Carlo Ruta, Mafia ante litteram?

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è uscito a marzo il libro L’unità d’Italia. La Sicilia. La scoperta della mafia, per la casa editrice Edi.bi.si. di Messina. Accoglie una serie di rapporti, testimonianze e atti parlamentari dell’Ottocento, perlopiù scarsamente conosciuti, introdotti e curati da Carlo Ruta. Con piacere vi inoltro in allegato alcuni brani del curatore, invitandovi a pubblicarli sui vostri siti e giornali. 
Un caro saluto e a presto
Giovanna Corradini

 

Da una raccolta di documenti di recente pubblicazione, alcuni spunti sul fenomeno criminale siciliano e sulla discussione politica, giudiziaria e sociologica che andò dipanandosi nel paese

di Carlo Ruta

Mafia ante litteram?

Un rapporto del procuratore del re Pietro Calà Ulloa indirizzato nel 1838 al ministro della Giustizia della corte di Napoli, Nicola Parisio, e rimasto inedito fino al 1945, dà riscontro di fatti che possono evocare in qualche modo il fenomeno mafioso. La situazione rappresentata dal magistrato napoletano, che sarebbe divenuto un illustre giurista del regno borbonico, va tuttavia contestualizzata. Sebbene esistesse una tradizione lunga di rapporti, soprattutto vicereali, sulle problematicità dell’ordine pubblico in Sicilia, non esisteva ancora una questione mafiosa, o similare. Ulloa non intendeva dare conto di fatti e di modi d’essere tipicamente siciliani, rimarcare quindi, come sarebbe avvenuto alcuni decenni dopo, delle differenze di livello strutturale o etnico. Sette criminali di quel tipo esistevano ovunque nel continente. E i documenti ufficiali che ne davano conto, giudiziari, governativi e di altro genere, erano la fonte cui attingeva la fiorente letteratura dell’epoca sui misteri delle città, che poi si sarebbe espressa attraverso il feuilleton. Nei primi anni quaranta uscivano Les Mystères de Paris di Eugène Sue, e nel 1857 I misteri di Milano di Alessandro Sauli, che narrava di sette analoghe a quelle siciliane e napoletane, come quella denominata «compagnia del lampione». In ogni caso il rapporto di Ulloa attesta, ed è già tanto, che la Sicilia era sede in quei tempi di una seria emergenza criminale, verosimilmente tra le maggiori del regno borbonico: emergenza che 23 anni dopo sarebbe stata ereditata, con aggravanti significative, dallo Stato sabaudo, per trovare infine rappresentazione in numerose inchieste sulla mafia, di cui il rapporto del procuratore napoletano, al pari del fenomeno da lui esposto, costituiva comunque un antefatto significativo.

Il decreto di amnistia di Garibaldi in Sicilia

Il 17 ottobre 1860, per i reati commessi fino al 27 maggio, Antonio Mordini, prodittatore di Garibaldi in Sicilia, emanò il decreto di amnistia, di cui beneficiarono anche comuni malfattori, molti dei quali, riuniti in bande, erano stati integrati tra i combattenti, da Calatafimi a Milazzo, agli ordini di aristocratici come Stefano Triolo di Sant’Anna e il cavaliere Giuseppe Coppola. Il termine di validità del provvedimento tracciava un confine preciso. Il 27 maggio, dopo il combattimento al ponte dell’Ammiraglio, era avvenuto l’ingresso dei volontari garibaldini a Palermo. L’amnistia veniva negata quindi a coloro i quali profittando delle situazioni belliche in tempi successivi si erano resi protagonisti di vendette private. La questione era stata affrontata già in quei frangenti, con perentorietà. Il 19 maggio, quattro giorni dopo Calatafimi, Garibaldi aveva decretato che i reati avvenuti durante il conflitto, di qualsiasi natura, commessi da soldati o civili, sarebbero stati giudicati da un Consiglio di Guerra. E ne erano scaturiti atti conseguenti. Da tale organo era stato giudicato tra gli altri un noto malfattore palermitano, Santo Mele, che in quei contesti si era reso autore di delitti di ogni genere. La vicenda aveva avuto un iter sintomatico. Il bandito era stato arrestato e affidato al reparto guidato da Sant’Anna. Ma Mele, con il favore forse degli stessi carcerieri, era riuscito a evadere dalla tenda in cui era ristretto. Il 28 maggio, nel pieno della battaglia di Palermo, Garibaldi aveva emanato un ulteriore decreto che stabiliva la condanna a morte mediante fucilazione per i reati di furto, omicidio, devastazione e saccheggio. Il documento è compreso nella Raccolta degli atti dittatoriali e prodittatoriali in Sicilia (1860), data alle stampe dalla tipografia di Francesco Lao di Palermo nel 1861.

Nicolò Turrisi Colonna e la mafia

Appartenente a una famiglia aristocratica di Palermo, Nicolò Turrisi Colonna (1817-1889) coltivò sin da giovane idee indipendentiste. Nel 1848 fu deputato al parlamento siciliano e membro del governo provvisorio con l’incarico di ministro dell’Istruzione e dei Lavori Pubblici. Nel 1849 fu a capo del Comitato di guerra. Nel 1860, partecipe alla rivoluzione garibaldina, contribuì a redigere, con Michele Amari e altri, la relazione per l’adesione della Sicilia al regno sabaudo. Nel 1861 fu eletto alla Camera dei Deputati. Nel 1865 venne chiamato al Senato. Fu infine sindaco di Palermo dal 12 dicembre 1880 al 26 gennaio 1882 e dal 3 novembre 1886 al 31 ottobre 1887. In vita ebbe la considerazione pressoché unanime di persona integerrima. A partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento ne furono segnalate tuttavia aspetti in ombra, che rendono, ancora oggi, l’intera sua vicenda controversa. Pur sostenitore fino in fondo della svolta unitaria del paese, nel 1875 si pose a capo di una protesta contro il governo della Destra, guidato da Minghetti, per i metodi in cui veniva condotta la lotta alla criminalità. E un analogo atteggiamento mantenne negli anni della Sinistra, dopo le misure straordinarie varate, sotto il governo Depretis, dal ministro degli Interni Giovanni Nicotera. Tale protesta recava ragioni forti, perché, effettivamente, i governi nazionali di entrambi gli orientamenti usarono l’argomento della mafia per giustificare misure repressive a largo raggio. Ma l’atteggiamento del Turrisi-Colonna recava probabilmente altre motivazioni. Alla fine del secolo il questore di Palermo Ermanno Sangiorgi ne avrebbe sottolineato, in particolare, le relazioni con Antonino Giammona, potente boss mafioso del circondario palermitano. Turrisi-Colonna fu autore di un testo, intitolato Cenni sullo stato attuale della sicurezza pubblica in Sicilia, che costituisce la prima analisi organica dei fenomeni criminali in Sicilia, quando ancora non era entrato nell’uso comune il termine mafia. Si tratta quindi di un documento importante, soprattutto per la definizione di alcuni dettagli, che verosimilmente l’aristocratico palermitano ebbe modo di rilevare direttamente, da fonti autentiche, in virtù dei rapporti che pare intrattenesse, appunto, con esponenti del crimine organizzato. Lo scritto venne pubblicato prima sul quotidiano «Il Precursore», poi in opuscolo, nel 1864, presso la stamperia Lorsnaider di Palermo.

I primi rapporti dei prefetti sulla mafia

Nei primi anni settanta, la mafia costituiva già nella vita politica del paese una questione tra le più dibattute, e per i governi della Destra una emergenza cui prestare la massima attenzione, da contrastare in ogni caso con misure straordinarie. Nella rilevazione ufficiale del 1873 sugli omicidi nel paese la Sicilia risultava al primo, con uno ogni 3.194 abitanti, mentre in Lombardia se ne registrava uno ogni 44.674. Al primo posto l’isola risultava altresì per le rapine, con una ogni 3.098 abitanti, mentre il Veneto ne registrava una ogni 32.941. Si sarebbe dovuto tener conto della situazione conflittuale che vigeva in Sicilia come nelle aree meridionali della penisola. Il dato, corroborato da altre certificazioni e dalle cronache, era comunque sufficiente, per il governo Minghetti e il ceto dirigente della Destra, per avviare un nuovo percorso conoscitivo sui fenomeni criminali nell’isola e, contestualmente, per giustificare ulteriori giri di vite nei riguardi delle province che più ne risultavano interessate. E in tale quadro si collocano i rapporti che nel 1874 vennero stesi dai prefetti della Sicilia centro-occidentale su richiesta del ministro dell’Interno Girolamo Cantelli. Tali rapporti, del tutto convergenti, convalidavano l’idea di una Sicilia differente, distante dalla vita civile, colpita da un diffuso pervertimento morale. La collocazione dei documenti è in Atti parlamentari. Progetti di legge e relazioni. Sessione 1874-75.

I giudizi dei magistrati sulla mafia

In quello stesso periodo il ministro della Giustizia dell’ultimo governo della Destra si rivolgeva ai magistrati della Sicilia per avere informazioni e conoscere la loro opinione sulla locale situazione criminale. E dai rapporti che ne scaturirono veniva tratto un compendio, con la sottolineatura delle situazioni critiche, riscontrate soprattutto nelle province centro-occidentali dell’isola. Dalle note delle corti di giustizia venivano riportate le opinioni su come fronteggiare sul terreno il fenomeno criminale. Secondo i magistrati le leggi vigenti non bastavano. Portando a esempio la legge Pica del 1863, essi suggerivano quindi una nuova stretta repressiva, con poteri speciali ai comandi militari, pene maggiori per i complici e i manutengoli, il rafforzamento del domicilio coatto, restrizioni sul possesso di armi. Venivano suggerite inoltre modifiche sostanziali di alcune procedure giudiziarie. Si era a uno snodo importante. Il 5 dicembre 1874 il ministro dell’Interno Girolamo Cantelli proponeva una serie di provvedimenti di pubblica sicurezza, che venivano trasmessi a una commissione per l’esame. Il 25 maggio dell’anno successivo Agostino Depretis, capo della Sinistra, presentava un disegno di legge alternativo, che proponeva tra l’altro l’istituzione di una commissione d’inchiesta sulla situazione della criminalità in Sicilia. Il 16 giugno, dopo un lungo e acceso dibattito, la legge proposta del ministro Cantelli, in un solo articolo, con cui si rafforzavano i poteri dei prefetti e si limitavano alcuni diritti, veniva tuttavia approvata dalla Camera, e dopo l’approvazione al Senato, il 29 giugno, entrava in vigore. Si approvava altresì l’istituzione di una commissione d’inchiesta.

Sullo scioglimento dei militi a cavallo

In quel giugno 1875 il clima alla Camera divenne convulso, perché la proposta di Depretis non aveva avuto esito e l’approvazione della legge proposta dal ministro dell’Interno era ormai nell’ordine delle cose. L’opposizione fece ricorso pure all’autorità morale di Giuseppe Garibaldi, il quale fece pervenire alla Camera il seguente messaggio, letto da Benedetto Cairoli: «Assente per infermità, presente con il cuore, esprimo il mio voto sulla legge minacciata contro tutta l’Italia, specialmente contro l’eroica Sicilia e le altre patriottiche sventurate province del Mezzogiorno. Esse reclamano provvedimenti, rimedi, non disposizioni eccezionali. Cessi l’eccezionale, incominci l’impero della giustizia. Deploro dunque e respingo il funesto progetto di legge; esorto il Ministero a non insistere, lo esorto in nome della Patria, alla quale è sacra la mia vita». Oltre a disapprovare con forza i provvedimenti, che la Sinistra considerava lesivi delle popolazioni siciliane, il deputato siciliano Vincenzo Cordova denunciò il corpo dei militi a cavallo, di cui chiese che venisse deliberato lo scioglimento, descrivendoli come veri e propri malfattori, pagati per non rubare e per soggiogare altri criminali. Lo stesso giorno e nel successivo l’ex procuratore del re Diego Tajani, anche lui deputato della Sinistra, sollevava il tema delle collusioni nell’isola tra sette criminali e istituzioni. I testi, in Atti Parlamentari. Camera dei Deputati. Sessione 1874-75. Discussioni. Tornate 11-12 giugno 1875.

L’inchiesta di Franchetti

Esponente del conservatorismo illuminato, Leopoldo Franchetti nel 1875 aveva pubblicato uno studio Sulle condizioni economiche ed amministrative delle province napoletane. Con Sidney Sonnino fu autore dell’inchiesta sulle condizioni della Sicilia che, dopo un lungo soggiorno nell’isola nel 1876, venne pubblicata nell’anno successivo, in opposizione a quella ufficiale del Parlamento, firmata da Romualdo Bonfadini. Ne uscì per la prima volta un’idea conclusa della mafia. Franchetti rappresentò la mafia come industria del delitto, espressione di un ceto di facinorosi, restio a riconoscere il monopolio della forza esercitato dallo Stato. Ne spiegò le compenetrazioni con i poteri territoriali, facendo riferimento soprattutto alla vicenda Albanese-Medici. Con una analisi accurata del latifondo e delle sue consuetudini, argomentò altresì che la modernizzazione della Sicilia si era dovuta fermare davanti alle protervie del ceto dominante: l’unico a far arrivare la sua voce fuori dall’isola arrogandosi di rappresentarla tutta. In Italia e all’estero l’opera riscontrò un forte credito, fino a divenire un riferimento d’obbligo per gli studiosi interessati alle condizioni del Sud. Dal 1878 al 1882 l’aristocratico fiorentino diresse con Sonnino la «Rassegna settimanale», con lo scopo di diffondere, in Italia e oltre, i temi della questione meridionale. La Sicilia nel 1876, per Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino venne pubblicata in due volumi nel 1877 dalla tipografia Barbera di Firenze.

Fonte: L’unità d’Italia. La Sicilia. La scoperta della mafia. Rapporti e testimonianze a cura di Carlo Ruta, pp. 192, Edizioni Edi.bi.si., Messina (tel. 090.359444).

Carlo Ruta, Mafia ante litteram?ultima modifica: 2011-04-01T13:03:28+02:00da mangano1
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