Franco Cardini,Risorgimento da ripensare

Risorgimento da ripensare
di Franco Cardini – 30/04/2010

Fonte: francocardini

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Siamo in pieno 150° dell’Unità d’Italia, atto forse centrale, forse al contrario finale e risolutivo del processo d’unificazione nazionale e del movimento risorgimentale. Detto così, è tutto liscio. Invece, tutto appare da ripensare e da rivedere (e non cominciamo col tormentone-ricatto dei “revisionismo”: la storia, o è revisione o non è niente). Non si tratta quindi né di suonar la grancassa come vorrebbe la celebre scuola di pensiero larussiana, né di mandar tutto a carte quarantotto come vorrebbero le trote intellettuali della Brianza e del Varesotto. Proviamo a fare un discorso serio: anche se, con certi interlocutori, ciò equivale a un ossimoro.

Anzitutto, una premessa. Non mi pare si possano eludere due questioni. Prima: ripensamento serio sul cosiddetto “Risorgimento” (che cosa mai sarebbe “ri-sorto”, in particolare? Qui c’è la fondazione di un “mito” su cui si dovrebbe discutere: sul Ri-Sorgimento, di che e di che cosa, come sul Ri-Nascimento, di chi e di che cosa?). Seconda: discussione spregiudicata e disincantata sul “processo di unità nazionale”, sulla sua “necessità” e sui suoi caratteri originali, sui suoi rapporti con l’ “invenzioni delle nazioni moderne” e su quello che essa ha significato per uno dei peggiori flagelli che si sia mai abbattuto sulla storia degli ultimi due secoli, il nazionalismo con tutti i suoi esiti (che è troppo comodo definire “degenerazioni”).

Si è già cominciato a tentar di esorcizzare e di censurare questa problematica sul nascere. Al riguardo, mi sembra che parlare di istanze “revisionistiche” o addirittura “temporalistiche” o cose del genere sia tutto fuori luogo: se è un tentativo terroristico di fra tacere le voci “fuori dal coro” o politically incorrect, siamo fuori strada.

Alcuni mesi fa, il presidente del consiglio, intervenendo a una festa dei giovani di quella ch’era ancora Alleanza Nazionale, sventolò platealmente una copia del libro Risorgimento da riscrivere della storica cattolica Angela Pellicciari esortando con fermezza quei giovani a leggerlo. La scena, divertente, venne rimbalzata in molti canali televisivi. Ricordo gli occhioni spalancati e il volto un po’ arrossato di Giorgia Meloni, che si trovava accanto al presidente e che il libro probabilmente lo aveva letto, o almeno sapeva di che cosa si trattava. Perché quel che il presidente stava sventolando come facevano una volta i ragazzi di “Servire il Popolo” col “libretto rosso” di Mao altro non era se non un ferocissimo pamphlet contro il Risorgimento cavouriano-mazzinian-garibaldino: il premier stava in altri termini proponendo al suo uditorio, senza rendersene conto, esattamete l’opposto della Weltanschauung gasparriana che negli ultimi mesi era andata imponendosi in AN (peccato: il vecchio MSI, al riguardo, era riuscito in tempi non lontanissimi ad avviare un dibattito molto più critico e articolato: i pennini sembravano tornati al mameliano i-bimbi-d’Italia-si-chiaman-balilla. Ma pazienza).

Credo che il Berlusconi avesse bandalzosamente abbracciato l’impresa editoriale della Pellicciari (con le idee della quale, sia chiaro, io largamente concordo) in quanto a ciò indotto da alcuni dei suoi finissimi consiglieri di Comunione e Liberazione o di Alleanza Cattolica, se non di qualche cattoleghista (dopo gli atei devoti, avremo anche le trote devote? Perché no, in fondo? Certo, io rimpiangerei in tal caso lo charme di Irene Pivetti, del quale gli attuali salmonidi paiono privi).

Quella del Berlusconi fu comunque una felix culpa: perché il fatto è che la storia si deve ripensare di continuo. Che palle, con queste riedizioni rétro del Cuore del de Amicis! E se avesse avuto ragione Radetzky? E se ce l’avesse avuta un po’ anche Franti? Scherzi a parte (ma non sto scherzando mica troppo…), oggi, a distanza di 150 anni dalla fondazione del regno d’Italia, è evidente che molte prospettive sono andate mutando e che su di esse hanno intensamente lavorato gli specialisti: mentre sono mancati sia (almeno in parte) un vero e proprio aggiornamento nelle scuole (la mancanza di aggiornamento dei nostri insegnanti è una delle tragedie della scuola italiana), sia un dibattito mediatico fruibile da parte del “grande pubblico”, vale a dire di quella porzione della società civile italiana che non ha ancora rinunziato a esser tale.

E allora discutiamo. Quello che in sintesi mi pare si possa dire, è che il processo di unità nazionale fu mandato avanti da alcune élites peraltro non concordi fra loro, ma che la maggioranza delle popolazioni che costituivano la futura Italia unita ne restarono estranee. Si potrebbe obiettare che molti eventi storici sono stati caratterizzati da un processo dinamico analogo, vale a dire che solo ristrette élites ne sono state protagoniste. Niente di scandaloso. Però vanno sottolineate due cose. Prima: la formula dello stato unitario accentrato che alla fine prevalse era coerente con gli interessi espansionistici dei Savoia e forse di alcuni imprenditori e finanzieri, era gradita all’ideologismo neogiacobino di garibaldini e mazzininani, ma non congrua con la storia e temo nemmeno le strutture e le istituzioni dei vari stati italiani precedenti; la storia d’Italia è eminentemente policentrica e municipalistica, per cui una soluzione di tipo “federale”, analoga mutatis mutandis a quella che gli Hohenzollern e il principe di Bismarck dettero al problema unitario tedesco, sarebbe stata più adatta e opportuna di quella che, fra l’altro, generò la colonizzazione e lo sfruttamento del sud da parte del nord (con fenomeni collaterali quali il brigantaggio e la sua tanto orribile quanto in parte vana repressione) e la meridionalizzazione di buona parte delle strutture pubbliche del giovane regno. Secondo: il carattere élitario del “movimento risorgimentale” nei suoi esiti ultimi ebbe come effetto obiettivo un notevole ritardo nella “nazionalizzazione delle masse”, nonostante i due strumenti della scuola e della leva obbligatoria; da questo punto di vista mi sembra che vedessero giusto gli interventisti, “democratici” o “rivoluzionari” che fossero, i quali ritenevano che il bagno di sangue avrebbe cementato l’edificio della patria e che gli italiani, che fatta l’Italia non erano stati fatti, si sarebbero forgiati nel ferro e nel fuoco della trincea. Ma ciò – attenzione! – porterebbe a concludere che la visione della prima guerra mondiale come “quarta guerra d’Indipendenza” e compimento del processo di unità nazionale, la visione di Gioacchino Volpe (e di Mussolini), era corretta viste quelle premesse. Attenzione: non ho detto che la dittatura fascista fosse a questo punto l’esito necessario del movimento del ’59-61 (e del’70). Mi limito a dire che anzitutto non fu affatto “l’invasione degli Hyksos” come sosteneva Benedetto Croce; e che si trattò di un esito che, in termini di costruzione del consenso e di edificazione dello stato sociale, dette comunque – piaccia o no – un senso a quel movimento che, partito dalla spedizione dei Mille e dalla commedia delle annessioni plebiscitarie per approdare alla tassa sul macinato, agli scandali bancari, ai cannoni del Bava Beccaris e alle leggi eccezionali del Pelloux, era fallito: solo un intervento ingiusto (perché si tradì un’alleanza) in una guerra infame (aveva ragione Benedetto XV) avrebbe potuto salvarlo. Ma allora quel che mancava – “nazionalizzazione delle masse”; disciplina del lavoro e stato sociale; avvìo di un abbozzo almeno di riforme che sconfiggessero l’immigrazione e le malattie come la tubercolosi; lotta alla malavita nel sud; pacificazione con quella che già Antonio Gramsci aveva riconosciuto come l’unica vera forza popolare italiana, la Chiesa – fu il fascismo a saperlo realizzare, sia pure a prezzo prima di un cinico e un po’ provinciale movimento di adeguazione al trend repressivo antibolscevico o sedicente tale che si era verificato un po’ in tutta l’Europa almeno centrale e orientale, quindi di una sospensione delle garanzie statutarie che fu forse storicamente illegittima, non però illegale in quanto fu la corona a coprirla con la sua legittimazione. Non v’è possibile paragone tra i regimi conservatori e repressivi nati in tutta Europa per rispondere alla Rivoluzione d’Ottobre (penso all’Austria di Dollfuss, che pure cercò di darsi un dignitoso contenuto cristiano-social-nazionale,, o all’Ungheria di Horthy, o alla Polonia di Pildsuski, o alla Finlandia di Mannerheim, o alla Romania di Carol: e metto insieme personaggi molto differenti tra loro) e i caratteri dinamici e innovativi del movimento e dello stesso regime fascisti italiani sia dal punto di vista politico e sociale, sia da quello culturale.

Allora, prendiamoci il coraggio di far un po’ di spregiudicata ucronia: se Benito Mussolini fosse morto di un accidente all’età di una cinquantina d’anni, poniamo non il 28 aprile 1945 ma il 28 aprile 1935, prima di scatenare la guerra d’Etiopia e di lasciarsi avvolgere dall’abbraccio stritolante di Hitler, egli sarebbe stato sì l’uomo degli squadristi e del delitto Matteotti (al di là delle sue personali responsabilità al riguardo), ma anche quello del risanamento delle istituzioni statali, della lotta alla piaga dell’emigrazione, della Carta del Lavoro e dell’autentica fondazione dello stato sociale (dopo i conati di Giolitti), dello sbancamento della mafia (riportata in Sicilia dai “liberatori” americani, quelli della strage di Gela!…), della modernizzazione del paese – bonifiche, ferrovie, incentivi all’industrializzazione, nascita delle industrie turistica e cinematografica, impulso alle comunicazioni navali e avvìo di quelle aeree -, della “nazionalizzazione culturale delle masse” (OND, “Carri di Tespi”, 18 BL…), della conciliazione tra stato e Chiesa. Oggi avrebbe una statua in tutte le piazze d’Italia come vero Pater Patriae, più di Cavour e di Garibaldi.

Invece l’accidente non gli è venuto: e le sue scelte tra 1935 e 1943 (ammesso che abbia scelto sul serio qualcosa, tra 25 luglio 1943 e 28 aprile 1945…) hanno causato non solo le tragedie che sappiamo, ma anche una di più, della quale nessuno parla mai. Io l’ho vissuta in prima persona e ne sono testimone. Dopo la guerra e molto a lungo, per l’opinione diffusa (che i comunisti strumentalmente ricattavano puntando alla rivoluzione socialista che non c’è mai stata; i cattolici non combattevano perché in fondo lo stato postrisorgimentale, laico e unitario non lo avevano mai amato; e né i puri di “Giustizia e Libertà” né i “moderati” di destra e di sinistra avevano l’energia e la moralità di ostacolare), chiunque facesse appello ai valori patriottici, alla solidarietà nazionale e al senso dello stato veniva tacciato di “fascista”. Ciò ha provocato al paese un danno morale immenso: è stato il bacillo che ha generato l’infezione scoppiata in maniera devastante più tardi e della quale stiamo ancora pagando le conseguenze.

Ne consegue, a mio avviso, che esito migliore avrebbe potuto avere in Italia un movimento di edificazione dell’unità nazionale che scegliesse la via federalistica, indicata da Gioberti ma – soprattutto – da Cattaneo: anche salvando, ebbene sì, un potere temporale pontificio, magari ridotto alla città di Roma e qualche pertinenza. Quella via non avrebbe creato la rovinosa “questione meridionale”, non avrebbe determinato decenni di crisi morale resa inevitabile dal contrasto tra stato e Chiesa con tutto quel che ciò aveva significato per il paese (anche in termini morali e culturali: un piccolo ridicolo Kulturkampf il regno l’ha fatto eccome…), probabilmente avrebbe evitato la rovinosa politica di opposizione preconcetta all’Austria sulla base delle miserabili rivendicazioni territoriali di nord-est (vorrei ricordare che Cattaneo auspicava che il “Commonwealth” austriaco restasse in piedi), non si sarebbe appoggiata alla Prussia nella guerra del ’66 contribuendo in tal modo, forse, a evitare la guerra franco-prussiana del 1870 ch’è stata la lontana ma primaria fonte dei guai di tutto il continente per i tre quarti di secolo a venire. Sarebbe bastato appoggiare seriamente il progetto di Napoleone III (in verità, piuttosto dell’imperatrice Eugenia) di una lega franco-ispano-italo-bavaro-austro-ungherese delle potenze cattoliche euromeridionali, con annesso il progetto di favorire l’indipendenza polacca (l’Austria ci sarebbe stata, alla faccia di Germania e Russia) e di gestire oculatamente la crisi e la decadenza dell’impero ottomano, il che sarebbe stato meglio per tutto il Vicino Oriente (mentre invece lo abbiamo fatto gestire dal ’18 al ’48, rovinosamente, da Francia e Inghilterra). Fra l’altro, l’alleanza sognata da Eugenia sarebbe stato un ottimo contributo alla futura unione europea. E forse sarebbero andate diversamente anche le cose in Messico e quindi in tutto il Mesoamerica, con un buon ridimensionamento delle pretese statunitensi e un rafforzamento delle prospettive europee di paesi come l’Argentina e il Cile, che a guardar all’Europa erano molto portati. E probabilmente, grazie a un differente approccio al problema dello sfruttamento del canale di Suez – come si sarebbe potuto avere se l’Italia avesse contribuito, e avrebbe potuto farlo, a evitare la guerra del ’70 –, anche la nostra avventura africana avrebbe preso una piega diversa, meno tragicomica. E lo stesso sia detto per il nostro mondo imprenditoriale: un’Europa meridionale e un Mediterraneo egemonizzato dalle potenze navali francese, austriaca e italiana avrebbe impresso tutto un altro trend alla nostra economia. Pensiamo solo alle implicazioni di un’integrazione linee ferroviarie-linee marittime, con la possibilità di avviare sul serio una politica di penetrazione orientale dai Balcani e da Istanbul fino all’Iran e all’Asia centrale. Un mondo senza le due guerre del ’66 e del ’70 avrebbe potuto sul serio attuare in tempi rapidi una linea ferroviaria Vienna-Isfahan e collegare l’Europa continentale al great game russo-inglese, magari nel contempo impedendo alla russia di avvelenare i Balcani con la droga del nazionalismo irredentista, causa della prima guerra mondiale. Altro che Trento e Trieste, che nell’impero austroungarico ci stavano benissimo…

Ma l’Italia si è fatta in un altro modo. Ha perduto l’autobus dell’unione federalista e quello d’una temporanea correzione autoritaria che – assunta appunto in tollerabile dose, e in prospettive di reversibilità passata l’emergenza – le sarebbe stata salutare. Comunque, dopo il fascismo, la guerra, il progressivo sfascismo postbellico, oggi siamo pervenuti a un paese che sta tentando di attuare di nuovo un progetto federale. Non so se è corretto come quello che sarebbe stato opportuno intraprendere un secolo e mezzo fa. So che alla luce delle nostre scelte di oggi non si può non concludere che quella del regno unitario fu una “falsa partenza”. Il problema, a questo punto, è se proporre, dopo la seconda repubblica ormai morta giovane e la terza che forse abortirà sul nascere, una quarta repubblica che torni su basi nuove e moderne a una visione unitaria dello stato italiano nel quadro di un’unità europea anch’essa da ripensare, o se si può e si deve insistere su un federalismo che tuttavia non equivalga alla dissoluzione dell’unità. Il che, fra l’altro, comporterà per forza di cose anche il tornar a parlare di qualcosa che ormai nei mass media italiani è diventato un tabù: la politica estera.

Insomma, c’è molto da discutere, da studiare, da scegliere. Ma c’è poco da celebrare.

Franco Cardini,Risorgimento da ripensareultima modifica: 2010-04-30T17:55:55+02:00da mangano1
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