cORRADO bEVILACQUA, una società giusta

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La società in cui viviamo non funziona. Ciò crea una ampia serie di problemi che sono sotto gli occhi di tutti, a cominciare dal problema della disoccupazione per finire con quello impoverimento dei ceti medi a causa di una crisi economica che è stata affrontata dai nostri governi con misure sbagliate che hanno aggravato la crisi invece di aiutarci ad uscirne.

Altri problemi riguardano la qualità della nostra vita, l’inquinamento ambientale, la sicurezza personale, la violenza su donne, anziani e bambini, l’esistenza di  diseguaglianze economiche che sono inaccettabili non solo dal punto di vista morale, ma anche da quello economico in quanto impediscono lo sviluppo economico della nostra società

Una società giusta è una società nella quale ad ogni cittadino vengono garantite le sono medesime chances di vita. In altre parole, non è sufficiente che ad ogni cittadino siano garantite le medesime condizioni di partenza, come sosteneva Einaudi in Lezioni di politica sociale; occorre che egli sia in grado in ogni momento di far valere i propri diritti. Nel linguaggo di Amartya Sen non è solo, né tanto, un problema di Intitolazioni, quanto è un problema di capacitazioni

Prendiamo il caso del diritto allo studio. Non è sufficiente garantire a chi abbia la volontà e la capacità la possibilità di ottenere un titolo di studio. Occorre garantire l’accesso al mercato del lavoro eliminando nei modi dovuti, ogni forma di privilegio, impedendo la creazione d mafie, clientele, parentele… per non parlare dei concorsi truccati.

Una società giusta  è una società fondata sul merito, sulle capacità individuali, sulla professionalità. Una società giusta non è una società egualitaria. L’egualitarismo è la negazione dell’uguaglianza. Un società giusta è una società nella quale vale il principio: “Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi meriti”.

Secondo i teorici liberali, ciò è quanto viene realizzato in una società capitalistica sviluppata. In pratica avviene l’esatto contrario. Nella società capitalistica opera infatti una sorta di doppio mulinello; mentre una spatola integra, l’altra emargina. L’emarginazione genera povertà, la povertà genera emarginazione. 

Il grande economista svedese Ginnar Ordalia la chiamò “legge della causazione circolare cumulativa”. Egli la scoprì studiando il problema dei neri in America. Essa opera, però, in tutte le società capitalistiche ed è all’origine di quella che John Kenneth Galbraith chiamò povertà in mezzo all’abbondanza.

Eliminare tale povertà significa creare le condizioni per bloccare il funzionamento della legge della causazione circolare cumulativa e questo può essere realizzato creando una società che rende effettiva quella che Ralph Dahrendof chiamò uguaglianza delle chances i vita.

Ciò significa acquisire, una nuova nozione di sviluppo fondata sul principio messo in luce da Amaranta Sen per cui sviluppo significa libertà:  e libertà significa che ognuno di noi è in condizione di sviluppare liberamente la propria personalità. Come scrisse John Stuart Mill in On Liberty, l’uomo è paragonabile ad un albero e deve essere lasciato libero di crescere in tutte le direzioni.

Questa considerazione ci porta al clou della questione. Società giusta significa, per dirla con Edoardo Berselli, economia giusta.  L’economia capitalistica è tutto meno che giusta. La concorrenza genera monopolio. Monopolio significa che il monopolista è in grado di condizionare a proprio vantaggio il funzionamento dell’economia.

Creare un’economia  giusta significa perciò uscire dal capitalismo. Capitalismo non significa infatti necessariamente economia di mercato. Un’economia di mercato esiste fintanto che esiste un’economia di libera concorrenza. La concorrenza in vigore al ragiono d’oggi è una concorrenza monopolistica, o, tutt’al più, imperfetta.

La forma di mercato dominante è quella dell’oligopolio. Ciò significa che un piccolo numero di grandi imprese controllo un intero mercato, imponendo le proprie politiche dei prezzi, degli approvvigionamenti, delle vendite messe in atto allo scopo o di impedire l’entrata sul mercato di nuove imprese; o allo scopo di espellere dal mercato le imprese esistenti.

Ciò condiziona sia il tipo di sviluppo delle nostre economie, che il loro stesso tasso di crescita. Il tasso di crescita di un’economia dipende dal tasso al quale crescono gli investimenti ed esso dipende, fra le altre cose, come spiegò il grande economista polacco Michal Kalecki, dal grado di monopolio delle imprese.

Maggiore è il grado di monopolio delle imprese; minore è l’incentivo a investire, minore è il tasso di crescita dell’economia. Un minor tasso di crescita dell’economia significa, sic stantibus rebus, da un lato, una minore occupazione; dall’altro lato, significa aumento della capacità produttiva inutilizzata.

Quest’ultimo è un fenomeno tipico di quello che un tempo veniva chiamato “capitale monopolistico”. Come dimostrarono Paul Baran e Paul Sweezy, nel capitalismo monoplistico v’è una tendenza ad aumentare del surplus economico effettivo dovuta alle pratiche monopolistiche messe in atto dalle imprese monopolistiche.

Tali imprese hanno generalmente la forma giuridica della “società per azioni gigante”, la cui caratteristica principale è quella della irresponsabiltà nei confronti delle collettività dei paesi in cui operano. Esse agiscono alla luce di un’ottica globale e sono indifferenti nei confronti delle critiche che vengono loro rivolte dalle collettività dei paesi in cui operano.

Così’ facendo, esse condizionano a loro vantaggio il funzionamento della globalizzazione, creano le condizioni di una perenne emergenza economica e mettono in crisi quella che un tempo veniva chiamata sovranità nazionale. 

Secondo alcuni studiosi, ci troviamo di fonte ad un caso unico nella storia di imperialismo senza impero. In realtà, le più importanti teorie sull’imperialismo vennero elaborate al tempo degli imperi. Oggi non ci sono imperi. Ci sono grandi imprese multinazionali che operano a livello globale secondo una logica di impresa.

Un caso esemplare è quello della FIAT. Il suo Ceo, Sergio Marchionne, non agisce nel modo in cui agisce Pechino sia indifferente, da un lato, ai problemi che crea al mosto paese; dall’altro lato alle sue maestranze. Egli agisce nel modo in cuci agisce in veste di imprenditore globale. Ciò non può essere accettato dai sindacati dei lavoratori e dai politici di sinistra. Le critiche però non sono sufficienti. Occorre creare un’alternativa. Essa si chiama “sviluppo locale”.

cORRADO bEVILACQUA, una società giustaultima modifica: 2013-02-13T19:06:06+01:00da mangano1
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