Marco Iacona, A passo di gatto

la rivoluzione marciò a passo di… gatto
di Marco Iacona – 27/03/2009
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Fonte: Arianna Editrice

Il Sessantotto imperversava. A Trento, Torino, Roma e Milano, innanzitutto. Ma anche a Firenze e Pisa. Insomma un po’ dappertutto. L’Italia, almeno così ci hanno raccontato, non sarebbe stata più la stessa. Da quei giorni e per un decennio abbondante al termine riforma sarebbe stata prediletta la parola rivoluzione. Tanto reale ed impegnativo il primo quanto romantica e (quasi sempre) irresponsabile la seconda. Sventolando lo stendardo della rivoluzione, alla fine quasi nessuno avrebbe più creduto alle semplici banalissime virtù della politica, all’arte del possibile come opportunità verso il cambiamento. O la rivoluzione o il diluvio; o il sangue o nulla; il nichilismo s’era impadronito del nostro Paese. Tutti ne avrebbero patito le conseguenze (in special modo i caduti sul campo).
Il 68 ai tempi del Sessantotto si nascondeva all’interno delle università e nei licei, coi prof e gli studenti maoisti che si vantavano di saperla lunga e con le ragazze, mai protagoniste fino a quel tempo, un po’ angeli (del ciclostile) e un po’ demoni, che così, tanto per bene, non volevano apparire. Andarsi a rileggere, se si ha voglia, quel che scriveva sulle giovani donne, Gianna Preda su Il Borghese nei primi mesi del 1968…
Anche la Chiesa, figurarsi, era caccia grossa per i rivoluzionari, per quelli cioè che credevano in qualunque cosa o azione purché alternativa. Come le leghe di Giulio Verne, erano ventimila i famosi cattolici del dissenso, divisi in cinquecento gruppi, soprattutto nelle regioni rosse, adoravano Don Milani, Giovanni XXIII il papa della distensione e Che Guevara. Ed erano tutti pacifisti.
C’è una sorta di parallelo tra l’America impegnata a quel tempo nel Vietnam, in una guerra che muterà (ma non completamente) il modo di guardare al Grande Fratello occidentale, la Primavera di Praga che assesterà un bel colpo alla Grande Sorella dell’est, e la piccola Italia che perderà la sua ingenuità, politica, sociale e perfino culturale proprio alla fine dei Sessanta. Probabilmente ha ragione chi pensa che il lungo e un po’ triste dopoguerra sia finito proprio allora, quando le grandi potenze, ma non solo esse, avrebbero smesso la maschera di bontà, e quando il progresso avrebbe spinto a gridare al miracolo (“camperemo tutti fino a 200 anni!”). Nel ’68 Benedetto Croce era morto da sedici anni, e fra una sentenza e l’altra aveva anche detto che “non poter morire sarebbe stato davvero triste”. Si sarebbe sbagliato ancora una volta. Le sue parole sarebbero franate dinnanzi alle forme gradite dal progresso. Come il Marx profeta del crollo del capitalismo, il filosofo liberale non avrebbe capito che il progresso (certo progresso), avrebbe avuto mille opportunità per sopravvivere, per mutar pelle e per sedurre; per piacere e perché ci si piacesse sempre più.
È ancora in corso un dibattito sul ‘68. Un dibattito di lungo periodo. Se esso sia stato l’inizio o la fine di qualcosa; se i sessantottini abbiano ottenuto quel che volevano o siano scesi a patti col potere. Insomma se, per usare un linguaggio comune, il ’68 abbia vinto o meno (e che cosa abbia vinto di esso: il cosiddetto spirito o qualcosa di più concreto…). Ai discorsi in parte già vecchi, vorrei aggiungere qui qualcosa di diverso. In realtà, in pieno ‘68, quando dunque imperversavano i moti studenteschi, ci fu chi vinse davvero. Una vittoria che a distanza di quarant’anni nessuno può mettere in discussione. A trionfare fu una bambina di quasi cinque anni, dallo sguardo dolcissimo, coi capelli lunghi e due codine ai lati. Si chiamava Barbara Ferigo. E chi era costei? Cantava allo “Zecchino d’oro”, al festival della canzone per i bambini (alla sua decima edizione), il motivetto “Quarantaquattro gatti”. Con quella canzone mitica, lei sì che, nel 1968, avrebbe vinto sul serio.
Parliamoci chiaro, la canzoncina un po’ di sinistra lo era (ma cosa non era di sinistra alla fine degli anni Sessanta?). Narrava di una riunione “sindacale” fra gatti “senza padrone” nella “cantina di un palazzone” il cui scopo era la pretesa di una sorta di minimo sindacale: poter mangiare e poi dormire sulle poltrone dei “padroni”. Un po’ come aveva fatto Karl Liebknecht all’indomani della rivoluzione spartachista, quando s’adagiò sul letto vuoto del Kaiser. Tutto qui? No. In verità i simpatici mici avrebbero promesso, in cambio, un piccolo gesto d’amicizia: non si sarebbero arrabbiati, anzi tutt’altro, se i ragazzini avessero tirato loro la coda. Almeno così pare…. Quisquilie direbbe Totò.
Un do ut des? Mah, una canzone un pochinino rivoluzionaria, non troppo moderata, una filastrocca popolare, progressista e “operaia”, che in tempi di tutto e subito poteva essere abbastanza gradita. Vabbé visto che siamo nel gioco (ma al tempo un vero e proprio gioco non fu) la racconto tutta… Chissà se l’allora Presidente del Consiglio uscente Aldo Moro, il giorno dopo la vittoria della piccola Barbara, parlando ai cattolici della Valtellina non avrebbe tratto ispirazione proprio dal motivetto fresco fresco di vittoria: “Non si può avere subito tutto. Senza sacrificio non c’è progresso”, avrebbe detto con spirito diciamo così poco animalista. Quel giorno, narrano le cronache, un paio di giovani con bandiera dei vietcong avrebbe contestato il cavallo di razza della Dc. A distanza di quarant’anni difficile sapere il perché. Forse per i consueti motivi politici? O magari perché fan della piccola Barbara? O forse perché tifosi della rivale Cristina D’Avena, deliziosa terza classificata allo “Zecchino d’oro” con l’altrettanto mitico “Valzer del moscerino”? Probabile che imputassero al Presidente la mancata vittoria della cantante dei Puffi. Perché no? In anni di tutto è politica poteva accadere anche questo… A noi figli di un 2009 minore non resta che sospendere il giudizio (come diceva Husserl), e al Mago Zurlì l’ardua sentenza.

Marco Iacona, A passo di gattoultima modifica: 2009-03-31T23:52:00+02:00da mangano1
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