Patrizia Gioia, Ricordando Osvaldo Cavandoli

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E’ da qualche tempo che è scomparso l’amico Osvaldo Cavandoli, forse il nome non vi dice nulla, eppure,
sono certa, lo conoscete tutti.
E’ lui l’Omino della “linea” , quel cartone animato in bianco e nero che tutti chiamavano Lagostina, perchè pubblicità di pentole. 
Allora era la pubblicità che teneva in piedi anche la Cultura, poi tutto e tutti sono finiti sull’isola dei famosi.
Ma è la memoria che ci salva e la gratitudine per chi, con humor , ci ha donato possibilità di redenzione.
Del resto, è proprio il sense of humor, l’unica qualità divina presente nell’umano.
Grazie Amico mio, grazie Cava.
Patrizia Gioia 
 

03.02.2005
 
patrizia gioia racconta l’amico poeta e umorista:
Osvaldo Cavandoli

Bianco cavallo alato e principe azzurro, contemporaneamente.
Mi ha sedotta, come solo un abile amante sa fare, senza che me ne accorgessi e potessi perciò difendermi, subito e improvvisamente, incrociandomi e guardandomi tutta, sulle strisce pedonali della nostra comune
via milanese.
Sconcertante principe senza età, dal sorriso dolce e dalla malinconia in agguato.
Cavallo alato dal furbo ghigno aperto al combattimento della parola e dello sguardo.
Nessuno meglio di lui ha saputo tradurre in umorismo tutto il dolore della vita.
Attraversandolo leggero, ma con maestoso tocco, ci ha mostrato sempre l’imbarazzante farsa
delle nostre povere apparizioni, teatranti attratti solo dall’applauso finale di un pubblico senza alcuna
verità della cultura..
Come Don Chisciotte non esiste senza l’altra faccia della sua stessa apparizione, il fedele Sancho,
così noi non siamo senza il tratto smascherante della sua matita.
Tratto deciso e languido, tratto apocrifa di una moderna Divina Commedia dove il paradiso è stato completamente raso al suolo dalla bomba atomica della stupidità umana, e noi sopravvissuti sulla punta della sua matita, sgomitiamo accatastati dentro un inferno dove arde una piccola fiammella tenuta in vita dal fiato acre di quel Cava-Lucifero, rimasto il solo testimone dell’esistenza di un’innocenza persa non per volontà di conoscenza, non per quella salutare disubbidienza, che in ogni specie solo i più intelligenti sanno osare,
ma per desiderio, un desiderio incontinente di protagonismo che, Grande Fratello e moderno giuda, pubblicizza l’elisir di redenzione.
Innamorarsi di ciò che ci raccontano, dimentichi di avere un’anima e un cervello, è la ridicola maledizione del miracolo dei tanti berlusconi.
E Cava insinua che i miracoli del marketing, ipotesi d’incarnata esperienza, in cui la mancanza di creazione tramuta il vero in tante copie, sono finzioni che ci illudono e mentre crediamo la via già tutta illuminata, siamo invece ancora povere falene grigie, spiaccicate contro un vetro che era solo ben dipinto, abile scenografia creata dal vuoto dell’epocale perdita del Senso o forse specchio, dove non facendo mai
cara l’esperienza, ancora una volta Narciso si è confuso.
Questo racconta Cava dentro quel suo tratto nero, continuo fino al precipizio, come quei terribili binari
che dritti finivano nei lager, e come non fare il parallelo con questi nostri giorni, anche allora abbiamo voluto credere alle parole di quelle grandi scritte che, come oggi, erano e sono vane parole, alfabeto imbecille del dittatore che urla così forte in noi, impedendoci di sentire la profonda voce che sola e quieta induce alla trasformazione.
Cava, corroborante come un cardiotonico, metafisico clown del grande Circo, trasformista mattatore nel disegno, simbolo di quella intelligenza diventata adulta con il sorriso di chi sa cos’è la sofferenza.
Cava, tabernacolo dell’humor, abile cuoco del sorriso, sacerdote di una comunione che lega il quotidiano col divino.
Cava nella disperata corsa ad inventar fandonie, resti il vero custode della sincerità, il Mercurio della fedeltà all’idea, il piccolo Cupido di cui ci si innamora.
Hai dato alle nostre ombre un volto, fatto delle nostre storie un film, pezzi di tutti noi in pellicola che, se incendiata, potrebbe, come sacro fuoco, scaldare i nostri cuori chiusi nelle scatole dei congelatori.
Cava, con quella voce roca e spezzettata che sembra che non dica, ma invece recita col cuore,
hai fatto del sudore della vita un fiore, che s’apre alla rugiada del mattino, conosce venti e piogge disperati, ma anche cieli stellati e grandi amori.
E mentre salgo sul tuo dorso amico, non è il cavallo bianco che s’alza in volo, ma l’anima del principe.
Anima alata da un gran sorriso fermato al collo da un fazzoletto colorato.
S’alza e saluta il mondo, perché il Cava sa che la Bellezza e la Verità hanno altri cieli, di cui lui è, tra gli umoristi che li cercano, per sempre il solo re.

Patrizia Gioia
Milano, maggio 2002

 

Patrizia Gioia, Ricordando Osvaldo Cavandoliultima modifica: 2009-02-25T11:19:00+01:00da mangano1
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