Maurilio Rino Riva,Il tassista sociologo

 

Lo incontro a una mostra di piccoli editori, sto entrando e lui ne sta uscendo. Ci incrociamo, lui non mi guarda io invece lo fisso subito e impiego un attimo a identificarlo. È già alle mie spalle e, per chiamarlo, mi debbo voltare: “Enzo…”, lui si gira, si ferma, mi osserva, mi riconosce. Torniamo sui nostri passi, venendoci l’un l’altro incontro.

Saranno forse trent’anni, di più probabilmente, che non ci vedevamo.

Entrambi abbiamo militato in Avanguardia Operaia, entrambi lavoravamo in due grandi fabbriche (lui all’Innocenti, io all’Italtel), entrambi avevamo parziali compiti di direzione nell’organizzazione, entrambi abbiamo seguito il medesimo percorso politico ma non voglio annoiarvi e mi fermo qui.

Mi soffermerò solo su un episodio che ci ha accomunati, nostro malgrado, durante la campagna per le elezioni politiche nazionali del 1976. Una circostanza solo a me nota che a lui ho raccontato pochi mesi fa.

Ho appreso gli essenziali rudimenti del comizio massacrandomi in centinaia di arringhe volanti all’uscita delle mense aziendali, davanti alle fabbrichette della zona in cui lavoravo.
Non avevo né la patente né l’auto, per cui c’era la necessità che un compagno automunito mi accompagnasse in queste mie peregrinazioni.
Ci volle un prolungato e autodidattico apprendistato affinché potessi pervenire ai fasti degli eccelsi interventi in assemblea generale e in quelli, più specifici, nei panni del classico oratore sul palco.
Ricordo fra tutti il comizio a Nova Milanese, un comune nella zona nord alle porte di Milano. Una piazza circolare, con in mezzo un verde prato su cui si ergeva un magnifico albero, il palchetto monoposto, ai bordi del marciapiede, con la facciata principale di un palazzo alle spalle. Una piazza stracolma e plaudente. Prima di me aveva parlato, a quattro gatti, dal tetto apribile del suo fuoristrada, un candidato socialdemocratico. Dopo il comizio di Democrazia Proletaria ci sarebbe stato quello del Pci i cui militanti erano già in attesa e qualcuno fra loro rumoreggiava inviperito dal nostro successo. Parlai per primo, dopo di me il candidato locale. L’inversione dell’ordine tipico dei comizi era dovuto solo per i miei impegni ravvicinati. A mezz’ora di tempo, infatti, avrei dovuto raggiungere Crescenzago, per la terza iniziativa della giornata.

Il comizio fu un successo clamoroso: gli applausi a scena aperta erano fragorosi e scroscianti. Fu un’orazione per l’unità delle sinistre: la nostra caratterizzazione autonoma era legata al programma, ai punti qualificanti su cui mettevamo l’accento. Ho la netta percezione che, in quella piazza, più d’uno del Pci condivise i battimani.
Non ebbi il tempo di godermi l’ovazione finale poiché dovevo già correre all’appuntamento successivo. Mentre scendevo dal palchetto, le orecchie raggiunte dal batter di mani che proseguiva, ho avuto modo di ricevere i complimenti del candidato locale di D.P. che si lamentava dimessamente, ma non con avversione, che gli avessi  sottratto una parte degli argomenti che avrebbe voluto illustrare.
Mi scusai con lui due volte, nonostante non dipendesse da me, per la situazione che si era venuta a creare e per non poter restare a sentire il suo intervento.
Quando furono resi pubblici i risultati elettorali, mi premurai di andare a verificare la percentuale raggiunta da D.P. in quella cittadina alle soglie di Milano. Appresi che era una delle più alte realizzate nell’area milanese e, forse, sul piano nazionale: circa il 4%, invidiabile per un’organizzazione fino ad allora extraparlamentare e rivoluzionaria. Mi sono vanagloriosamente compiaciuto nel pensare che fosse dipeso, sebbene in una sua infinitesima parte, anche dai temi che avevo patrocinato nel mio comizio.
Via di corsa con Sergio, un compagno ricercatore dei laboratori Italtel, nelle funzioni di autista. Durante il frenetico tragitto ci scambiammo i giudizi. Esaltato anch’egli per come era andata, la cui solerte conseguenza fu l’accentuazione del suo essere moderatamente bleso.
Arrivammo a Crescenzago, sforando di pochissimo l’orario previsto. Dalle stelle alle stalle. Fummo accolti da un compagno dai capelli riccioluti e ingrigiti il cui volto mi restava familiare. La faccia rabbuiata, non era affatto contento di riceverci. Freddo freddo come l’ambiente composto da pochissime persone, sedute in attesa, dispensava la netta impressione di non gradire il nostro arrivo perché “loro avevano richiesto la presenza di Enzo dell’Innocenti”.

Mi fumava già il cervello: ho cercato di far comprendere al compagno suddetto che se io mi trovavo lì, caracollando da una parte all’altra della metropoli, non era certo dipeso da una mia richiesta. Semplicemente onoravo un impegno che mi era stato commissionato dal Comitato organizzativo elettorale. Nonostante le mie parole, il compagno dal volto noto e rabbuiato rimase sulle sue.
Gli dissi che se lui preferiva avrei girato i tacchi e quatto quatto me ne sarei tornato a casa prima, con mio grande gaudio. Non si assunse la responsabilità di far saltare l’iniziativa elettorale per cui iniziai a parlare. Senza essere presentato, senza nessuna introduzione locale. Una mestizia che non fui in grado di sovvertire. Più che un’iniziativa elettorale promossa da D.P. mi sembrava uno dei miei tanti comizi volanti: sconosciuto io per loro, ignoti loro a me.
Eppure, il luogo fisico aveva un che di suggestivo. Stretto fra la via Adriano e l’ortogonale via Padova. Sotto scorreva il naviglio della Martesana: uno spettacolo, i palazzotti d’epoca che lo incorniciavano su un solo lato a mo’ di cinta difensiva. In quel punto, Piazza Costantino, c’era come uno slargo, square direbbero inglesi e francesi, quantunque con dizione, pronuncia, significato e dimensioni diversi. Fungeva nella fattispecie da ponte per una parte e da luogo di sosta svagante per l’altra.
Terminato il comizio, allo stesso modo di come ero venuto – senza banda e majorette – me ne sono ito(*): avvilito e deluso.
Per un astruso effetto di trascinamento, la demoralizzazione si è sparsa in tutte le direzioni, coinvolgendo in negativo anche il magnifico comizio precedente. Rincasavo mogio e mortificato con l’unico torto (ma senza colpa) di “aver usurpato il posto destinato a Enzo dell’Innocenti”. Senza aver avuto il tempo e la tranquillità necessari per cullarmi all’enfatico ricordo dei sonori e reiterai applausi di folla festante in piazza Martiri della Libertà di Nova Milanese.
Ci annusavamo da lontano, Enzo e io: lui a est io a ovest, in analoghi recinti industriali, nella grande città di mezzo. Riconoscevamo in noi stessi, pur senza mai esserci frequentati, le medesime “stimmate” di un pensare e un agire senza dissociazioni, i tratti distintivi della comune sintonia, i segni di indubbio riconoscimento di una nostra particolare diversità nella generale difformità del nostro movimento, dei nostri compagni, del nostro modo di essere e di comportarci.

Come dicevo, Enzo lavorava all’Innocenti, la storica Innocenti per la cui sopravvivenza ci fu l’ultima grande lotta di una intera grande città per la difesa di una propria grande fabbrica. Per impedirne la chiusura, per determinarne l’auspicata riconversione.Ottobre 1947, nasce la Lambretta: grande concorrente della Vespa, il  maggior successo dell’epoca, prezzo al pubblico 156 mila lire, otto  volte lo stipendio di una tuta blu. Il ricordo dello scooter nato nel quartiere Lambrate serve a tenere desta la memoria di un ingegno italico di notevole creatività: il toscano Ferdinando Innocenti, un vero capitano d’industria. Iniziò fabbricando tubi per impalcature e deve a loro se il suo nome è rimasto indelebile nel ricordo collettivo. Ad essi si affiancherà la produzione automobilistica di un altro marchio di successo: la Mini, fabbricata su licenza della British Motor Corporation.

Alla morte del vecchio Innocenti, la proprietà passa al figlio Ing. Luigi che non ha la stoffa del padre. Se il padre Ferdinando era davvero un costruttore, l’erede Luigi è il “distruttore” che dà inizio alla fase delle dismissioni: la Lambretta viene venduta agli Indiani; la meccanica alla Santeustachio dell’Iri (così si formerà la INNSE Innocenti Santeustachio di Lambrate) mentre la British Leyland rileva l’intero settore auto dell’Innocenti.

Nel 1975 la Leyland inglese, in grave crisi, decide di cessare le attività produttive nello stabilimento di Lambrate. Dopo un duro scontro che vede le maestranze rivendicare la continuità produttiva con decise forme di lotta, compresa l’occupazione della fabbrica, durata 40 giorni, si arriva  attraverso la trattativa fra Governo e le organizzazioni sindacali a quella che sembra l’unica soluzione possibile: sarà Alejandro De Tomaso, insieme alla Gepi, a rilevare stabilimenti e marchio. Vengono rimesse in produzione le Mini di Bertone. 1000 lavoratori sono avviati a corsi di riqualificazione professionale finalizzati alla produzione industriale di un nuovo motore per marchi prestigio come la Maserati e la Moto Guzzi.

Il “Gaucho” però si rivelerà infine un bluff ovvero un faccendiere “figlio della Gepi”. Tra il 1990 e il 1993, l’affarista argentino cede prima Innocenti e poi Maserati a Fiat.

Il consiglio di fabbrica (di cui Enzo fa parte) dell’Innocenti, invece, ha lasciato un segno di grande combattività negli album sindacali degli anni Ottanta. Per una stagione quei lavoratori che non volevanvedere chiudere la loro fabbrica contribuirono a dare nerbo a un movimento sindacale che cominciava ad avere i suoi dubbi e a mostrare le sue pigrizie.

Dopo anni di lotte operaie durissime e di impegno responsabile di ogni singolo lavoratore, speranze infuocate e gelate delusioni, alle 16.55 del 31 marzo del 1993, lo stabilimento automobilistico di Lambrate chiude per sempre.

Trascorreranno 35 anni fra una lotta e l’altra. Tanto quella dell’Innocenti fu poderosa, corale, magnanima, sorridente, razionale ma, alla lunga, perdente quanto quella dell’INNSE fu disperata, minoritaria, incazzosa ma vincente. Gli operai saliti, a rischio della loro incolumità, sul carroponte per salvare il posto di lavoro, con la visibilità che prende il posto della rappresentanza, per la dura legge che recita “chi-non-va-sui-media-non-esiste” finiranno per essere imitati nei comportamenti operai in quasi tutte le situazioni di crisi in Italia.

“Gli ultimi 49 di via Rubattino» ce la faranno e  l’industriale bresciano Camozzi che ha rilevato impianti e attività ha tenuto a dire che “noi abbiamo garantito i 49 posti di lavoro, perché questi operai sono una grossa risorsa e hanno un grande know-how» e ha aggiunto che si poteva prevedere persino un ampliamento in  futuro del numero dei lavoratori.

Enzo e io scambiamo un po’ di convenevoli: lui si complimenta con la mia fisiognomica, io gli presento mia moglie, gli parlo di Donato, ci raccontiamo reciprocamente il motivo per cui siamo lì, in quel medesimo luogo.

Lui sa che scrivo e che ho pubblicato – non a mie spese – già 2 libri in 4 anni: «Donato me lo aveva detto…».

Enzo ha un fascicolo in mano, rilegato come una tesi, me lo mostra e intanto mi spiega che era venuto qui per parlare con un paio di editori allo scopo di riuscire a pubblicarlo.

Mentre parla fa scorrere le pagine per mostrarmene il contenuto. È un libro di parole e immagini, scritto e composto da un tassista di una metropoli, raccogliendo opinioni degli utenti o clienti, come li chiama lui,  sollecitati da un argomento scelto da Enzo di volta in volta.

Agli angoli della bocca già mi scorrevano due rivoli di lussurioso desiderio librario – ah, del furore di avere libri – poiché ho percepito subito la valenza di un pamphlet del genere.

Ci scambiamo i numeri di telefono, ci tengo a rivederlo, a risentirlo. Un incontro desiderato ma sempre procrastinato: a questo punto, di scappatoie non ce ne sono più. Mi importa intessere un rapporto con lui e mi intriga il suo libro.

Non passano molti giorni per trovare il tempo di incontrarci, per  parlare di noi e recuperare, seppure in minima parte, il periodo intercorso fra le vite del nostro ieri e l’esistenza di oggi.

È ovvio che ha con sé una copia del suo dattiloscritto per me.

Come dicevo, abbiamo pur nella diversità, moltissimo in comune. Lui è di origini calabresi: nato a Paola – che diede i  natali a San Francesco da Paola, patrono principale della Calabria – di cui conserva appieno nel cervello e nei sensi il nitido ricordo dell’odore del mare, dei molteplici effluvi della terra calabrese, al contrario di me che tarantino di nascita – con padre lombardo e madre della mia stessa città – mi  trasferii al nord ancora in tenera età, quando avevo solo due anni.

Ambedue siamo entrati in fabbrica per fare gli operai, un mestiere ingrato e faticoso come “scelta di vita”: per essere simili agli ultimi, per vivere la vita in carne e ossa di quel mondo che liberandosi dalle proprie catene avrebbe liberato l’umanità.

Lui già geometra, io invece quasi ragioniere – mi mancavano un paio di anni, mi sarei diplomato qualche anno dopo alla scuola serale  – ma avendo in mano in alternativa l’assunzione sicura come fattorino in una banca del centro città.

Una qualche difformità appare indiscutibile nelle nostre vicende sentimentali: lui condivide la sua esistenza con la medesima compagna di quei tempi, compagna di vita e di lotta. Con lei ha avuto due figli, Federico e Francesca. Enzo e Luciana li hanno condotti, fianco a fianco, con mano sicura alla maggiore età.

Meno saldo di lui, ho avuto qualche difficoltà a mantenere fissa la rotta e ho composto e sfasciato “famiglie”. Solo nell’età matura  sembro aver raggiunti armonia, appagamento e stabilità.

Abbiamo avuto i nostri lutti e offerto adeguate cure ai nostri vecchi quando necessitavano del nostro aiuto.

Enzo coltiva da antica data una vena d’artista. L’ho scoperto quando sono andato a cena a casa sua e ho visto le sue sculture e i suoi quadri. Anche Luciana realizza belle sculture.

Abbinati perfino nell’esercizio artistico, Luciana ed Enzo si recano con scrupolo e regolarità, un fine settimana al mese, da un amico comune dove c’è disponibilità di luoghi e spazi e l’aura che occorre per liberare l’inventiva e dedicarsi ognuno alla costruzione delle proprie opere.

In me, invece, c’è stato il tardivo cimento a narrare storie che nessun altro avrebbe scritto al posto mio.

Sulla copertina del suo dattiloscritto e, in un approssimato futuro, del suo libro c’è l’immagine di una sua scultura: la silhouette di un taxi che, da molti anni ormai, è diventato il suo luogo di lavoro e la sua professione.

Che diversità dalla grande fabbrica, dagli infiniti  capannoni industriali: tanti impianti, tanta gente, tanto rumore, tanta fatica, tante parole che, pena non sentirle, non potevano essere sussurrate.

Pur racchiuso nell’abitacolo della sua automobile, la voglia di comunicare e di sentirsi utile al mondo e agli altri gli è rimasta integra.

Così gli è venuto il gusto di mettere a profitto, nel senso umanistico e umanissimo del termine, il rapporto quotidiano con gli altri, con i suoi “clienti” che – uno o più alla volta, per tante volte al giorno – entrano nel suo taxi per usufruire del servizio.

Per prima cosa, espone un cartello che è l’esatto contrario di quello che viene affisso dai suoi colleghi: qui non è vietato disturbare l’autista, non è vietato parlargli, al contrario si è sollecitati a farlo.

Non so quanta gente sia finora transitata sui sedili della sua auto, ma a occhio e croce direi alcune migliaia.

Avrebbe potuto scrivere un libro sugli incontri avuti per pochi minuti o per alcune decine di minuti, sulle personalità incrociate, sui caratteri e le manie di questi utenti, sulle persone famose come sugli illustri sconosciuti.

Enzo ha voluto fare di più. Ha desiderato coinvolgere in modo diretto i suoi clienti sottoponendo loro, volta a volta, quesiti diversi mettendogli a disposizione un foglietto bianco e una bic.

Nel corso di circa 3 o 4 anni anni ha completato una ricca raccolta di opinioni su argomenti fra i più svariati e ne ha realizzato un numero di pagine equivalente a un corposo e intrigante libro.

Non ho intenzione di farne adesso una critica di merito, la scriverò al momento opportuno quando il libro uscirà, pubblicato da un piccolo ma significativo editore che io stesso ho creduto giusto suggerire al mio amico. Non ne ho voluto fare una recensione poiché mi premeva soprattutto parlare dell’autore, di colui che ho soprannominato: “Il tassista sociologo”.

Aggiungerò solo che dentro le pagine di «In taxi … seguendo il filo del discorso» le opinioni dei “clienti” si intrecciano come un pregevole intarsio con il vissuto di Enzo, le sue esperienze di lavoro e di vita, i ricordi delle lotte operaie, i suoi sentimenti di uomo di sinistra senza paraocchi, di persona che ragiona con la propria testa e ama dire a voce alta ma non sguaiata ciò che pensa sull’universo mondo, sui quotidiani quiproquo dell’abnorme normalità di questo nostro strapaese.

Con il suo libro si mette in evidenza un timbro autentico nel panorama intisichito della letteratura nostrana. Scrittore è parola complessa e importante e non la userò a sproposito. Le narrazioni di Ezio nascono dal mondo e al mondo vogliono ritornare.

Il suo libro è a un passo dalla tipografia e già immagino che Enzo si industri a comporne un secondo sulla sua lunga esperienza operaia, un argomento principe rimasto ai margini delle patrie lettere che continuo a considerare più che degno e meritevole di udienza e rappresentanza.

 

(*) = andato (dal vernacolo meridionale come dal latino).

 

 

Maurilio Rino Riva,Il tassista sociologoultima modifica: 2012-03-20T15:18:00+01:00da mangano1
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