Per una storia dell’esperienza “OPERAISTA” alla Fiat

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APPUNTI DELLA CHIACCHIERATA CON PIERLUIGI GASPAROTTO
31 MAGGIO 2000

* Il testo che segue è composto di appunti presi in una chiacchierata con Pierluigi Gasparotto: precisiamo, dunque, che non si tratta di una sbobinatura letterale. Il nostro interlocutore non ha rivisto questi appunti, è quindi possibile che vi siano inesattezze o imprecisioni non ad egli addebitabili.

A Milano c’è stato un continuo processo di fratturizzazione, dovuto ad una grossa ideologizzazione di tutte le varie componenti. Negli anni c’è stata una ripetizione di questa esperienza frantumata, fino ad arrivare ad una vera e propria lottizzazione politica. Non c’è stata nessuna esperienza che abbia guardato al di là dell’immediato. Qui l’arrivo di Negri e Scalzone è stato inconcludente. Gli anni di piombo preparati dall’Autonomia sono stati una cesura totale. Per quanto riguarda l’esperienza di Classe Operaia, c’era un collegamento soprattutto con i gruppi socialisti; anche per noi che venivamo dalla FGCI il riferimento era soprattutto il Partito Socialista. Dunque, a Milano gli ambienti più vivi hanno avuto modo di conoscersi attraverso i socialisti, si pensi al club Turati o alla biblioteca di Lelio Basso. Goffredo Fofi, ad esempio, lo conoscemmo per caso mentre rientrava a Torino dalla Sicilia, dove aveva lavorato con Danilo Dolci. A Milano c’era la casa di Daghini, che era un importante punto di incontro e di riferimento. La FGCI era estremamente chiusa, il loro era un punto di vista terzomondista; invece i socialisti davano l’opportunità di ritrovarsi, si pensi anche a Panzieri. Ciò è avvenuto per un lungo periodo, diciamo dal boom economico fino alla recessione. Anche i giovani che si muovevano nella FGCI, come Piero Bolchini, poterono fare qualcosa quando entrarono in contatto con Panzieri. Del resto, ancora oggi a Milano non c’è nessuno spazio per la ricerca, c’è una situazione molto pesante dal punto di vista culturale: personaggi come Salvati o Ichino sono visti come dei mostri. A Milano c’è quindi questa tradizione, che è stata messa in discussione tra l’inizio degli anni ’60 e i primi anni ’80, ma con la chiusura in tante piccole chiese e orticelli; anche la tensione giovanile ad opporsi si è chiusa in un microcosmo. Né Scalzone né Negri hanno saputo mettere in discussione tutto ciò, ma forse non era nemmeno nei loro intenti. In questa situazione, sia Quaderni Rossi che Classe Operaia aprirono delle cose, ma morirono in fretta. Alquati, ad esempio, ha mantenuto dei rapporti con determinati ambiti che nessun milanese è riuscito a mantenere; qui c’era invece una grossa spocchia, una situazione di tutti contro tutti. Franco Fortini faceva i Quaderni Piacentini, ma erano sempre appunto piacentini, tutto era sotto la sua paternità.

Qual è la sua analisi critica delle esperienze dei Quaderni Rossi e di Classe Operaia?

Quelle esperienze andrebbero contestualizzate. Soprattutto per quanto riguarda Quaderni Rossi, l’importanza è stata quella di fare un mix tra posizioni teoriche e di ricerca e di verificarle sul campo. Fino a che ci fu questo la cosa resse; quando invece queste cose si irrigidirono (ed avvenne quasi subito) la morte fu immediata. Le cose divennero molto compartimentate, Classe Operaia nacque come reazione ma si esaurì in fretta: nessuno dei presupposti che la formularono ebbe una realizzazione almeno parziale. C’erano degli spunti importanti (ad esempio Husserl, Sartre, l’esistenzialismo…), insieme ad una rilettura di Marx, la sociologia americana e francese, la ricerca sul campo. Questa situazione portò a dei risultati: l’analisi dei comportamenti, il collegarsi con tutti (ad esempio Montaldi o gente che era ai margini del Movimento Operaio). Quando intervenne una chiusura, per marcare la ricerca su Marx o sul partito, questa posizione di apertura venne a cadere. Ci fu un difetto di schematismo, una posizione troppo ideologica: ad esempio, quando apparve Quaderni Rossi, Paci venne a discutere con Panzieri, ma lasciammo cadere la cosa perché noi eravamo i marxisti. Dunque, ci furono dei momenti di chiusura, che erano il contrario di quello che aveva portato alla nostra nascita. Alla ricerca che c’era (si pensi anche a Bosio, Della Mea, i Dischi del Sole…) noi avevamo portato la novità di farla sui comportamenti operai, andandosi anche a leggere le ricerche ad esempio dei sociologi francesi, come Touraine. Il chiudersi portò alle divisioni e a rendere le nostre posizioni sterili. A Milano questo approccio di apertura era rifiutato dal 99% delle persone, che volevano una professione di fede ideologica.

Quelli che portammo questo metodo di confronto ampio (con Mottet, Touraine, Pizzorno, Montaldi…) fummo Romano ed io, grazie all’esperienza con il gruppo dei filosofi. A Torino la ricerca la portammo Romano ed io, Panzieri queste cose le prese. Classe Operaia nacque al punto più basso di iniziativa, ma non seppe riaprirla. In Classe Operaia l’inchiesta è assente; in Quaderni Rossi ce la portammo Romano ed io. Importante fu il contatto con gli allievi di Paci, mi ricordo la lettura collettiva del primo libro de “Il capitale” nell’estate del ’60. Si leggeva tutto, c’era un’analisi del movimento operaio, del resto nessuno di noi era un comunista ortodosso. Panzieri diede un grosso contributo, senza di lui non si sarebbe fatto nulla. Quaderni Rossi ha dato una scossa, che però non va sopravvalutata: rileggendoli oggi si vede una lettura di Marx molto canonica, ma che allora era insolita. Bisogna dunque essere molto critici, contestualizzare quelle esperienze. Ciò vale anche per Classe Operaia: c’erano posizioni molto rigide, corporative, l’assolutizzazione di alcuni dati. Quelle cose potevano andare bene come spunti di partenza.
Noi ci conoscemmo nel ’59 a Milano nelle comuni, in cui c’erano soprattutto studenti cremonesi, tra i quali Alquati. C’erano gli allievi di Paci, Davide Guido Neri, il figlio di Lelio Basso…; poi gravitavano lì molte persone, come ad esempio il fratello di Occhetto, ma anche Rieser, Mottura, Fofi. Io, Romano e Rovelli cominciammo a fare l’inchiesta alla Snia Viscosa di Varedo. C’erano dei rapporti con la Camera del Lavoro di Milano, soprattutto con l’esperienza socialista. L’inchiesta finì quando Piero Rovelli si spostò nella FGCI. Io e Romano ci spostammo dunque a Torino, dove cominciammo a fare l’inchiesta alla Fiat, con Soave, Della Rocca. Pugno e Garavini si resero disponibili a farci vedere i documenti che avevano, il che tuttavia in chiave di un’inchiesta non storica non aveva molta importanza. Tra sociologi e politici c’erano delle differenze, ma fino a lì andava tutto bene; le cose si esasperarono nel ’62, dopo la prima uscita di Quaderni Rossi, e ci fu una chiusura di tipo politico.

Quali furono la composizione, il dibattito e le varie posizioni all’interno di Classe Operaia?

E’ una cosa su cui ci devo pensare. Classe Operaia, ma anche Quaderni Rossi, avevano una visuale politicamente molto ristretta. Sul terreno politico non ci fu nessuna apertura paragonabile a quella che c’era stata nell’analisi economica e dei comportamenti operai. L’iniziativa politica non c’era. Bisogna essere molto critici, se no si fa come Merli, Salvati o Rieser, che bisticciano su “Quaderni Rossi è mio” “no, è mio”, esclusivamente rivendicando l’esperienza, rivalutandola acriticamente e in modo trionfale, disputandosi solo l’eredità. Questo andrebbe fatto anche sul piano politico: il discorso lì fu molto mancante. La novità era il centro-sinistra. Il discorso politico non ci fu né in Quaderni Rossi né in Classe Operaia: fu fatto solo in termini canonici, tipici, il rapporto tra classe e partito. Anche il concetto di autonomia (che è morandiano) nacque in quei termini lì. Da questo punto di vista i movimenti giovanili (sia pure ideologizzati) furono un arricchimento di un discorso che né i Quaderni Rossi né Classe Operaia avevano condotto.
Anche l’esperienza di Classe Operaia si esaurì in fretta, con la sconfitta di Ingrao al congresso del ’67 si può dire che fu liquidata. A Milano un ruolo fondamentale lo ebbero i romani (Tronti, Di Leo, ma soprattutto Asor Rosa). Asor Rosa era quello che spingeva per uscire, mentre Tronti rappresentava il discorso teorico, ortodosso, marxista; ma il più libero era Asor Rosa, e poi c’era Aris Accornero. Classe Operaia nacque su impulso dei romani, e anche il gruppo di Milano si formò quando venne qui Mauro Gobbini, che ebbe una presenza continua, dal tenere aperta la sede fino anche all’intervento di fabbrica. L’intervento di fabbrica ci fu, anche se in modo limitato: il problema non era nel dare via un volantino, solo che gli esiti furono limitati nel legare insieme giovani, operai, militanti di base del PCI eccetera. Mancò completamente la ricerca e il rapporto (che fu invece molto fertile per i Quaderni Rossi) con il gruppo dei filosofi. Anche la rilettura di Marx divenne molto ripetitiva: l’aveva fatta Tronti una volta per tutte e basta. Si perse lo sforzo euristico che invece prima c’era. Mentre Panzieri riusciva a tenere insieme collegamenti con ambienti intellettuali (Laura Balbo, Ceccarelli…) in Classe Operaia questa capacità venne molto a decadere.

Qual è la sua analisi dell’esperienza della conricerca?

I Quaderni Rossi fecero l’analisi delle condizioni di fabbrica. Ci fu l’inchiesta alla Lancia, alla Fiat, a Mirafiori, alle Ferriere, all’Olivetti, nelle piccole e medie imprese… In un primo tempo ci furono dei tentativi anche a Milano (all’Alfa Romeo, alla Pirelli, alla Innocenti, alla Farmitalia…). Anche quando non c’erano collegamenti diretti, si analizzava la fabbrica. Ci fu poi l’inchiesta sui braccianti della Di Leo. A Genova c’era il gruppo di Faina, che poi è finito tra i situazionisti. I sociologi tradizionali criticavano queste inchieste perché mancavano dei dati. Il primo contatto con Panzieri e i Quaderni Rossi avvenne su questa base. Tutto ciò era criticabile da un punto di vista scientifico e anche politico, ma era un fattore di attivizzazione notevole, per vecchi quadri e giovani operai, era un incredibile fattore di legame. C’era anche una simpatia degli operai socialisti. Importante era il fattore creativo alla base della conricerca più che la conricerca stessa. Era una fonte di movimento continuo; anche da parte di giovani, architetti, sociologi eccetera c’era un interesse costante. Fino a quel momento c’erano infatti o inchieste tradizionali (come quelle di Pizzorno), o ristrette (quelle di Ledda, o sulla busta paga); noi le si faceva in modo discontinuo, caotico, con zone d’ombra, ma erano un importante base di novità. Al di là di quello che portavamo Romano, Soave ed io, Panzieri andò a riscoprire il questionario operaio di Marx, che era scientificamente altrettanto discutibile. Queste ricerche non le esaurì tanto l’incongruenza con l’ortodossia, non la ripetitività, ma il fatto che non c’era una continuità tra i motivi dell’inchiesta stessa: si andava dall’analisi della soggettività a quella sulle condizioni di lavoro. C’era comunque una ricchezza di dati che non aveva nemmeno il partito o il sindacato. Mancò l’inserzione innovativa di nuovi elementi, per andare ad analizzare cose diverse. Anche i discorsi sulla soggettività o sul ribellismo operaio andavano sostanziati meglio. Ciò che esaurì la cosa fu l’esaurimento di Panzieri. Si potevano buttare dentro elementi nuovi. I momenti più importanti furono quelli scarsamente definibili. Dalla FGCI, per esempio, me ne andai perché non c’era nessuna apertura, preferivo frequentare la biblioteca di Basso. Dunque, mancò un intreccio di motivi di ricerca che venissero da altri spunti e riformulassero l’inchiesta; in Classe Operaia poi ci furono dieci volte di meno, e a quel punto si litigava tra politici e sociologi. Noi arrivammo lì con “Lenin in Inghilterra”, “Il partito in fabbrica”, che sono cose povere, misere, che non erano ipotesi né di ricerca né organizzative. Non si riuscirono a formulare ipotesi di ricerca politica. Quando Ingrao fu sconfitto, Classe Operaia fu finita. Quaderni Rossi continuò a pubblicare qualcosa, ma le ultime cose sono misere.
I movimenti giovanili vennero fuori nei primi anni ’60; poi, dopo l’uccisione di Ardizzone nel ’62, ci fu un silenzio fino al ’65. Rispetto a questo l’atteggiamento di Panzieri e dei Quaderni Rossi fu di chiusura. In Classe Operaia ci fu un ulteriore arretramento; d’altra parte ci fu una ripetizione di un elemento dei Quaderni Rossi, il privilegiare i rapporti con i sindacalisti, che in questo caso erano portati sul versante PCI anziché su quello PSI. Bisogna dunque guardare alle esperienze criticamente e non semplicemente rivendicarle acriticamente. Il buco nero del discorso politico fu una delle cose fondamentali: tale buco nero andava dalla teoria alla pratica. Dopo aver sciolto Classe Operaia si decise di mettere fine all’esperienza: fu più che altro la constatazione di un muro che si era venuto a creare, la dichiarazione di esaurimento dell’iniziativa, con il ritorno di ognuno alle proprie attività. Ci sciogliemmo in un momento in cui a livello giovanile e sindacale si andava ad una grossa ripresa; ai Quaderni Rossi non mi risulta che andò meglio. Tutto questo ha delle origini teoriche: abbiamo infatti abbandonato ogni tipo di ricerca, di lettura, lasciandoci andare alla “classe operaia che anticipa il capitale”. Tutto ciò nel buco nero di Marx sullo stato. C’era una discrasia tra esaltazione della spontaneità, autonomia operaia e il disprezzo per ogni esperienza minoritaria: Classe Operaia si riteneva interprete della maturità operaia, tutto il resto era negato.

Quali sono state le ricchezze e i limiti del discorso sulla soggettività portato avanti da queste esperienze?

Il relativismo di Panzieri, vedere insieme i movimenti di classe e di capitale, è stato più corretto che il contrario. Il recupero di certe categorie (ad esempio la contestazione e l’autonomia) venne fatta da Panzieri partendo dalla lettura di Marx; il “Frammento sulle macchine” dal punto di vista teorico è da socialista della Seconda Internazionale. La contestazione è la risposta immediata dell’operaio; Morandi, il leader politico di Panzieri, parlò di autonomia per poter dire che nel suo rapporto con la classe aveva gli stessi diritti del PCI. Per quanto riguarda la soggettività di classe, secondo me bisogna considerare che una formazione di classe, sia essa la borghesia o il proletariato, non si spiega in se stessa e non riesce ad avere un respiro internazionale al di fuori del proprio contesto culturale; Gramsci esprime questo con il discorso sul momento economico corporativo. Non è che l’appartenenza ad una formazione sociale sia al di fuori di tale contesto. Dunque, il concetto di soggettività va mediato. La similarità di condizione sociale è un elemento di base fondamentale, ma non è l’unico: fondare solo su questo una continuità di percorso e autonomia non è corretto. Tale discorso può essere molto diverso nei tempi brevi, ma nella continuità va mediato con tutta una serie di altri dati che non appartengono alla formazione sociale. La fortuna del leninismo sta dentro questo cuneo.

Quali erano allora le letture di Lenin? Che analisi fa di tali letture?

Noi Lenin l’abbiamo letto poco. Abbiamo letto quella fase molto precoce (“Lo sviluppo del capitalismo in Russia”): in tale testo Lenin faceva un’analisi strumentale, individuava i canali attraverso cui la propaganda socialdemocratica poteva infilarsi. Noi allora privilegiavamo altre figure (ad esempio Trotzkj o la Luxemburg) per una critica a Stalin, e in questo il nostro maestro era Emilio Soave, storico e trotzkista insigne. Noi eravamo alla caccia di quello che era meno conosciuto e distinto.

Qual è stato il suo percorso successivamente allo scioglimento di Classe Operaia?

Ho lavorato con il sindacato. Io, Piana, Gobbini siamo rimasti isolati; Gobbini però era legato a Negri. Negri questi intellettuali di Milano se li è comprati assicurando loro una borsa di studio; però in realtà non ci fu un dibattito politico. L’unico con cui mi rividi fu Giovanni Piana: eravamo molto contrari all’ipotesi di Autonomia. Non si riuscì più a costruire un rapporto positivo con gli husserliani. Inoltre lavoravamo tutti, le disponibilità non erano più quelle di quando eravamo studenti. Già negli ultimi anni di Classe Operaia ho avuto questa tendenza a non buttare via il rapporto con le organizzazioni tradizionali; ho lavorato con la Camera del Lavoro di Milano. Qui a Milano il gruppo di Classe Operaia si era fatto molto il vuoto intorno, anche rispetto ad amici con i quali si era lavorato fino ai tempi di Quaderni Rossi e che però vedevano le posizioni di Classe Operaia troppo secche e fastidiose.

Qual è, dall’interno, il suo punto di vista e la sua analisi sulla comunicazione e sul funzionamento delle aziende della comunicazione?

Io lavoro alla Rai dal ’68. E’ difficile parlare dell’azienda, perché cambia ogni due anni. L’ultima è la peggiore, la più servile e scadente. Ci sono tre telegiornali, due ore di comunicazione, tutti su discorsi di palazzo. Di comunicazione non me ne intendo, non la conosco teoricamente. Ho cercato di fare dei programmi, facendo lavorare delle persone che mi sembravano valide. Ho sempre avuto un rapporto conflittuale con la comunicazione e con l’azienda in cui lavoro. La comunicazione in Italia è sempre un aspetto del potere politico: non è mai vista come comunicazione, è sempre un’appendice di quel complesso di lobby che caratterizza la vita politica. La Rai poi sta trasferendo tutto sul satellite, per cui i programmi in chiaro sono sempre meno importanti: ormai è solo più un marchio che permette di far pagare il canone.

Per una storia dell’esperienza “OPERAISTA” alla Fiatultima modifica: 2010-08-28T15:26:53+02:00da mangano1
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