così vedere quel che si stava mettendo in movimento nel ventre profondo della società: non seppe vedere le dinamiche culturali profonde che provenivano dalla cultura americana. Né seppe prevedere le dinamiche tecnologiche, e le trasformazioni produttive che ne derivavano. Invece di seguire l’evoluzione della società, la sinistra si mise a guardia della continuità del sistema politico, e perciò perse progressivamente la sua egemonia culturale, la sua capacità di interloquire con le tendenze emergenti nelle nuove generazioni.
Qui sta l’analogia tra il ’77 bolognese e ciò che l’89 rappresentò poi su scala mondiale.
Il ’77 fu l’annuncio dell’89 proprio perché rivendicò l’autonomia del divenire sociale molecolare (tecnologico, produttivo, culturale, comunicativo) rispetto alla rigidità molare del politico, dello stato e del partito.

30/12/2008

Biifo, Il 77 bolognese anticipò l’89ultima modifica: 2008-12-30T21:49:00+01:00da mangano1
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