Alessandra Cristofani, Giù le mani da Giotto

(da LA STAMPA, 30 giugno 2009)

Il Nobel lo ritiene troppo giovane
per aver dipinto gli affreschi di Assisi.
Il prelato: no allo show
ALESSANDRA CRISTOFANI
ASSISI (Perugia)

ALESSANDRA.jpegGiotto non si tocca. Parola di vescovo. Monsignor Domenico Sorrentino, presule delle 63 parrocchie di Assisi, lo ha detto a chiare lettere. Poco importa se Dario Fo è un premio Nobel. Lui, pastore di oltre ottantamila anime, all’artista ha consigliato di cambiar aria, di portare altrove lo spettacolo «Giotto o non Giotto?», che avrebbe dovuto andare in scena nella piazza davanti alla basilica superiore di Assisi. Perché il veto? Qualche motivo di natura religiosa, neppure troppo sorprendente in un autore come Fo, mai troppo tenero con il clero? Tutt’altro: a irritare il vescovo Sorrentino è il contenuto «culturale» del monologo, nel quale Fo afferma che gli affreschi della basilica con le storie di San Francesco non sono attribuibili a Giotto come vorrebbe la tradizione.

Così la terra di Francesco respinge oltre i confini della Curia la disputa artistico-culturale sulla paternità del ciclo pittorico della navata della basilica e difende a tutti i costi una verità artistica un po’ traballante. Lo fa il vescovo, che trova molti concittadini disposti a seguirlo. «Gli affreschi non sono di Giotto? A che serve questa verità – si chiedono – Tanto i pellegrini non lo saprebbero mai e serve soltanto a far crollare una magnifica illusione agli ultimi poveri assisani. Che ce la lascino, questa illusione…». Replica, amareggiato, Dario Fo: «Questo è il segno dei tempi. E’ davvero un’espressione di quel retrivo conservatorismo culturale per il quale ogni alterazione dello status quo diventa un atto di blasfemia». Per Dario Fo il veto del vescovo allo spettacolo – un monologo di cinque ore in due serate – altro non è che una forma di «censura preventiva». E dire che sia Claudio Ricci, sindaco del centrodestra di Assisi, sia i frati del Sacro Convento, non avevano trovato nulla che facesse gridare allo scandalo.

Invece, in prossimità del debutto, è arrivata la bocciatura vescovile. «Qui non si può stare», hanno riferito agli organizzatori della rappresentazione. «Mai più spettacoli di fronte alla facciata della chiesa», hanno spiegato. E intanto, nella stessa piazza, era stato montato il palco, le luci, gli amplificatori per il concertone del 12 giugno, con Renato Zero, Raf, Tiziano Ferro. «Vanno bene le canzonette di fronte alla basilica di San Francesco, vanno bene le ragazze danzanti e perfino i numeri da cabaret ma, per favore, niente storia dell’arte», attacca, con una battuta, il figlio di Dario, Jacopo. Che spiega: «Ancora una volta un malinteso senso del sacro porta le gerarchie ecclesiastiche a praticare la censura».

Eppure, Dario Fo, che da perfezionista qual è si è documentato per quattro anni prima di decidere di portare in scena il contestato spettacolo, non è né il primo né il solo a sostenere che i dipinti di Giotto non sono di Giotto. Bruno Zanardi, che ha lavorato per anni alla ripulitura degli restauri degli affreschi della basilica di Assisi, ritiene che la maggior parte dei ventotto riquadri del ciclo francescano di Giotto sia in realtà attribuibile al pittore romano Pietro Cavallini. A corroborare la sua tesi anche un nome del calibro di Federico Zeri che non esitò a firmare la prefazione del volume di Zanardi, «Il cantiere di Giotto», edito nel ’96. Sulla questione Giotto-non Giotto, Dario Fo – da Cesena dove si trova da qualche giorno per le prove dello spettacolo, previsto in anteprima nazionale per il 2 e 3 luglio – trova il tempo, di discettare su questioni propriamente tecniche: «In primo luogo Giotto era troppo giovane per poter avere un incarico così importante, anche se bisogna riconoscere che in un’epoca in cui a cinquant’anni si era già considerati vecchi, a venticinque si poteva a buon diritto ritenersi uomini decisamente maturi».

Quanto allo stile più di un elemento indurrebbe a credere che sia stata la mano di Cavallini e non quella di Giotto a realizzare il ciclo pittorico: «Basti pensare – si infiamma Fo – alla tecnica di stesura del colore, alle ombre, alle velature, all’uso dell’appretto». Dario Fo del suo studio su Giotto potrebbe andar avanti a parlare per ore. Ha studitao tutto nei minimi dettagli, per giorni, mesi, anni. L’unica cosa che forse gli è sfuggita, quella cui non si è ancora abituato («nonostante alla censura ho ormai un allenamento di sessant’anni»), è proprio il rischio dell’esilio, l’ostracismo dettato dalla paura di una qualche grana. «Perché, sa? – ammette – Dario Fo, qualche noia la porta di sicuro».

Alessandra Cristofani, Giù le mani da Giottoultima modifica: 2009-06-30T17:37:00+02:00da mangano1
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