Angelo Mastrandrea,Fotografia, giornalismo, politica. Una conversazione con Tano D’Amico

fotografia, giornalismo, politica. Una conversazione con Tano D’Amico
29 ottobre 2012 Pubblicato da Le parole e le cose
di Angelo Mastrandrea

 

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[Questo articolo è uscito su «il Reportage» (n.12, ottobre-dicembre 2012)].
Si racconta di Tano D’Amico che un giorno sotto una tazza di caffè, adagiata su un centrino, offertagli da occupanti di case sgomberati, trovò una busta chiusa. Aprendola, si accorse che c’era del denaro. Era il 1974, ad offrirglieli erano state quelle persone che lui stava ritraendo con la sua macchina fotografica nella loro lotta disperata per evitare di finire in mezzo a una strada, nella borgata romana di Castelbruciato.  Gli chiedo se sia vero, lui conferma e aggiunge che quel gesto gli cambiò la vita perché “mi ero ridotto alla fame per seguirli e loro, pur non avendo nulla, vollero aiutarmi. Lì capii che ero riuscito ad aprire un varco nei loro cuori e che non sarei più potuto tornare indietro nel mio lavoro”. Basterebbe questo aneddoto a spiegare verso chi ha volto lo sguardo questo fotografo nato a Filicudi settant’anni fa e approdato sulla terraferma per raccontare le lotte sociali, le persone, i movimenti, rivoluzionando il modo di fare fotoreportage sociale.
Sono sue quasi tutte le foto che hanno fatto la storia degli anni ’70. Se si pensa agli sgomberi delle case occupate della borgata di San Basilio a Roma viene spontaneo associarli a quelle donne che con insolenza fronteggiano dei ragazzi dai volti meridionali, non meno proletari di chi sta loro di fronte, e in un unico colpo d’occhio sono riassunti il Pasolini di Valle Giulia e quello di Mamma Roma.

L’impressione è talmente forte che, ricorda Tano, “Tazio Secchiaroli (grande fotografo della “scuola romana”, ndr) a proposito dei miei soggetti diceva sempre: passa da Cinecittà e fai scritturare quelle persone”.
Andando con la memoria al ’77, l’inizio della rivolta è tutto in quella sequenza in cui si vede un militante cadere a terra ferito e un suo compagno tornare a soccorrerlo. Si tratta di Paolo Tommasini (l’uomo a terra) e Leonardo Fortuna (il soccorritore), per tutti Paolo e Daddo.

È stata da poco assaltata una sede dell’estrema destra a Roma, a piazza Indipendenza c’è un conflitto a fuoco: Tano D’Amico riesce a immortalare un gesto di straordinaria generosità. Oggi rievoca quei momenti drammatici: “Loro avevano appena sparato, c’era un poliziotto a terra. Ma secondo me bisognava aspettare l’immagine giusta. I giornali per quella sequenza hanno citato Virgilio, Tasso, Omero. Nessuno ha tirato in ballo il codice penale come accade per tante foto di oggi. Si tratta di un modo di rappresentare, le mie immagini hanno raccontato un mondo ma nessun magistrato ha mai potuto utilizzarle in un processo».
È il 2 febbraio del 1977, e di lì a qualche mese, il 12 maggio, sempre a Roma, all’altezza del ponte Garibaldi, durante una manifestazione indetta dai radicali per festeggiare i tre anni dal referendum vinto sull’aborto, una studentessa appena diciottenne, Giorgiana Masi, viene colpita mortalmente all’addome. La polizia viene accusata di aver infiltrato il movimento, Cossiga nega che ci fossero infiltrati tra i manifestanti e dice di essere pronto a dimettersi se verranno fuori le prove che a sparare siano state le forze dell’ordine. Tano D’Amico inchioda, con uno scatto che farà il giro del mondo, un agente in borghese vestito come un dimostrante e con la pistola in pugno, al suo fianco un funzionario di polizia e un agente in divisa.

Quell’immagine rappresenterà la smentita più clamorosa delle versioni ufficiali sull’omicidio e farà la storia di quell’evento insieme a un’altra, più drammatica, che immortala le sorelle di Giorgiana Masi mentre corrono, disperate, verso il luogo del delitto.

Sullo sfondo rimangono gli altri manifestanti, come in un antico coro greco (la classicità ricorre spesso nelle immagini di Tano d’Amico: le tre donne con il foulard nero ritratte in Irpinia nei giorni del terremoto dell’80 sono tre figure della Magna Grecia).

I due operai di Mirafiori colti in un momento di relax sono diventati, invece, il simbolo della lotta dei 35 giorni alla Fiat nell’autunno del 1980, più delle centinaia di slogan e cartelli.

Non è un caso. Risiede in quel che evocano, nel contesto che raccontano e non in quello che mostrano, la loro forza immortale. Come in un quadro impressionista: “Roland Barthes dice delle cose bellissime rispetto alle immagini del suo tempo, negli anni ’70: scorrono un fiume di immagini, molte urlano, stigmatizzano, nessuna fa pensare. Nessuna si fa amare e ricordare. Nessuna va al di là della lettera. Non c’è astrazione, come per gli scarponi di Van Gogh che fanno pensare al cammino dell’umanità”. Insomma, per Barthes “si vedono solo immagini fotografiche”, quel che manca è l’autore di quelle immagini.
D’Amico è una persona colta, estremamente raffinata. Un grande affabulatore, acuto, non parco di citazioni, che spaziano dall’arte alla filosofia, senza peli sulla lingua nel criticare quel mondo della sinistra che pure gli appartiene e che conosce da vicino, con il gusto della provocazione mai fine a se stessa. Ripensandoci, difficilmente si può fare a meno di dargli ragione, anche nei momenti in cui sviscera delle verità che possono far male. Come quando affermò, qualche anno fa in un’intervista all’Unità, che non c’era differenza, dal punto di vista delle scelte iconografiche, tra due giornali agli antipodi come il manifesto, quotidiano comunista, e Il Giornale berlusconiano. Il ragionamento era questo: entrambi i giornali, come l’intero circuito della carta stampata, si servono delle grandi agenzie per coprire gli eventi, in particolare quelle internazionali. Dunque non c’è alcuna differenza nel modo in cui si guarda il mondo. Oggi gliene va chiesto conto, e lui non si sottrae: “Le foto delle agenzie non sono fatte da cattivi fotografi, ma hanno uno scopo. Pensa a quell’immagine, molto nota, del soldato americano che uccide un arabo in una moschea. Quello che comunica è che il più vicino a Dio, ai nostri figli, è lui, l’assassino, non la vittima”. Per dire che a essere diffusa è una visione del mondo, quella dell’ideologia dominante. E anche chi la contesta, avendo perso ogni capacità egemonica, finisce per assoggettarsi ad essa.
Tano D’Amico estrae dalla borsa le foto da pubblicare su queste pagine al termine di una lunga chiacchierata cominciata una mattina presto davanti a un buon caffè romano nella pasticceria-bar Camerino di via Ettore Rolli, zona Porta Portese, e conclusa con un pranzo allo stesso tavolo con la promessa di rivedersi. Prima di farlo, gli premeva esporre una sua tesi, anch’essa provocatoria, indirizzata questa volta ai movimenti sociali dell’ultimo decennio. In sintesi, il nostro interlocutore, sostiene che il “movimento” dell’epoca della tecnologia a portata di tutti si è distrutto con le proprie immagini, che i giornali pubblicano sempre più spesso «foto pornografiche»  e che, in fin dei conti, si sta realizzando il piano, nazista, di Goebbels: eliminare l’uomo e lasciare la macchina, cioè la tecnica nuda e cruda, per avere il controllo delle immagini e dunque del popolo. Affermazioni così pesanti richiedono qualche spiegazione in più, per questo riavvolgiamo il filo della discussione e partiamo dal punto in cui questa chiacchierata è davvero cominciata.
Tutti fotografi, nessun fotografo
Ci siamo appena seduti e, prima ancora che gli si potesse rivolgere una domanda, Tano D’Amico esordisce così, a sorpresa: “Non ho niente contro internet, contro il fatto che tutti siano in grado di fare e far valere le proprie immagini. Potrebbe essere una grande conquista dell’umanità. Però l’immagine è qualcosa di più complicato. Prima occorreva un tirocinio lunghissimo per diventare fotografi, si andava nelle botteghe a imparare. Tra noi non hanno preso piede dei mostri, come il razzismo, perché in queste scuole ci si accorgeva che l’ultimo schiavo era molto più interessante dell’imperatore. Invece oggi siamo arrivati all’uso delle immagini per la delazione di massa. Credo non sia mai accaduto che dopo una manifestazione (quella del 15 ottobre 2011 contro il governo Berlusconi, terminata con gli scontri tra un gruppo di manifestanti e la polizia a piazza San Giovanni, ndr), un grande giornale invitasse i partecipanti a usare le proprie fotografie per denunciare altri manifestanti. Tutti gli arresti si sono avuti grazie alle immagini, come è accaduto pure per le mostruose condanne al G8 di Genova (quindici persone accusate di devastazione e saccheggio per gli incidenti durante le manifestazioni, ndr). Chi le aveva fatte? Non poliziotti, ma gente che stava lì vicino: compagni di scuola, conoscenti, che hanno usato le immagini secondo modelli polizieschi. Quello che mi ha fatto orrore è stato il fatto che non siano riusciti a concepire un’immagine diversa da quella poliziesca. Un’immagine capace di far vedere le motivazioni della protesta, il contesto più ampio, che andasse oltre l’atto di violenza. È la prima volta nella storia che accade una cosa del genere. Pensiamo al fascino degli Impressionisti che ruotano attorno alla Comune di Parigi, a cosa ci hanno mostrato. Un avvocato difensore al processo per il G8 a Genova, uno che si capiva che aveva letto Walter Benjamin, ha detto che i suoi assistiti sono finiti in carcere perché i giudici hanno scritto la didascalia delle immagini. Com’è stato possibile questo? Noi fotografi che abbiamo lavorato in anni ben più difficili di questi ci siamo sforzati, con lo studio, di trovare immagini che in sé avessero la didascalia e il contesto. Non c’era spazio per nessun poliziotto. Abbiamo rappresentato atti violenti, gente che commetteva reati anche gravissimi, ma nessuno le ha portate in tribunale, perché sapeva che se lo avesse fatto quelle immagini avrebbero rafforzato le motivazioni di chi era accusato”.
La sua tesi è interessante anche perché rovescia una delle parole d’ordine di quel movimento: Don’t hate the media, become your media, era lo slogan di Indymedia, il portale web che fu definito “la Cnn dei movimenti” per la capacità che ebbe, in maniera assolutamente aperta come nello spirito della rete, di raccontare dall’interno quella che il New York Times definì come “la seconda superpotenza mondiale”.
D’Amico è categorico: “Il movimento si è distrutto con le proprie immagini. Rappresentandosi con superficialità, non ponendosi alcuna domanda sull’immagine, sulla memoria, si è finiti per essere i prosecutori non dei grandi artisti, ma di chi l’immagine voleva affossarla. Hanno messo in pratica l’insegnamento di Goebbels, il quale aveva capito che non si può sconfiggere un popolo se non piegandone l’immagine. Il ministro della Propaganda del Terzo Reich aveva capito che l’immagine è un segno dell’anima. Invece i movimenti hanno annullato il fattore umano, si sono appiattiti sulla tecnologia”.
Però, si potrebbe obiettare, se non ci fossero state centinaia di macchine fotografiche e telecamere ora forse avremmo una versione diversa dei fatti di Genova. Tano D’Amico non è d’accordo. Prendiamo la figura di Carlo Giuliani, ucciso a Piazza Alimonda alle 17,27 del 20 luglio del 2001 da un proiettile sparato in aria dal carabiniere Mario Placanica e deviato, secondo i giudici che lo hanno prosciolto, da un sasso che volava nei dintorni. Dice D’Amico: “La fotografia può anche inchiodare un nome, questo lo devi pensare. E Carlo Giuliani è stato rappresentato male. Nei suoi appunti Leonardo da Vinci si è chiesto di una macchina che potesse produrre immagini. Ma non ha immaginato una camera oscura, un buco da cui si vedessero capovolte le persone, la realtà, cosa che pure sarebbe stata possibile intravedere all’epoca. Ha pensato invece a una macchina che scindesse la realtà in punti, la scansionasse e poi riunisse questi punti. Se guardiamo bene, ha pensato al computer, non alla macchina fotografica. Ma a un certo punto riflette: che senso ha? Bene che vada, io avrò inventato uno specchio, perfezionato finché si vuole ma pur sempre uno specchio, e uno specchio non ha mai cambiato nulla. Perché l’immagine non è mai figlia della realtà così come appare. L’immagine è figlia dell’uomo. Tutto lo sforzo, da Goebbels in poi, è stato quello di eliminare l’uomo in questo passaggio. Per Leonardo sarebbe stata una bestemmia. Ma lui si rende conto di scrivere qualcosa di molto grosso, e aggiunge: l’immagine è parente di Dio. L’ho visto anch’io nella mia vita: le immagini spesso si sono mangiate le interpretazioni altrui. Ancora oggi, mie immagini vengono utilizzate per rappresentare gli anni ’70, nonostante fossero comparse su giornali piccoli”. Insomma, se una foto non può cambiare il corso della storia, di sicuro può fissarne in un fermo immagine la sua interpretazione autentica, creare empatia con la vittima o il carnefice o produrre mostri, inchiodare una persona a un attimo della sua vita.
 Hemingway non giudicava
Tano D’Amico prosegue inarrestabile: “I movimenti hanno svolto il lavoro delle telecamere messe fuori dalle banche. Hanno abdicato al loro ruolo di esseri umani, che fanno combaciare le immagini alla propria anima, le fanno coincidere con le loro aspirazioni. Goebbels aveva scoperto che si può controllare l’immagine in un solo modo: abbassandone il livello, anche rispetto alla parola scritta. Barthes diceva: si vedono solo immagini fotografiche. Per questo io aggiungo: stiamo attenti con l’autorappresentazione. Bisogna studiare, come per qualsiasi altro linguaggio”. Ma questo vale anche per i giornalisti, non solo per i fotografi, provo ad aggiungere. Oggi tutti scrivono e i giornali sono messi in crisi da internet. Ancora una volta, per rispondere Tano ricorre a un classico. “Nelle sue corrispondenze di guerra Hemingway non dava giudizi. Però si intuiva tutto. Non c’era il documento, la fotografia. Il vero lavoro del giornalista è un altro: è quello che azzarda le ipotesi anche se non ci sono i documenti, è quello che si batte per una causa anche se nel perseguirla si commettono dei reati. Non è un magistrato o un poliziotto. Diceva Concetto Marchesi, comunista e grande latinista, che il delinquente politico di oggi può diventare lo statista di domani. La verità è qualcosa di più complicato del sapere se uno ha tirato o meno un sasso: è fatta di presente, di passato, di aspirazioni nel futuro. La verità in natura non esiste, è la più bella creazione dell’umanità. Quando ero alle prime armi fecero epoca le foto di una madre che aveva buttato i cinque figli giù dal tetto e poi si era lanciata anche lei. Qual era la verità? L’orribile gesto o le motivazioni che l’avevano spinta al suicidio? Mostrare quelle immagini era un tentativo di bloccare questa ricerca. In un convegno sul reportage, a Venezia nel ’79, arrivò Michelangelo Notarianni, del manifesto, a dire che il suo giornale non pubblicava le foto perché non credeva ai fatti. Noi fotografi l’accogliemmo con un lunghissimo applauso”.
La nostra discussione viene interrotta dall’arrivo del caneriere del bar e, per un attimo, dalla fine degli anni ’70 torniamo all’oggi. Al tavolino dietro il nostro un gruppo di persone riescono a sovrastare con le loro voci quella di Tano. Il quale, tuttavia, pare non accorgersene e riprende: “Prendiamo, come esempio, un film di Cassavetes che si intitola Gloria. C’è una scena in cui la moglie del regista, Gena Rowlands, uccide tre uomini cattivi a colpi di pistola. L’immagine chiave del film, quella dell’uccisione, fu messa sui manifesti pubblicitari del film. Era un’immagine amabile, anche se mostrava un terribile delitto. Faccio un altro esempio: Otello è un bruto che ammazza la moglie per futili motivi. Però quando noi andiamo a teatro ce la prendiamo con Iago e tifiamo per Otello. I giudici, dopo aver letto Shakespeare, non avrebbero mai portato Otello in tribunale”.
Nessuno avrebbe processato Otello esattamente come nessuno ha mai portato in tribunale un soggetto fotografico di Tano D’Amico. Invece, è questo il succo del discorso, le immagini scattate dai manifestanti, per una inconsapevole eterogenesi dei fini, sono finite per diventare un’arma contundente nelle mani di chi quel movimento voleva distruggere.  Perché? “Non ti puoi identificare con la macchina – risponde Tano – è lei che deve eseguire quello che tu vuoi. Guarda le immagini su Carlo Giuliani: alla fine è in base ad esse che i magistrati hanno detto che i carabinieri hanno fatto bene a sparare. Dobbiamo avere il coraggio di dire che quelle foto e quei video hanno fallito: erano immagini fatte da macchine, l’uomo si è annullato, si è trasformato in cacciatore di scalpi”.

La scuola romana
 La chiacchierata, quasi un monologo, volge al termine e Tano D’Amico non accenna a tirar fuori le foto che ha selezionato per il Reportage. A lui, che ha lavorato in due quotidiani della capitale, Lotta Continua e Il Messaggero, e collaborato con svariati altri, da Repubblica al manifesto, chiediamo del contesto in cui ha lavorato: la cosiddetta scuola romana. “La scuola romana si distingue dalle altre per la solidarietà che c’era tra di noi quando eravamo in strada. Mi ricordo che nei tempi difficili il nostro gruppo sembrava il quadrato di Villafranca. Ognuno di noi sapeva che poteva allontanarsi per fare il suo lavoro e poi ritornare all’interno. Da essa vengono foto storiche per il nostro Paese: penso alle manifestazioni del luglio ’60. Secondo me quelle immagini hanno la stessa grandiosità dei film di Visconti, e non si capisce bene chi ha copiato chi”. A questa battuta alza il capo, fa l’occhiolino e abbozza un sorriso, come a voler instillare il tarlo del dubbio nell’interlocutore: chi ha copiato chi?
Ma proseguiamo. “Quello del fotografo è uno strano mestiere. Non può essere solo: ha bisogno di un gruppo che lo supporti. Non è uno che ha delle belle foto nel cassetto, ma uno che è capace di dare delle immagini che un gruppo umano richiede. Torniamo al grande quotidiano che invita alla delazione di massa: con questa operazione tende a far scomparire il fotografo, vanta l’elemento macchina. Considera anche l’importanza data alle videocamere delle banche. Non c’è un essere umano che partecipa, che chiede un giudizio su quella cosa. Sono immagini pornografiche. Il problema non è di soldi, ma culturale. Giornalisti giovani vengono pagati pochi euro a pezzo, ma la domanda è: si tratta di giornalisti o di dattilografi di lusso? Quando ho cominciato questo lavoro ogni giornale aveva i suoi fotografi. Il Messaggero ne aveva dodici assunti regolarmente e una sezione cronaca da far paura. Perché non ci sono più? Questo è un lavoro particolare, un fotografo a contatto con la strada diventa una mina vagante, sta più con il lettore che con chi ti paga. Per scalzarli hanno cominciato a usarne altri più giovani e inesperti, che dicevano meno. E così, di generazione in generazione, si tende sempre più a fare a meno del fotografo e a lasciare solo la macchina fotografica. Si realizza, ripeto, l’obiettivo di Goebbels: eliminare l’uomo”.
A questo punto, quello che gli premeva dire l’ha detto. Tano D’Amico può finalmente tirar fuori quelle foto che inevitabilmente avrebbero indirizzato la chiacchierata su altri binari. Le introduce così: “Che cos’è una bella immagine? È  quella che, quando la vedo, non posso più farne a meno, perché mi apre una dimensione che non conoscevo, un pensiero che non avrei mai fatto, che entra nella mia vita e, se la dimenticassi, dimenticherei una parte di essa. Delle mie immagini potrei fare a meno, le conosco benissimo, ma di quelle di cui sono figlio, che mi hanno portato a essere come sono, no”. Eccole qui, queste immagini custodite gelosamente in una busta chiusa che immaginiamo analoga a quella che un giorno gli fecero trovare i senza casa della capitale, nascosta sotto la tazzina di caffè adagiata su un centrino, come quelle letterine che i maestri facevano scrivere ai bambini per i loro genitori, a Natale. Poliziotti e occupanti a San Basilio, Paolo e Daddo, le sorelle di Giorgiana Masi, la lotta di Mirafiori, le donne magno greche dell’Irpinia, una ragazza ribelle con il volto coperto da un foulard che le fa risaltare l’intensità dello sguardo, una Che Guevara dei nostri giorni. Ne mancano tante altre, dai contadini di Melissa negli anni ’60 alle due ragazze vestite da angeli in una manifestazione degli ultimi anni a Bologna. Sarà per la prossima volta. Anche perché, confessa Tano quando siamo all’ennesimo caffè, “dico così, ma so che non è così: io penso che l’umanità non possa fare a meno di belle immagini e di bei racconti, le belle foto esisteranno sempre”. Goebbels e i suoi emuli si rassegnino, non vinceranno mai.
 

Angelo Mastrandrea,Fotografia, giornalismo, politica. Una conversazione con Tano D’Amicoultima modifica: 2012-10-30T15:41:21+01:00da mangano1
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