LORENZO MARI,So(da)li e civili: Marchesini legge Savinio, Noventa, Fortini, Bianciardi e Bellocchio

Critica Impura
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So(da)li e civili: Marchesini legge Savinio, Noventa, Fortini, Bianciardi e Bellocchio

Pubblicato il 29 agosto 2012Unknown.jpeg

Di LORENZO MARI
Da qualche giorno a questa parte, ho riposto l’agile libretto di Matteo Marchesini Soli e civili (Edizioni dell’Asino, 2012), nello spazio della libreria che gli compete, ovvero tra i testi più cari. Ed è anche appoggiato, di taglio, al capofila della serie dei libri più illuminanti. Perché di questo si tratta: la scarsa novantina di pagine che compone Soli e civili vanta queste caratteristiche. E le sconta.
Dunque, non è piaggeria, o intenzione di schierarsi dovunque e comunque, ma, ecco, dare a Marchesini del “texano” – e, per carità, “nell’accezione di Alain Badiou”…! – come ha fatto Andrea Cortellessa in una nota critica sul Manifesto del 9 agosto mi sembra, perlomeno, un dire parziale e ingeneroso [i].  “L’avversione texana nei confronti di qualsiasi pensiero teorico e di qualsiasi critica accademica” lamentata da Cortellessa non mi pare esserci affatto, nell’autore che ha dato recentemente alle stampe anche un corposo saggio critico sulla poesia italiana degli ultimi anni, dal titolo Poesia senza gergo (Gaffi, 2012).
Sempre di quest’anno è anche Soli e civili, che è un testo caro e illuminante, come dicevo – nonostante, o forse proprio perché, delude le attese, trasformandole in altro.
Nella premessa, infatti, Marchesini scrive: “Non fingerò che una galleria di medaglioni così staccati, così “crociani”, implichi sempre strette affinità interne o evidenti parentele tra le parti. La vera coerenza, se coerenza c’è, sta soprattutto nella scelta di dedicare una speciale attenzione che – a differenza di altri pur da me frequentati e amati – offrono un tipo di nutrimento più alto e prezioso.” (Soli e civili, p. 5)
Subito dopo, però, l’autore passa ad elencare le analogie forti che, in realtà, finiscono per unire saldamente, molto più che isolare, gli autori da lui commentati, disegnando così molteplici fili rossi tra le diverse esperienze di Savinio, Noventa, Fortini, Bianciardi e Bellocchio. Seleziono rapidamente i traits d’union che mi sembrano più rilevanti: “Noventa e Fortini sono legati sia dalla concezione del genere poetico – che a loro avviso deve fuggire tanto l’ermetismo quanto la retorica tribunizia, e rimandare sempre ad altro da sé – sia un cocciuto antivirtuismo. Per tutti e due il primo avversario con cui confrontarsi è l’interlocutore più vicino, o addirittura una parte di sé stessi […]. Ancora: Noventa e Bianciardi non smettono mai d’interrogarsi sul rapporto che corre tra le speranze tradite del Novecento e quelle risorgimentali. Infine, c’è un filo che meriterebbe di essere isolato e seguito con ben altra costanza, e che riguarda la riflessione sul rapporto tra stile e società: in modi diversi, Savinio come Noventa, Fortini come Bianciardi hanno in mente una forma più o meno paradossale di classicismo insieme dotto e popolare, da opporre ai profondismi esoterici o demagogici della cultura e dell’arte moderne.” (Soli e civili, p. 6).
Nella prima di queste constatazioni, è evidente come l’autore condivida con Noventa e Fortini l’essere critico e poeta insieme, un’attitudine che oggi, invece d’essere naturale sbocco di una doppia propensione, è ricercata compulsivamente anche da chi non è capace di rivestire entrambe le funzioni (a causa della coazione a pubblicare, diffondere, recensire, chiosare e dibattere, generata da Internet, e in particolare dai lit-blog, nonché dai social network).
Di Noventa e Fortini, Marchesini apprezza anche l’anti-virtuismo, in un’epoca in cui il critico-poeta (o il poeta-critico, che dir si voglia) tende a moraleggiare, anche quando, con un chiaro meccanismo psicologico di negazione, rifiuta ogni moralismo. Così facendo, l’autore non sembra interessato tanto a stigmatizzare la pruderie morale dell’intellettuale, quanto a promuovere un lavoro dell’autocritica ‘mai troppo esercitato’ – per usare un eufemismo. Lo si può evincere, del resto, anche dalla frase immediatamente successiva dell’autore: Marchesini sembra puntualizzare come l’aspetto più odioso del virtuismo sia, in ultima analisi, l’auto-confinamento in una casta intellettuale che giudica il resto del mondo dall’alto, non applicando mai gli stessi parametri e il medesimo rigore a sé e alla propria complicità nella riproduzione del Sistema – che per Marchesini sembra essere, prima di tutto, l’industria culturale, in senso pienamente novecentesco, e francofortese.
L’accostamento Noventa-Fortini-Bellocchio non può neppure dirsi il frutto di una giustapposizione casuale di ritratti, come Marchesini intende suggerire, non senza malizia, nella primissima delle citazioni qui riportate.
Giacomo Noventa, infatti, è descritto spesso nelle vesti di maestro di Fortini, mentre Piergiorgio Bellocchio è individuato come il miglior continuatore, o discepolo, della linea che così, malgré tout, si va producendo. È questo, probabilmente, un segno della militanza che, pure attaccata e circoscritta fino a dimensioni infinitesimali dall’industria culturale, non svanisce, non soltanto negli autori analizzati, ma anche nel Marchesini che è stato già co-autore dell’Annuario di poesia con Febbraro e Manacorda.
E il segno della militanza è l’indicazione della linea fortiniana, da utilizzarsi, in primis, come antidoto strategico verso un certo, montante, pasolinismo di ritorno – anti-estetico, dogmatico e intimamente moralista. Momento decisivo, questo, per Marchesini, in cui il Fortini che si rinchiude nella propria prigione mentale con i Dieci inverni è comunque più ammaliante – per lucidità e chiarezza, nell’eresia – del contraddittorio, ammiccante e pericolosamente ambivalente[ii] Pasolini.
Altra linea che Marchesini segue, senza darlo troppo a intendere, riunirebbe Bellocchio a Fofi, prefatore, tra l’altro, di Soli e civili, nel segno dell’esperienza svanita dei Quaderni Piacentini. Altra ancora sarebbe quella che aggancia il Marchesini critico-poeta, suo malgrado, alle parole sparse di Alfonso Berardinelli, in veste critica, e di Paolo Maccari, in veste poetica. Marchesini li cita senza fornire indicazioni testuali precise, giocando – forse – a mostrare le ‘proprie linee’ e poi a nasconderle; in ogni caso, gli indizi restano patenti…
Proseguendo, risulta precisissimo anche il riferimento a quegli autori, come Noventa e Bianciardi, che hanno saputo produrre una relazione dialettica prolifica tra Novecento e Risorgimento – un momento di sintesi che ancora, dopo 150 anni di unità celebrati l’altroieri, manca al discorso intellettuale italiano d’alto bordo. Insomma, che Aprire il fuoco entri nei canoni letterari di oggi e di ieri (dico io, non Marchesini) e avanti.
L’ultimo dei paragrafetti qui riportati aspira a un ‘classicismo dotto e popolare’ che – forse praticato da alcuni, isolati autori nei decenni passati – oggi sembra essere utopico. Ma, se la fragilità del sogno, nel presente, è abbastanza chiara, se ne colga comunque la vena polemica contro le rotture neo (e neo-neo) avanguardistiche, che sono nate con lo storicismo (tutto accademico) già incorporato, ma ancora non si riescono a riconoscere del tutto come ‘classicismo’ (‘classicismi’). Non tanto il Gruppo 63, quanto la nozione che se ne ha ancora oggi, cinquant’anni dopo. E molto tempo è passato, après le déluge.
Detto questo per quanto riguarda l’impostazione epistemologica del saggio (si aggiunga soltanto, in extremis, l’estraneità a certi discorsi di ampio respiro di Savinio, inattuale ora come allora), le cinque monografie, prese una a una, sono chiare, spesso inappuntabili. La migliore è quella dedicata a Bianciardi, già apprezzata a suo tempo, in versione molto ridotta, sul Foglio. Ebbene sì, sul Foglio, che, come Liberal e Lo Straniero ha ospitato alcuni pezzi di Marchesini poi ri-montati in questo libro – e la polemichetta può avere di nuovo inizio… Anche se non ha direzione né scopo, stante la chiara militanza dell’autore…
I cinque pezzi che-non-nascono-in-modo-facile di Marchesini aspirano, con francescana semplicità, a una profondità di pensiero che, di nuovo, chiama in causa la funzione dell’intellettuale. Funzione, e non ruolo, come ribadisce sempre nelle prime pagine Marchesini, arrivando qui a pungolare certa generazione TQ affannatasi a ricercare visibilità mediatica per l’intellettuale d’oggi, senza prima essersi interrogata sul lavoro culturale da farsi.
Lavoro culturale e quindi – di nuovo – Bianciardi. È qui che a mio parere Marchesini sconta, e sconta in particolar modo i cinquant’anni che ci separano non soltanto da Pasolini (che l’autore ha meritoriamente evidenziato come continuatore ‘minore’ ed ‘eterodosso’ del lavoro contro l’industria culturale avviato dall’Immenso Grossetano… sempre dal pezzo sul Foglio…) o dal gruppo 63. I tempi della scuola di Francoforte sono, almeno in parte, inevitabilmente tramontati. E se Gramsci sale oggi in cattedra questo non è un problema, diversamente da quanto sostiene l’autore, perché, prima di tutto, il salire in cattedra non snatura per forza Gramsci, e poi lo snodo problematico vero riguarda l’avere archiviato Horkheimer e Adorno senza averli completamente attraversati.
Vi è poi il punto che più duole, che non è né vanto né difetto dell’autore. Marchesini si ritrova giocoforza a disegnare i ritratti di cinque intellettuali soli, non per forza contro, ma soli, e ciononostante civili. Tuttavia, le linee, come si è visto, esistono – resistono, sia tra gli autori citati che nell’universo intellettuale di Marchesini. Resistono, poi, in luoghi giornalistici ed editoriali impensabili. E questo fa buon gioco non tanto per il Paolo Nori di qualche estate fa, ma per la consapevolezza intellettuale dello stesso Marchesini, che con il testo Collaborazionismo (nella silloge Sala d’aspetto, Valigie Rosse, 2010) ha definito, con un acume scarsamente ripetuto, da altri la bizzarria della nostra situazione culturale.
Bizzarria, e quasi deserto, dove Marchesini spicca, non tanto contro Cortellessa, contro il gruppo 63, contro i TQ, ma da una posizione altra, che analizza, senza compiangerla (e compiangersi), la propria solitudine e indica in qualche punto fuori dal testo la necessità ancora resistente della solidarietà militante.
Se oggi les nouveaux intéllos précaires si dibattono nella mancanza materiale d’aria e di spazi, Marchesini fornisce, per il momento, una preziosa cronistoria intellettuale del Novecento italiano.
Invita a ripartire.

[i] Per non parlare poi di uno degli snodi principali della questione, toccato da Salvatore Fittipaldi in una conversazione Facebook a proposito del pezzo di Cortellessa… Osservando che la querelle con Marchesini è scaturita da una diversa valutazione dell’antologia einaudiana Nuovi poeti italiani 6, Fittipaldi ha scritto: “Quel che conta è constatare come la recensione subisca la stessa sorte del testo: parlare di tutto tranne che del contenuto del libro: per chi ci crede, rappresenterà qualcosa di mirabile e profondo. A tutti gli altri, scapperà da ridere”. Due frasi che sintetizzano al meglio l’altrimenti indefinibile qualità della critica letteraria che si esprime sui giornali e talvolta anche sulle riviste.
[ii] L’ambivalenza è spesso più nelle interpretazioni dei neo-pasoliniani che non ab origine: ne sono stato edotto da Paolo Desogus, giovane semiologo sardo di stanza a Bologna, che, nei propri studi, ha sempre evidenziato l’interesse e, talvolta, la condivisione di un approccio scientifico nella propria formazione intellettuale da parte del poeta, scrittore e cineasta di Casarsa.

LORENZO MARI,So(da)li e civili: Marchesini legge Savinio, Noventa, Fortini, Bianciardi e Bellocchioultima modifica: 2012-08-31T17:40:22+02:00da mangano1
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