Michele Smargiassi, Il vero volto del suicidio

• da La Repubblica del 29 gennaio 2009, pag. 37
Michele Smargiassi, I vero volto del suicidio
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Jan Palach. Sansone. Giuda. Mohamed Atta. Catone. Sylvia Plath. Anna Karenina. Adolf Hitler. Piergiorgio Welby. Forse esistono tante ragioni per Congedarsi dal mondo (Il Mulino, pagg. 526, 32 euro) quanti sono gli individui, storici o immaginari, che hanno scelto di farlo per libera scelta e di propria mano. Tracciare un”sistema del suicidio” sembra uno sforzo impervio quanto analizzare i motivi stessi della vita e della morte. Tuttavia Marzio Barbagli, sociologo all’Università di Bologna, studioso della criminalità e dei comportamenti devianti, della famiglia e dell’omosessualità, con questo denso volume su cui ha speso otto annidi lavoro, non è il primo ad aver tentato l’impresa. Prima di lui il padre della sociologia classica, Emile Durkheim, dalle cui conclusioni – anzi, contro di esse – Barbagli sviluppala sua tesi: solo quando, dopo secoli di ferocissima repressione, il “delitto di Satana” è stato laicizzato e naturalizzato, è stato possibile conoscerne il vero volto, che non è solo quello della disperazione privata e della disgregazione, ma anche quello di una prerogativa umana; ed anche, in anni recenti, sconfiggerne le manifestazioni più oscure e patologiche. michele1.jpg

Per la Chiesa il suicidio è peccato; per Durkheim, patologia sociale: non è la stessa condanna in due forme diverse, professore?
«Ma il suicidio non è solo una patologia sociale

, come non è solo una patologia clinica. In certi casi è anche la consapevole rivendicazione di una libertà fondamentale dell’individuo, il diritto di decidere della propria vita, di fronte alla quale anche la morale cristiana ha dovuto cedere terreno».

La Chiesa è tuttora severa con chi rivendica quel diritto: Piergiorgio Welby non ha potuto avere esequie religiose.
Al dibattito odierno sul diritto al rifiuto delle cure è niente rispetto a ciò che fu nel passato la repressione del suicidio. Dopo iniziali incertezze, da Sant’Agostino in poi la Chiesa considerò la morte autoinflitta come un delitto più orrendo dell’omicidio, un peccato irredimibile e contagioso. Chi si indigna oggi peri toni di alcuni vescovi non sa che ferocia raggiunsero per secoli le sanzioni inferte ai corpi dei suicidi e ai loro familiari. Quei toni e quelle minacce oggi non hanno più corso, la Chiesa e i suoi ministri sono più comprensivi verso i suicidi, nei singoli casi e anche nella dottrina; il suicidio resta un peccato, ma il Catechismo stesso prevede attenuanti e non esclude più la speranza nel perdono».

Cosa ha prodotto questa indulgenza, o resa?
«Per essere efficace, il sistema repressivo della Chiesa non poteva basarsi solo sulle minacce ultraterrene; aveva bisogno del potere temporale, le cui leggi erano ugualmente severe. Ma nel Seicento la rivoluzione scientista cominciò a erodere le basi morali di quella severità: prima con le teorie degli “umori” e della “melancolia”, poi con lo studio delle passioni e della mente, il suicidio è stato sottratto alla sfera del peccato e trasferito in quella della malattia. Da frutto della disperazione, cioè della perdita di Dio, il suicidio è diventato un fenomeno appartenente alla natura, da curare, non più da reprimere. Svuotato dalla colpa e privo di deterrenza punitiva, il sistema di valori costruito dalla Chiesa è crollato».

A giudicare dalle polemiche sul caso Englaro e sul testamento biologico, non sembra.
«E’ l’ultima trincea di una resistenza sconfitta. A differenza di molti colleghi, vedo in queste reazioni della Chiesa la difesa disperata di una forza non più egemone ma soccombente. La Chiesa presidia sempre più a fatica una posizione che i suoi stessi sacerdoti non riescono più ad applicare integralmente».

Svanita da tempo la repressione, solo ora però, col testamento biologico, il suicidio entra nella legislazione come diritto positivo.
«La Costituzione garantisce già il diritto a rifiutare le cure. Ma quel che conta è che le novità legislative affondano in un contesto morale che da molto tempo è profondamente mutato. Ufficializzano una rivoluzione già avvenuta. Dopo secoli di feroce condanna, oggi verso un suicida non si prova altro che commozione».

Anche Marx ha sbagliato: per lui il suicidio era un effetto dell’alienazione capitalista.
«Le spiegazioni del suicidio elaborate dai grandi pensatori dell’Ottocento non sono sbagliate: sono insufficienti. Per Durkheim ci si uccideva in conseguenza di un turbamento profondo della coesione o delle norme sociali: in molte situazioni è ancora vero, prenda l’ondata di suicidi nei paesi post-sovietici. Ma accade anche in società perfettamente stabili e regolate. Marx ignorava che la crescita impetuosa del fenomeno precede di almeno un secolo la rivoluzione industriale, ed è spiegabile proprio con l’alleggerirsi della repressione morale e penale del suicidio».

Tre capitoli del suo libro tracciano la storia, ben diversa, del suicidio in Oriente. Cosa ci svela il confronto?
«Quel che avviene in società dove la repressione religiosa del suicidio non è intervenuta. Nell’Occidente pagano alcune forme di suicidio erano tollerate e perfino onorate: quello della donna violentata, del condottiero sconfitto, la vendetta morale per un torto ricevuto. Il cristianesimo ha spazzato via questa cultura, mentre in Oriente è rimasta radicata».

I kamikaze infatti vengono dall’Oriente. Siamo all’ultima tipologia di suicidio: l’arma del più debole contro i suoi nemici.
«L’attentato suicida ha radici anche nella cultura giudaico-cristiana: Agostino si trovò assai in difficoltà alle prese con Sansone. Ma è vero che in Occidente il suicidio aggressivo è pressoché sconosciuto. Invece dall’India alla Cina darsi la morte per colpire un nemico, immolandosi con lui o facendogli ricadere addosso la colpa della propria morte, è una scelta messa a disposizione per secoli da culture diverse. Attribuirla solo al fanatismo islamico è riduttivo. Tra l’altro, almeno fino all’I1 settembre 2001, gli attentatori suicidi di fede islamica erano solo la metà del totale. Certo, è l’arma del debole, e in questo è tecnicamente efficiente ed economica. Ma se non c’è un retroterra culturale, i kamikaze non si reclutano».

Un alto tasso di morti volontarie non è segno di disgregazione sociale?
Nella sua Bologna papa Wojtyla accomunò i suicidi ai divorzi e agli aborti come “stigmate di morte”. «Ci si toglie la vita per essere meno infelici. E una scelta che può indicare disperazione, ma anche liberazione da un vincolo doloroso. Del resto, quando il divorzio era proibito le famiglie non erano per questo meno disgregate».

Se dalla crescita dei suicidi non si deduce la crisi sociale, è spesso vero l’inverso. Cosa dobbiamo aspettarci da questo 2009 di recessione mondiale?
«Come accadde nel ‘29, forse un’impennata nel numero dei suicidi. Di un paio di casi clamorosi la stampa s’è già occupata. Ma non credo che la crisi riuscirà a invertire la tendenza, stabile da qualche decennio, alla forte diminuzione dei suicidi in Occidente. Una tendenza iniziata proprio là dove tre secoli prima partì quella contraria: nei ceti più istruiti, nei contesti urbani. In Italia il tasso di suicidi tra laureati si è dimezzato in vent’ anni, a Milano e Torino stessa cosa. Qui si vede come Durkheim sbaglia: non viviamo in società più coese di prima, eppure ci si uccide sempre meno».

I veri motivi?
«La terapia del dolore ha tolto di mezzo molti stati di disperazione. La medicalizzazione del disagio psicologico anche. Chi soffre di depressione o di disturbi mentali, oggi sa che queste sono malattie e non colpe, sa che può curarsi, che non è obbligato a sopportare fino al limite estremo».

Dove le scomuniche del prete hanno fallito, le cure del dottore hanno successo?
«Sessantadue italiani su cento ritengono ancora moralmente sbagliato il suicidio. In Svezia già solo il 29%. Intanto i suicidi calano là dove il disagio trova risposte e non punizioni. Credo significhi quello che dice lei».

Michele Smargiassi, Il vero volto del suicidioultima modifica: 2009-01-30T23:27:00+01:00da mangano1
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