G.Crainz, Autobiografia di una repubblica

scheda da storia e storici

 

GUido Crainz
Autobiografia di una repubblica
Le radici dell’Italia attuale

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L’interrogarsi sulla «anomalia italiana» è stato un carattere costante della storiografia e del dibattito politico ma raramente ha assunto i toni che lo hanno caratterizzato nei primi anni novanta. Non mancavano certo ragioni. L’affermarsi impetuoso della Lega Nord sembrava mettere in discussione l’unità nazionale e rinvigorire polemiche antimeridionali e antistatuali d’antica data: esse erano alimentate ora dal colossale spreco di risorse e dal dissesto dell’intervento pubblico, e da un’offensiva senza precedenti delle organizzazioni mafiose. Ben lungi dall’esser confinato al Sud, il disastro dello Stato aveva però una clamorosa conferma nella «capitale morale»: i giudici milanesi rivelavano una «Tangentopoli» che si era estesa in tutta Italia e contribuivano così al crollo del sistema politico sin lì dominante.
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Gli anni Novanta: l’ “anomalia italiana” – Tra persistenze e discontinuità – Le strategie della “non scelta” – Il mutamento – Una macchina dotata di un motore imballato – L’emergenza dei privilegi – “boss”, “sottoboss” e la questione morale – Le radici del presente: “faccio il danaro con il danaro”

Gli anni Novanta: l’ “anomalia italiana”.
L’interrogarsi sulla «anomalia italiana» è stato un carattere costante della storiografia e del dibattito politico ma raramente ha assunto i toni che lo hanno caratterizzato nei primi anni novanta. Non mancavano certo ragioni. L’affermarsi impetuoso della Lega Nord sembrava mettere in discussione l’unità nazionale e rinvigorire polemiche antimeridionali e antistatuali d’antica data: esse erano alimentate ora dal colossale spreco di risorse e dal dissesto dell’intervento pubblico, e da un’offensiva senza precedenti delle organizzazioni mafiose. Ben lungi dall’esser confinato al Sud, il disastro dello Stato aveva però una clamorosa conferma nella «capitale morale»: i giudici milanesi rivelavano una «Tangentopoli» che si era estesa in tutta Italia e contribuivano così al crollo del sistema politico sin lì dominante. Il dibattito investiva la natura della «repubblica dei partiti» ma al tempo stesso la storia di lungo periodo, la fisionomia e la ragion d’essere del paese. Se cessiamo di essere una nazione è il titolo di uno stimolante volume di Gian Enrico Rusconi pubblicato nel 1993 e negli stessi mesi Lorenzo Ornaghi e Vittorio Emanuele Parsi scrivevano: «nessun discorso sulla società italiana dal dopoguerra ad oggi può scansare la domanda se la nostra società possa dirsi davvero una società. O addirittura se mai lo sia stata». La crisi, osservava Ernesto Galli della Loggia, rimanda «all’identità nazionale, ai suoi valori, al significato morale dell’essere una collettività». Come è finita male la prima Repubblica, annotava amaramente Norberto Bobbio, e aggiungeva: «una fine così miseranda è l’espressione del fallimento di tutta intera la nazione». […]
Implosione di un sistema politico chiuso e profondità di una corruzione non riducibile ad esso: la «tenaglia» sembrava non offrire scampo. «Intere schiere di uomini politici e di funzionari pubblici – osservava Antonio Gambino – hanno saccheggiato lo Stato, avvicinando la comunità a un baratro che rischia di inghiottirla». Le ventate sempre più forti di «antipolitica», aggiungeva Michele Salvati, sono state alimentate da «un ceto politico ipertrofico, parassitico, corrotto e in più arrogante, impunito e impunibile. Un ceto composto di gente senz’arte né parte che ha come professione esclusiva la politica, che si intrufola in ogni meandro dello Stato, degli enti e delle imprese pubbliche». […]
Era il clima del momento, verrebbe da osservare, ma toni e giudizi convergenti avevano largamente preceduto l’esplosione di Tangentopoli, in un percorso che attraversa per intero – come vedremo – gli anni ottanta. […] (pagg. 3-7)

Tra persistenze e discontinuità
Più ancora di altri periodi gli anni che vanno dalla crisi del fascismo al consolidarsi della Repubblica possono esser compresi solo se si intende l’identità nazionale come l’esito del confliggere di diverse identità, di diversi modi di «essere italiani». Esito di volta in volta mutevole, anche per il modificarsi degli scenari nazionali e internazionali. Sempre aperto a evoluzioni o a inversioni di tendenza. Con questa chiave di lettura è possibile comprendere, forse, l’intera nostra storia, ma ci si soffermi sulle diverse fasi di una transizione: il 25 luglio e l’8 settembre del 1943, il 25 aprile del 1945, il 2 giugno del 1946 e il 18 aprile del 1948. Queste date cruciali sintetizzano bene differenti realtà e umori, vivi e presenti insieme: l’incapacità di far cadere il fascismo «dal basso», per moto spontaneo o guidato dai nascenti partiti, ma al tempo stesso l’avvio di un processo reale; lo sfascio delle istituzioni nazionali e il crollo più generale di un mondo, in una guerra devastante che conoscerà anche una «pace brutale» e un feroce dopoguerra europeo; infine la scelta innovatrice e quasi traumatica a favore della Repubblica ma anche il progressivo prevalere di un profondo bisogno di normalità.
Il quadro che quelle date disegnano è però ancora parziale, non dà conto del modo molto diverso con cui la crisi del 1943-45 è vissuta dalle differenti parti del paese. Il dicembre del 1944, ad esempio, fotografa una distanza abissale fra di esse: al di sopra della Linea gotica la ferocia dell’occupazione nazista e delle truppe di Salò è infatti al culmine, in lacerante contrasto con l’anomalo «dopoguerra» del resto del paese (che pure ha vissuto fra il 1943 e il 1944 mesi da incubo). Mentre i giovani partigiani vivono un momento di estremo isolamento, i loro coetanei dell’Italia liberata protestano invece contro la chiamata alle armi che li avrebbe portati a combattere al loro fianco. In Sicilia l’agitazione si intreccia a un disagio sociale diffuso e innesca una protesta violentissima e armata: quasi quaranta morti, secondo il bilancio ufficiale. In quello stesso dicembre, mentre la guerra ancora insanguina l’Italia e l’Europa, esce a Roma il «giornale dell’Uomo Qualunque, stufo di tutti, il cui solo ardente desiderio è che nessuno gli rompa più le scatole». Ha un grande successo, e il movimento fondato da Guglielmo Giannini celebrerà i suoi maggiori trionfi nel Centro-sud di due anni dopo, nelle elezioni amministrative del novembre del 1946. Intanto in questo stesso Centro-sud vecchi notabilati e sopravvissute strutture hanno ripreso corpo e spazio all’ombra degli Alleati. […] (pagg. 31-32)

Le strategie della “non scelta”
[…] Molti e diversi furono dunque i percorsi, e molteplici anche le strategie della «non scelta» o della presa di distanza da un conflitto che aveva in sé il rischio quotidiano del disastro: della strage, della tortura, dell’incrudelirsi del vivere”. È una complessità che può essere qui solo evocata e che non può nascondere però un aspetto centrale: nella crisi più drammatica dell’Italia unita presero corpo opzioni, comportamenti, modi di «essere italiani» in contrasto aperto con altri, pur prevalenti. Prese corpo insomma nelle scelte di donne e uomini la polemica gobettiana contro la «società degli Apoti» propugnata da Giuseppe Prezzolini nel 1922: la società di «coloro che non la bevono», distanti sia dal fascismo trionfante che dall’antifascismo soccombente (e all’ombra del primo portati dunque a vivere, o a sopravvivere, a costo di quotidiani compromessi, metamorfosi, abiure, opportunismi). E venuta dalla Resistenza – nessun astioso o «moderno» critico può seriamente negarlo – una forza di orientamento reale, un sostegno all’etica pubblica capace di farsi sentire in più occasioni nella vicenda successiva. Molto meno, certo, di quel che sarebbe stato forse possibile. Più debole del dovuto – e del necessario – nell’influenzare la vita della Repubblica. Incapace di farsi per intero patrimonio nazionale. Perché? Per quali ragioni? […]
Persistenza del passato, difficoltà e quasi impossibilità di aprirsi al nuovo: si ha la sensazione – scriveva Guido De Ruggiero nel febbraio del 1945 – che oggi in Italia «piuttosto che una democrazia in divenire vi sia una dittatura in sfacelo». […]
In realtà la pace italiana fu anche una pace per bande, nel clima che la guerra fredda avrebbe presto determinato: anch’esso contribuì a frenare e a dissolvere quell’«esame di coscienza» che pure era parso necessario. Non trovarono anticorpi reali, allora, quelle forme di autoassoluzione degli italiani che si erano precocemente diffuse e di cui le pagine dell’«Uomo Qualunque» offrono illuminanti scampoli: “I «colpevoli» e i «punibili» sono gli uomini politici professionali che si gettarono nella bottega fascista per arraffare; e che si sarebbero gettati su qualunque altro partito o movimento ricco di probabilità di riuscita […]. Gli altri, cioè il paese intero, comprendente la totalità dei galantuomini già iscritti nel fascismo, sono i soli e supremi giudici dell’offesa che hanno sofferta.” […] (pagg. 36-44)

Il mutamento
[…] All’inizio degli anni sessanta Italo Calvino si soffermava su quella belle epoque inattesa e annotava: “ciò che è veramente cambiato in noi non sono le idee o i «valori», che non c’è ragione di cambiare […] è che prima vedevamo la vita come qualcosa di teso e guerreggiato e spinoso in cui dovevamo esercitare la nostra scelta del bene e del male […] e adesso invece la vediamo come uno spettacolo nelle grandi linee prevedibile e rassicurante, di cui vorremmo godere tutti i particolari, come qualcosa di comodo e ben fornito e stabile in cui sfogare la nostra fretta e ansia e rabbia”.
I nostri valori non sono cambiati, osservava dunque Calvino, è cambiato il nostro modo di viverli: stava dicendo, a ben vedere, che essi erano cambiati nella maniera più radicale e irreversibile. Mutava insieme ad essi la geografia del paese. Non solo la geografia industriale ma più ancora la geografia sociale e culturale, a partire dalle dimensioni colossali delle migrazioni interne: fra il 1955 e il 1970 gli spostamenti da un comune all’altro furono 25 milioni, e fra essi ben 10 milioni portarono in un’altra regione. Ci appare dunque chiara l’importanza di quegli anni nei processi di «nazionalizzazione», nella fabbrica dei nuovi italiani […] “. Ad essa non concorrevano solo gli spostamenti di popolazione, il mutare drastico delle attività e dei comparti produttivi, il modificarsi degli assetti territoriali: avevano un ruolo decisivo anche le grandi novità sul terreno dei consumi e delle comunicazioni di massa. Nella costruzione di identità il mercato e i media entravano come attori prepotenti, intervenendo su un terreno prima occupato solo, o prevalentemente, da soggetti pubblici o istituzionali: lo Stato, con i profondi limiti che lo segnavano in questo campo; le grandi subculture (cattolica e comunista, in primo luogo) e le articolate organizzazioni costruite su di esse; le differenti forme di appartenenza più specifica (ivi comprese quelle di carattere «locale», e così via). E un mutamento decisivo. Farà capire tutte le sue implicazioni molto più tardi ma sin d’ora il suo impatto è forte: i partiti, osservava ancora Bocca, ci appaiono obbligati a «costruire sulle sabbie mobili. Le cellule, le sezioni, i circoli, le associazioni, inseguono con affanno un popolo che sta cambiando sedi, gusti, abitudini, aspettative politiche».
A queste sabbie mobili occorre dunque volgere lo sguardo. […] (pagg. 75-77)

Una macchina dotata di un motore imballato
[…] I mutamenti però ci sono, e coinvolgono anche la politica. La mobilitazione di piazza del luglio 1960 contro il governo Tambroni e il congresso del Msi (che di quel governo era puntello decisivo) pone fine all’agonia del centrismo e apre la via all’incubazione del centrosinistra. Stimolanti fermenti attraversano la DC, l’area socialista e laica e lo stesso Partito comunista, attardato sin lì a deprecare l’arretratezza italiana. Essi si misurano in primo luogo con la necessità di «governare» quella tumultuosa trasformazione, di dare a essa un orientamento e una guida. I nodi di partenza erano ben sintetizzati da due protagonisti di quegli anni, Ugo La Malfa e Riccardo Lombardi. In un lucido testo del 1962 La Malfa metteva al centro il contrasto fra l’impetuoso sviluppo in corso e il permanere di «situazioni settoriali, regionali e sociali di arretratezza e ritardo economico». Squilibri tradizionali (in primo luogo fra Nord e Sud) si sono in parte modificati – osservava -, ma per certi versi anche aggravati, con il comparire di distorsioni e problemi nuovi: di qui la necessità di profonde riforme e di una consapevole «programmazione economica». La Malfa si soffermava anche sugli strumenti necessari per attuarla, e questo aspetto era poi al centro di un famoso intervento di Riccardo Lombardi: “Una macchina dotata di motore imballato, di freni capaci solo di inchiodarla e di un sistema di guida inesistente o arrugginito: è con tale macchina che il governo di centrosinistra deve percorrere una strada accidentata e inoltre provvedere durante la corsa a cambiare o rinnovare gli ingranaggi”. […] (pagg. 83-84)

L’emergenza dei privilegi
[…] Più in generale, la strage di piazza Fontana aprì la via a una «strategia della tensione» volta a indurre soluzioni autoritarie e svolte a destra, e non priva di conseguenze nell’opinione pubblica. E significativo, ad esempio, che le elezioni del 1971 e del 1972 vedano una forte avanzata del Msi: e proprio nel momento in cui la destra accentuava la sua spinta eversiva. Non è però questo l’elemento centrale con cui le forze politiche devono misurarsi. Esse devono fare i conti soprattutto con settori sociali molto diversi fra loro: settori che vivono comunque con disagio, talora con insofferenza, l’affermarsi del protagonismo operaio e le sue conquiste. Esplicitamente a destra si volgono molte esplosioni di protesta del Mezzogiorno, che hanno il loro culmine nella esasperata e prolungata violenza di Reggio Calabria. Analizzando le diverse «città malate» del Sud che «hanno dato voce con la rivolta alla loro rabbia», Giorgio Bocca scriveva: «non c’è stata premeditazione e neppure calcolo mafioso, c’è stata semplicemente la presa di coscienza definitiva, rabbiosa, del proprio incurabile decadimento». In molte rivolte meridionali -all’ombra dei localismi esasperati e dei rancori contro i «tradimenti della politica» – non è difficile cogliere infatti la sensazione quasi disperata di una distanza crescente dai poli dello sviluppo: pronta a rifluire, dopo le fiammate, sotto la coltre dell’assistenzialismo e in rinnovate ricerche di «protezione».
Ci si volga anche ai molteplici ceti intermedi che hanno variamente partecipato al «miracolo» degli anni sessanta: portatori spesso di una «laicizzazione» consumistica e alla ricerca di nuove forme di prestigio sociale coniugate al benessere. Alla rincorsa di nuovi privilegi e di nuove forme di «difesa dallo Stato». Essi si sentono messi in discussione solo in parte dalla protesta studentesca, di cui condividono l’insofferenza per l’arretratezza italiana. La vera minaccia appare loro l’ondata operaia: sono più disponibili che in passato a riconoscerne il buon diritto ma altrettanto decisi a ristabilire distanze e gerarchie pericolosamente accorciate. Di qui le molteplici spinte corporative che scandiscono la prima parte degli anni settanta: reazione ed effetto anch’esse di una «trasformazione non governata» che non conosce neppure ora un’inversione di tendenza”. La «democrazia dei partiti», dal canto suo, si rivelava incapace di intercettare e orientare le domande della società, di delineare nuovi orizzonti normativi: ricevevano così insperata linfa tensioni centrifughe e crescenti propensioni al rifiuto delle regole. […] (pag. 106)

“boss”, “sottoboss” e la questione morale
[…] Dal 1976 al 1979 – cioè negli anni in cui la sua astensione fu determinante – il privilegiamento degli equilibri fra i partiti portò inoltre il Pci a sottovalutare i contenuti programmatici e lo logorò alla ricerca di riconoscimenti solo formali. La contraddizione era resa ancor più stridente dall’uomo scelto dalla Dc per guidare la «nuova fase», e Nello Ajello lo sottolineava ironicamente: «Andreotti che chiude un trentennio e ne inaugura un altro! E un evento inaudito, da fantastoria: un vitello a sei zampe della cronaca politica […]. È come far sedere Luigi XVI dietro la scrivania di Robespierre».
Imprigionato nelle sue logiche il Pc avrebbe visto spuntarsi sempre più i propri «grimaldelli interpretativi», le proprie formule ideologiche, le proprie letture della società italiana. Nel 1981 l’esasperata denuncia di Berlinguer del «sistema dei partiti – federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”» – suonerà anche come una sofferta critica all’impostazione che lo aveva sorretto sin lì. Le inquietudini erano cresciute nella base stessa del Pci dopo le prime misure decise dal governo: l’assenza di un’inversione di tendenza seppelliva presto molte speranze. Alle proteste operaie si aggiungevano le spinte corporative nei settori più diversi, mentre esplodeva lo scandalo della Lockheed e Aldo Moro chiamava la Dc a «fare quadrato» in difesa dei suoi uomini e della sua storia. In pochi mesi, annotava allora Enzo Forcella, il Partito comunista sembra aver perduto il suo «magico alone di forza», non suscita più «né speranze né timori». A completare il quadro irrompeva di lì a poco il «movimento del ’77», che alimentava l’esplosione del terrorismo.[…]
Elementi come questi fanno comprendere però solo l’esito di una fase politica, non l’avvio di processi di dissoluzione. Stavano crollando in realtà alcuni architravi decisivi della cultura della sinistra e nulla veniva a sostituirli. Si pensi alla centralità dell’idea di sviluppo, alle sue origini ottocentesche e al suo rimodellarsi nella seconda metà del Novecento. […] (pagg. 119-120)

Le radici del presente: “faccio il danaro con il danaro”
[…] Le culture particolaristiche che il «decentramento selvaggio» alimentava entravano in rotta di collisione – continuava il Censis – con una opposta forma di «privatizzazione del pubblico»: e cioè con la politica, con le «troppo evidenti tendenze ad usare il pubblico come strumento di interesse privato». Gli egoismi sociali entravano dunque in contrasto crescente con l’«avidità dei pubblici poteri», e le conseguenze erano tratteggiate con lucidità: “una società che si sente non governata […] finisce per esprimere al proprio interno una specie di dislocazione selvaggia, particolaristica, furbastra e conflittuale dei poteri e delle decisioni […] in cui tutto c’è tranne moralità collettiva, coscienza civile, senso delle istituzioni, rispetto delle regole del gioco statuale”.
Due anni dopo l’accento continuava a battere sui «sempre più evidenti rinserramenti nel proprio “particolare” interesse, quasi nella noncuranza un po’ sprezzante verso chi tende a rappresentare interessi collettivi». In questo quadro è più facile incidere e conquistare consenso politico per chi, dall’interno delle istituzioni, «riesce a capire che occorre dar spazio ai comportamenti ed alla riappropriazione dei diritti» (particolaristici). Chi non riesce a capirlo, si aggiungeva, finisce per restare su un piano di impotenza, più o meno nobile. E nel 1981 si ribadiva:
“La forza dirompente dei comportamenti è strettamente legata all’affermarsi di una sorta di «individualismo protetto»: da un lato si vuole la più ampia possibilità e libertà di esplicazione dei comportamenti individuali e collettivi, dall’altro si chiede una totale protezione pubblica […]. Il massimo dell’individualismo con il massimo della protezione, quasi una società della bisaccia, della borsa a due tasche, tutt’e due comunque piene. Ma è accettabile una tale propensione senza rischiare di perdere il senso della responsabilità, nell’illusione che tutto sia comunque possibile?”
Con queste chiavi di lettura possiamo accostarci meglio ad alcuni versanti decisivi del decennio che si apre. Nel 1980 l’evasione dell’Iva sfiora il 50% (e il 70% negli esercizi pubblici), e l’introduzione delle ricevute fiscali provoca resistenze e proteste crescenti. Dal Nord al Sud vengono scoperte decine di aziende che fabbricano fatture false, e centinaia che le utilizzano, mentre a Vigevano vanno in galera 29 esattori dell’Iva su 30. «Se Mastronardi non fosse scivolato nel Ticino due anni fa – scrive Maurizio Chierici, suggerendo una simbolica continuità con gli anni del “miracolo” – le sue storie avrebbero potuto arricchirsi di un altro eroe, l’esattore di Vigevano». Molti personaggi di romanzi e film degli anni sessanta (da Una vita difficile a // sorpasso di Dino Risi, per fare solo due esempi) ci aiutano in realtà a illuminare anche gli anni ottanta. A completare il quadro andrebbe aggiunto il protagonista di 9 settimane e 1/2 (1986), che si presenta con una battuta fulminante: «Faccio denaro con il denaro». […] (pagg.139-141)

Guido Crainz

Indice del volume:
Introduzione – 1. Le inquietudini di una crisi – 2. Continuità ingannevoli… – 3. …e continuità intriganti – 4. Fra crollo del fascismo e nascita della Repubblica – 5. Gli anni della Ricostruzione e della «guerra fredda» – 6. Dalla «grande trasformazione» ai «funerali della Repubblica» – 7. I lunghi anni ottanta – 8. L’approdo – 9. Postfazione. Il paese reale.

Guido Crainz
Autobiografia di una repubblica
Le radici dell’Italia attuale.

Donzelli editore – Milano 2009

G.Crainz, Autobiografia di una repubblicaultima modifica: 2010-06-18T17:39:17+02:00da mangano1
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