Luisa Morgantini, La comunità Rom di Monte Mario

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da LIBERAZIONE, 5luglio 2008

A Monte Mario, nel campo dei Khorakhanè, la scoperta di un mondo violato

Luisa Morgantini
Roma, quella danza dei Rom
contro gli eterni pregiudizi
Storie di ingiustizia e dignità

A Monte Mario, nel campo dei Khorakhanè, la scoperta di un mondo violato

Sono andata al campo di Monte Mario, a Roma Nord, abitato dal 1983 dalla Comunità Rom Khorakhanè proveniente dalla Bosnia-Erzegovina anzi da Mostar, per presentare “Treni strettamente riservati”, un film scritto e diretto da Emanuele Scaringi, premiato dal Parlamento Europeo, che parla dell’integrazione dal punto di vista del contatto quotidiano delle migliaia di pendolari che ogni mattina raggiungono Roma in treno e che spesso dividono lo stesso scompartimento con i rom e tra questi, come protagonisti vi erano anche alcuni degli abitanti del campo di Monte Mario.
E’ stata per me una festa ed un emozione profonda: accanto a me una donna possente, Umiza, e una giovane donna determinata, Vania Mancini, coordinatrice Arci del Progetto di scolarizzazione dei minori rom per l’XI Dipartimento del Comune di Roma. Insieme a noi altri operatori sociali, della Caritas, dell’Arci, e il regista del film. Davanti i bimbi del campo, vivaci, violenti, dolcissimi, e poi la ragazze, belle, sospettose, fiere. Eccole le zingare, le ho sempre sentite sorelle fin da quando mia madre mi chiamava la “mia zingara” e al mio paese arrivavano le giostre ed io volevo fuggire con loro.
Mentre discutevamo dei diritti violati dei rom, si diffondeva nel campo il profumo intenso che sentivo in Serbia e in Bosnia quando si preparava la carne arrosto o gli involtini di verza ripieni. Sì perchè dopo il “dibattito” le famiglie rom del campo hanno preparato la cena per noi “gagè”. Il campo rom non era come me l’aspettavo, roulotte, terreno incolto; invece no, un campo attrezzato con casette e piante e verde. E mi raccontava Vania, le donne lavorano per il riciclo, vanno in giro per i cassonetti dell’immondizia raccolgono oggetti o vestiti buttati, li lavano e poi rivendono al mercatino del quartiere. No non tutto perfetto, liti furibonde, mariti ubriachi, donne picchiate, vite difficili insomma. Ma non il degrado e da un punto di vista economico, è bastato poco al Municipio per attrezzare con acqua, luce, bagni e case di legno un campo che ospita circa 200 persone, più della metà minorenni. Presenti in Italia dagli anni ’60, la maggior parte di loro non ha documenti, inclusi i bambini che sono nati in Italia e che il Ministro Maroni vorrebbe “proteggere” schedandoli e prendendo loro le impronte digitali invece di offrire istruzione, case, lavoro, unico modo per vincere l’accattonaggio e la piccola criminalità. L’Arci da molti anni porta avanti un progetto di scolarizzazione, che nelle mille difficoltà continua però a dare frutti positivi. Al parlamento Europeo come parlamentari del gruppo del Prc su questa follia del Ministro Maroni, che viola la dignità della persona e dei minori, abbiamo presentato un’interrogazione alla Commissione Ue.
Ma vorrei condividere alcune storie di vita, storie di ingiustizia, di esclusione e ghettizzazione, ma anche storie positive che mostrano l’impegno, il valore e la dignità dei rom sul nostro territorio, storie che mi ha fatto conoscere e le sono molto riconoscente, Vania Mancini che, abitante di quel quartiere, curiosa di quelle persone dietro quel muro si dedica a loro con amore e rispetto.

Umiza e il mercatino dell’usato
Umiza, 40 anni, nata a Mostar, prima donna eletta portavoce del campo, dice di essere una rom un po’ atipica: “la gente tende a considerarmi come uomo, forse perché sono la capofamiglia, ho dovuto crescere da sola i miei due figli, mio marito non c’era mai e mi sono dovuta rimboccare le maniche”.
La famiglia di Umiza, così come i tanti e le tante Rom sono venuti in Italia a causa della povertà; non bastavano al loro sostentamento le carovane estive dei gitani, con carrozze e cavalli in giro per i villaggi dove offrivano manodopera come maniscalchi, fabbri, o lavori di ogni genere in cambio di cibo, lana e qualche soldo: “Ci spostavamo perché ci piaceva proprio girare, andavamo ovunque. Oggi, da quando si è persa la nostra antica arte di artigiani, non siamo più utili a nessuno, non siamo più nomadi, siamo chiusi in ghetti, siamo come cani che si sentono al sicuro solo dentro la loro cuccia, fuori ci sentiamo prede, bersagli”.
Umiza, ha due figli e un marito detenuto in carcere da 15 anni: si sveglia tutte le mattine alle cinque, si prepara e va con una carrozzina in giro per il quartiere, gira tutti i cassonetti, tanti italiani le portano direttamente le buste con cose usate da mettere o rivendere. Verso le 13 torna a casa, si lava, prepara il pranzo per i figli, poi nel pomeriggio, sistema tutte le cose che ha trovato, le pulisce, le ripara e le sistema per rivenderle la domenica.
“L’idea mi e’ venuta tanto tempo fa -spiega- ero senza soldi e con quelli che riuscivo a prendere con l’elemosina non ce la facevo più a vivere. Mi vergognavo, ma presi coraggio e andai al mercato di Monte Mario con le mie cose, improvvisai un banchetto e con mio grande stupore riuscii a rimediare 40 mila lire di allora. Piano piano coinvolsi la mia famiglia e successivamente tutto il campo. Sono ormai anni che l’esperimento è riuscito e ogni domenica facciamo il nostro mercatino, riciclando quello che troviamo, sia ripulendo cantine per conto di italiani, sia cercando nei cassonetti”.
Il mercatino meriterebbe di essere regolarizzato da parte del comune, riconoscendo al contempo una pratica utile che andrebbe diffusa e sostenuta da tutte e tutti noi e valorizzando un esempio positivo che aiuta l’integrazione nel quartiere.

I bambini rom, prigionieri invisibili
Invisibili prigionieri all’interno delle nostre città, non avendo documenti i rom sono costretti ad utilizzare prestanome per qualsiasi attività, per una tessera di un telefonino come per pagare l’assicurazione di un furgone. In alcuni casi finiscono per essere schiavi degli italiani (brava gente) che i documenti li hanno e ne abusano. Ma purtroppo spesso a pagare il prezzo più alto sono come sempre i minori.
In tutta Roma almeno 2000 bambini sono seguiti e coinvolti in progetti di scolarizzazione sostenuti e voluti dall’amministrazione comunale in collaborazione con l’Arci Solidarietà del Lazio: i minori frequentano i corsi in 250 istituti della capitale, tra scuole dell’infanzia, elementari e medie e qualcuno va anche alle superiori. Nel Campo di Monte Mario negli ultimi anni si è registrato un incremento delle iscrizioni ed un aumento della frequenza in tutti e tre gradi d’istruzione.
Ma anche qui sono insormontabili i prevedibili problemi burocratici quando non si ha un’identità certificata: senza documento non si può sostenere la maturità, che è un esame di stato; non ci si può diplomare negli Istituti tecnici, che molti ragazzi rom frequentano, perché il periodo obbligatorio di pratica sul posto di lavoro richiede il libretto di lavoro, impossibile da ottenere senza un riconoscimento dell’identità. Lo stesso vale per chi frequenta le scuole alberghiere, come Indiana, figlia di Umiza: “Mi piaceva andare a scuola ma dopo la terza media, ho frequentato la scuola alberghiera e ho avuto molti problemi: non mi volevano fare la tessera sanitaria che era obbligatoria per partecipare alle lezioni, perché non avevo un documento. Poi nel campo avevo difficoltà a studiare, spesso c’erano le retate dei carabinieri o della polizia o dei vigili anche alle 4 del mattino. Per ‘accertamenti’, dicevano, portavano via con i pullman i nostri genitori: io e mio fratello da piccoli avevamo sempre paura, lui per un periodo non ha più parlato dopo aver visto che prendevano mio padre, che lo trattavano male. Ora ho paura che si spaventi la mia bambina che ha solo due anni, ho paura che qualcuno me la porti via o ci divida perché non abbiamo i documenti”.

Ivan, Corona, Veronica, Tyson e Gevada
Sono cinque bambine e bambini rom che vivono nel campo di Monte Mario di età compresa tra i 6 e gli 11 anni affetti da deficit acustico. Tutte e tutti – chi più chi meno- vanno a scuola, ma per loro non avere documenti è ancora più drammatico: per quattro di essi la patologia è stata certificata con diagnosi funzionale dalla Asl territoriale che ha attivato una terapia specifica. Tuttavia rimangono enormi le difficoltà – denunciate dall’Arci Solidarietà Lazio- dovute al disagio in cui versano le famiglie e alla mancanza di documenti. Veronica ad esempio è iscritta alla prima media, presenta difficoltà di inserimento e di apprendimento. Questa situazione si complica a causa della mancanza delle protesi acustiche e alla frequenza saltuaria per problemi legati alla situazione familiare: Veronica è la maggiore di cinque figli e spesso si occupa dei fratelli, due dei quali sono molto piccoli. La famiglia non mostra particolare attenzione alla cura del deficit acustico della figlia che invece avrebbe bisogno di maggiori cure e protezione e soprattutto delle protesi. Questi bambini avrebbero tutti bisogno di un sostegno diretto dalle Istituzioni di cui indirettamente poi beneficerebbero anche le famiglie d’appartenenza: senza documenti, però, l’iter per l’assistenza e il sostegno risulta più lungo e difficile, se non impossibile.

Senza documento non si balla…
Stella ha nove anni e le sue materie preferite sono Italiano e Matematica. A scuola però non parla molto e non ha legato tanto con i compagni perché si vergogna, la prendono in giro e allora “Me ne sto in disparte ma continuo ad andare”, dice. Solo i laboratori di musiche e danze rom condotti dentro le scuole con le altre bambine del campo la fanno sentire importante: “abbiamo anche insegnato alle compagne di classe italiane i nostri movimenti della danza del ventre…è bellissimo, tutti vogliono imparare, per noi è un movimento naturale. Quando ballo sono felice perché posso far vedere ai gage’ qualche altra cosa di noi Rom, mi aiuta a farmi accettare di più e sono fiera”.
Stella è solo una delle ‘ragazze che ballano’ del gruppo “Chejà Celen”, costituito dalle bambine del Campo Nomadi di Monte Mario nel 2000 grazie a Vania Mancini e al Progetto ARCI di scolarizzazione dei minori rom. All’interno dei laboratori scolastici di integrazione le bambine hanno avuto la possibilità di esprimersi e di far conoscere un aspetto importante della loro cultura, la loro danza, simile alla danza del ventre che le donne rom si tramandano di madre in figlia. Così esprimono la loro vitalità, emotività e la loro vocazione artistica. Le “Ragazze che ballano” sono state invitate a molti festival di danza in Italia, in Francia, in Germania e addirittura in India. Non andranno però perché è impossibile attraversare la frontiera senza i documenti ed è sempre più difficile partecipare anche ai festival nel nostro paese senza correre il rischio di esporre troppo le ragazze, in caso di controlli, e anche gli operatori all’accusa di ricettazione.

E non ci si sposa
Rambo Halilovic è nato a Roma e ha 23 anni. La famiglia vive da oltre trent’anni nel campo di Monte Mario: nel quartiere ormai lo conoscono e lo salutano tutti tanto che alcuni alimentari e bar gli fanno credito. “Dopo quattro anni di attesa mi è stato rilasciato un permesso di soggiorno e credo di essere l’unico in campo ad averlo”, racconta. “Vivo con la mia ragazza che si chiama Elisabetta ma non posso sposarla perché non ha i documenti: a lei dispiace tantissimo anche perché abbiamo due figli e ci amiamo molto. Ad Elisabetta dispiace che i nostri figli non risultano anche suoi: ha paura che un giorno qualcuno possa portarglieli via, perché non c’è scritto da nessuna parte che sono i figli suoi e ogni volta che viene un controllo al campo ha una crisi isterica e vorrebbe scappare, perché ci chiedono i documenti e noi non li abbiamo”.
Per vivere Rambo raccoglie il ferro e lo rivende al mercatino della domenica: “ho un camioncino, mi alzo alle sette, ci facciamo il caffé alla turca. Elisabetta prepara i bambini e andiamo in giro tutta la giornata per Roma a caccia di ferro, spesso ci mettiamo direttamente davanti alle discariche: per noi la spazzatura è oro, i nostri genitori ci hanno insegnato a fare il riciclaggio, a dividere i materiali dalle cose che gli altri buttano, così in una padella, in una lavatrice o in un frigorifero, si possono recuperare piombo, ferro, zinco, rame”.
Rambo racconta che da quando ha comprato il suo camion si sente un signore: “E’ regolare, certificato dai continui controlli di vigili e carabinieri che vengono nel campo a qualsiasi ora di giorno e di notte. Ora vogliono prendere anche le impronte digitali ai nostri bambini, come se noi non fossimo gia tutti schedati continuamente dai controlli che ci fanno da quando sono nato. I miei bambini non hanno neanche tre anni, non hanno mai commesso nessun reato e neanche io e la mia ragazza abbiamo precedenti penali! Ho un bellissimo rapporto con i miei figli se non li volevo non li facevo, ne ho due e mi bastano, se sono troppi non li seguo bene ma se Dio ci aiuta di più, magari vinco al superenalotto e faccio più figli… Con Elisabetta sono felice: anche se mi strilla vorrei tanto sposarla e renderla felice, perché io l’amo e pure lei a me!”
Secondo le ultime stime, a Roma i rom non supererebbero le 15,000 unità di cui oltre la metà sono minori. Di questi tra le 5000 e le 6000 persone non hanno nessuno status, non esistono né per gli archivi italiani né per le anagrafi dei paesi d’origine. Perché invece di pensare alle schedature non si fa un piano per assicurare documenti e la possibilità di una vita dignitosa? Perché invece di ricorrere a misure repressive e discriminatorie, non proteggere quei bambini garantendo il diritto alla cittadinanza, all’istruzione, alla salute e anche il diritto all’infanzia, al gioco e alla danza?

Luisa Morgantini, La comunità Rom di Monte Marioultima modifica: 2008-07-06T17:06:48+02:00da mangano1
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