Giuliano Battiston,Intervista a Wolfgang Sachs, allievo di Ilich

7fe64206b676e60576f90bb5c6dc54ee.jpgdal manifesto del 03 Giugno 2008GIULIANO BATTISTONI limiti della natura allo sviluppo dei desideriIncontro con il sociologo e ambientalista tedesco, che sulla scia di Ivan Illich studia una via per combinare la giustizia sociale con quella ecologica, trasformando i valori culturali che contribuiscono a formare l’universo simbolicoL’idea che la qualità di una società si possa giudicare dal livello della sua produzione economica interiorizza una concezione materialistica inaugurata da Truman nel 1949: prima questa idea non esisteva++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++Allievo di Ivan Illich, nel corso della sua attività Wolfgang Sachs si è esercitato costantemente con gli strumenti della scienza e della sociologia, ma prima ancora con quelli della teologia. Non l’ha fatto però «con l’intenzione di edificare un ulteriore piano nell’edificio teorico delle varie discipline accademiche», ma per mettere quegli strumenti «al servizio del cambiamento sociale ed ecologico». Convinto che sostenibilità significhi, «prima ancora che la salvezza delle balene», «la ricerca di una civilizzazione che sia in grado di estendere l’ospitabilità del pianeta» e promuovere la cittadinanza globale, e che a sua volta il cosmopolitismo sia «immaginabile soltanto sulla base di una trasformazione ecologica degli attuali modelli di produzione e consumo», Wolfgang Sachs ricerca da tempo la giusta via per combinare giustizia sociale ed ecologica. E suggerisce che una società compatibile con l’ambiente e con le richieste di redistribuzione e riconoscimento avanzate da chi ha meno privilegi possa passare solo attraverso un doppio binario: «sia attraverso una razionalizzazione intelligente dei mezzi sia moderando la portata dei suo scopi». Per farlo – questa la convinzione più profonda di Sachs – occorre però trasformare i valori culturali (e gli schemi istituzionali) che contribuiscono a formare l’universo simbolico di una società. Se ieri questa trasformazione era una opzione, oggi è una necessità: l’alternativa, «per dirla in modo rozzo, è tra giustizia e autodistruzione». Abbiamo incontrato Wofgang Sachs a Firenze, dove è stato tra i protagonisti di Terra Futura, la mostra-convegno dedicata alle «buone pratiche di sostenibilità ambientale, economica e sociale».In molti dei suoi libri – per esempio in «Ambiente e giustizia sociale», così come nell’introduzione al «Dizionario dello sviluppo» – lei fa riferimento in modo esplicito «al magnetismo spirituale» di Ivan Illich e al debito intellettuale maturato nei suoi confronti: in che modo Illich ha influenzato il suo lavoro? Tra il 1972 e l’anno seguente mi sono ritrovato in Messico, a Cuernava, all’epoca del Centro di documentazione interculturale, e grazie alla mediazione di Illich ho avuto modo di conoscere non solo alcune specificità di quell’area geografica all’epoca definita Terzo mondo ma anche molte delle persone che gravitavano intorno a lui. I miei studi di teologia mi portavano a un certo scetticismo nei confronti della razionalità occidentale e della modernità in generale e questo scetticismo ha trovato poi una declinazione particolare nell’incontro con Illich, che aveva individuato strumenti molto efficaci per riconoscere e interpretare la gigantesca collisione, per dirla schematicamente, tra le culture non moderne e la modernità; o – in altre parole – per comprendere la grande transizione dalle società agricole alle società industriali e moderneProprio dalla lettura di Illich a questa transizione ho ricavato elementi essenziali per il mio lavoro. A proposito di collisioni, nell’introduzione ad «Ambiente e giustizia sociale» lei scrive: «Più o meno tutte le mie ricerche ruotano introno a un ricorrente sospetto: che il modello di sviluppo occidentale sia fondamentalmente in disaccordo tanto con la richiesta di giustizia per i popoli del mondo quanto con l’aspirazione di riconciliare l’umanità con la natura». Ci dice qualcosa di più di questo sospetto? È ormai sotto gli occhi di tutti il fatto che questo modello di sviluppo contraddice e compromette la salvaguardia ambientale, tanto che il sospetto viene condiviso perfino da gran parte dell’élite economica e politica, almeno in Europa. Tre elementi in particolare vanno esaminati: nessuno nega più che ci troviamo a vivere nel caos dal punto di vista climatico, e molti sono consapevoli del fatto che questa situazione genererà conflitti, crisi e catastrofi mai viste prima. Allo stesso modo, tutto sommato nessuno nega in via di principio che l’età del petrolio sia giunta alla fine. Certo, si discute se la crisi arriverà tra cinque o venticinque anni, ma la questione non è importante, perché se una «stoffa» così imprescindibile alla civiltà industriale come il petrolio sta per terminare comunque la scossa per questa civiltà sarà rilevantissima, tale da cambiarne profondamente i connotati. Il terzo aspetto è forse il più importante: fino a quando l’occidente è stato l’unico «colpevole ecologico» la consistenza del disastro ambientale poteva essere tenuta nascosta, ma con la crescita di India e Cina l’occidente è attraversato da un forte nervosismo. È una forma di vendetta del colonialismo, perché il colonizzato ha imitato il colonizzatore e ora l’imitazione minaccia la stessa integrità e sopravvivenza del colonizzatore. Se Cina e India non possono essere fermate, anche noi siamo costretti a modificare il nostro sistema. Oggi questi tre fattori hanno diffuso il sospetto, molto più acuto di quanto non fosse dieci anni fa, che questo modello di sviluppo non sia sostenibile a lungo termine.Nonostante la fiducia nel «progresso» risalga – come lei stesso riconosce – ad almeno duecento anni prima, lei è solito fissare l’inizio dell’epoca dello sviluppo al 20 gennaio 1949, in occasione del discorso inaugurale al Congresso del presidente americano Truman. Quale è la novità racchiusa nel discorso di Truman? Anche in questo caso ci sono tre elementi da considerare. Truman sostenne che tutte le nazioni del mondo corressero sulla stessa strada, il che vuol dire che sarebbero state inglobate all’interno della medesima concezione del tempo: un tempo unico, che come il progresso conosce solo il movimento in avanti o che si arresta; un tempo lineare, in cui il futuro è migliore del presente e il presente migliore del passato. L’idea di sviluppo deriva inoltre dal mondo biologico, e se per valutare lo stato di sviluppo di un fiore dobbiamo necessariamente conoscerne lo stato compiuto, maturo, allo stesso modo in termini socioeconomici non si può parlare di sottosviluppo senza implicare l’idea di una società completamente sviluppata, che in questo caso è quella occidentale. In questo senso non c’è sviluppo senza la contestuale attribuzione di una egemonia culturale alle società occidentali. Il terzo fattore invece rimanda forse con più evidenza ai temi ambientali: lo sviluppo, per dirla in termini schematici, introietta una concezione materialista della società, ovvero l’idea che la qualità di una società si possa giudicare dal livello della produzione economica. Prima di Truman questa idea non esisteva, perché anche il colonialismo ha sempre tenuto distinta la capacità produttiva di un paese e le sue risorse economiche dal livello morale della cultura e degli individui. Nello sviluppo inteso come modello di realtà, invece, queste due prospettive convergono, tanto che si stabilisce un’equivalenza tra il livello economico e il grado di civiltà. Oltre all’equivalenza tra il livello economico e il grado di civiltà, spesso, anche a sinistra, il paradigma «sviluppista» ha stabilito una equivalenza tra la crescita economica e la giustizia sociale, sulla base dell’idea che progresso e crescita potessero di per sé risolvere le diseguaglianze sociali. Lei invece ha spesso sottolineato la necessità di pensare insieme giustizia e limiti, più che giustizia e crescita…La concezione sviluppista rimanda a un’idea di crescita senza limiti, che si fonda sulla speranza per cui la crescita potrebbe essere infinita e non si dovrebbe badare più di tanto alla giustizia perché grazie alla crescita anche i poveri otterranno la loro parte. Vale qui la famosa metafora delle barche, per cui si crede che l’alta marea possa alzare tutte le barche insieme e allo stesso livello: è questa l’idea socialdemocratica della giustizia, oggi smentita drasticamente dalla storia. Perciò dobbiamo pensare giustizia e limiti insieme. Lo sviluppo, così come lo abbiamo inteso negli ultimi decenni, non può più essere la ricetta per garantire dignità ed equità a popoli e nazioni, ed è proprio questo il dramma odierno: il desiderio di dignità e i limiti della natura confliggono, e da questo scontro deriva la drammaticità della situazione in cui viviamo. In «Per un futuro equo», l’ultimo rapporto del Wuppertal Institut tradotto in italiano, si sostiene che per promuovere giustizia e libertà occorre concentrarsi non solo sui diritti dei deboli, ma anche, e soprattutto, sui doveri dei forti. Ma come è possibile diffondere un’etica kantiana, che postuli non tanto diritti universali quanto doveri universali, in un mondo in cui chi gode di più privilegi continua a sostenere che il proprio tenore di vita non è negoziabile? Già oggi la formula dello «stile di vita non negoziabile», usata da Bush padre nel 1992 durante la conferenza Onu di Rio de Janeiro, non tiene più. Nel corso della storia la giustizia non è mai opera del solo idealismo, ma della combinazione di idealismo e forza delle cose. Oggi la forza delle cose suggerisce la necessità di dimezzare le emissioni globali e per farlo bisogna convincere anche gli «altri», quegli altri che, come Cina e India, ogni anno acquisiscono un maggiore potere di negoziazione. Credo di non esagerare nel sostenere che ormai la politica ufficiale europea dia per scontato il fatto che lo stile di vita sia negoziabile: l’affermazione di Bush appartiene all’era fossile. L’Europa, secondo gli auspici del Wuppertal Institut, dovrebbe abbandonare la lealtà transatlantica e «presentarsi come portatrice del progetto di una società cosmopolitica, i cui pilastri si chiamano cooperazione, diritto ed ecocompatibilità». Sembra però che la strada da compiere sia ancora molto lunga… È una scommessa. Ci sono spinte che vanno in questa direzione ma anche in senso contrario. Nel caso dell’Europa mi sembra siano da evidenziare due linee di conflitto: la prima spaccatura, piuttosto evidente, è tra i paesi ex comunisti, che tendono ad apprezzare di più la libertà di mercato e a ridimensionare il ruolo dello Stato, e i paesi per così dire fondatori. L’altra spaccatura, troppo poco tematizza, è quella tra la politica ambientale e quella commerciale. L’interessante politica ambientale europea viene usata anche come uno strumento attraverso il quale dotare l’Europa di un profilo mondiale più riconoscibile, e rimanda alla necessità di individuare limiti e cambiare modelli di produzione e consumo; la politica commerciale invece è in contrasto rispetto a quella ambientale e riflette in gran parte le indicazioni del Wto: è un modello di libero mercato che non tiene in gran conto bisogni e diritti, interessato al predominio economico dell’industria europea e ossessionato dalla concorrenza con gli Stati Uniti e la Cina. Torniamo alla «polarità principale» individuata in «Per un Futuro equo»: «da un lato il desiderio di uguaglianza e dignità delle persone e delle società è rivolto ai modelli di benessere dei paesi ricchi», dall’altro «la finitezza della biosfera impedisce di trasformare lo standard di vita del Settentrione in un modello di giustizia». Una delle possibili vie d’uscita suggerite è racchiusa nel modello concettuale di «convergenza e contrazione». Ce lo spiega? Partiamo dalla contrazione, che su un grafico apparirebbe come una curva discendente. Nel giro dei prossimi cinquant’anni i paesi «grassi», quelli che consumano molte risorse devono ridurre il consumo. Dall’altro lato molti paesi hanno la necessità e il diritto di ottenere di più anche in termini di uso delle risorse, aumentandone il consumo, entro un limite generale valido anche per loro; la loro curva nei prossimi cinquant’anni sarebbe in leggero rialzo, con un’ascesa che convergerebbe poi con il livello minimo dei paesi grassi. Tuttavia, se il discorso su convergenza e contrazione è ancora corretto nel suo complesso, quando lo abbiamo articolato, un paio di anni fa, non ci eravamo resi conto di un aspetto essenziale: per quanto riguarda le emissioni di CO2, anche se il nord drasticamente e abbastanza velocemente finisse di usare l’atmosfera come una discarica non rimarrebbe molto spazio per i paesi recentemente industrializzati. Se dovessimo rifare oggi quello schema, dovremmo essere molto più cauti.

Giuliano Battiston,Intervista a Wolfgang Sachs, allievo di Ilichultima modifica: 2008-06-05T17:11:15+02:00da mangano1
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