Emanuele Trevi, Hemingway. splendori e miserie di un corpo

8d9b4a1b331c4668821b4d030541a1bf.jpgdal manifesto del 13 Luglio 2008Dal mito HEMINGWAYNell’importanza di chiamarsi Hemingway, la biografia dello scrittore americano redatta da Anthony Burgess sulla base di foto leggendarie, e tradotta da minimum fax. È il trionfo della visibilità, con tutte balle che l’hanno nutrita. All’altro estremo del bovarismo moderno, l’autore senza volto esemplificato da Pynchon SPLENDORI E MISERIE DI UN CORPOEMANUELE TREVIarà anche a causa dello stinto bianco e nero dell’apparato iconografico, ma L’importanza di chiamarsi Hemingway di Anthony Burgess (minimum fax, pp.188, euro 13,00) è un libro tristissimo, quasi scoraggiante, che si legge con un disagio crescente e inarrestabile. Non che l’autore di Arancia meccanica riveli, sulla vita di Hemingway, cose che non sapessimo. Pubblicata nel 1977, la stringata biografia di Burgess rielabora in maniera perfetta un modello letterario di vita breve che vanta un’illustre tradizione moderna, a partire da certi insuperati modelli illuministi (un esempio per tutti: la Vita di Voltaire di Condorcet). È l’esatto opposto della biografia erudita, che non sdegna, almeno in teoria, i dettagli più insignificanti, procedendo per accumulo. Burgess si serve di simili lavori dedicati a Hemingway per acquisire la necessaria documentazione; ma al momento di dar forma al suo racconto, punta all’osso, alla sintesi rivelatrice, all’efficacia narrativa, non troppo diversamente da come procede un romanziere con un personaggio d’invenzione. E ben si comprende che uno scrittore come Hemingway si presti meglio di chiunque altro all’esperimento. Trofei in forma di pesci e toriDa un lato, a interessare Burgess c’è la pulsione autobiografica che innerva romanzi e racconti, da Addio alle armi al postumo Isole nella corrente. In questo campo, la confessione e la mistificazione, anziché elidersi a vicenda, procedono di pari passo, tra fallimenti e sublimi conquiste artistiche. Ma ovviamente, trattandosi di Hemingway, nessuno sarebbe in grado di schivare l’altra opera dello scrittore americano, intento a plasmare un’immagine di sé con altrettanta tenacia e perseveranza di quelle impiegate nel lavoro della scrittura. Alcuni aspetti di questa ulteriore creazione, nel segno della vita come opera d’arte, potranno anche coincidere con determinate zone dei romanzi e dei racconti; ma la maggior parte di questo lavoro rimane estraneo ai libri, irriducibile al potere di astrazione e simbolizzazione della scrittura. Morto l’uomo, suicidatosi con un colpo di fucile in fronte il 2 luglio del 1961, rimangono tutte le testimonianze del mito biografico, e tra queste le fotografie possiedono – non si può negarlo – un grado particolare di immediatezza e forza di convinzione. Mentre leggiamo il libro di Burgess, ci rendiamo conto che l’iconografia non è un semplice complemento del discorso. Semmai, Burgess, senza mai dichiararlo apertamente, sembra scrivere non tanto una vita di Hemingway quanto un commento a una folta serie di fotografie. Più di quindici anni dopo la morte di Hemingway, sono diventate quelle fotografie il più credibile e seducente sostegno al mito biografico. A quel mito danno la forma e il senso della storia di un corpo, descritta nella sua fase ascendente fino alla gloria dei trent’anni, e poi lungo tutta l’impietosa curva del declino. Eccolo, Ernest, giovanissimo in tenuta da pesca sul lago Michigan, con delle prede incredibilmente piccole se si pensa ai marlin e ai pesci spada pescati nelle acque caraibiche qualche decennio dopo; ed ecco l’Italia in guerra del 1918, i feriti e gli accampamenti sul fronte del Piave; l’eroe sulle stampelle dopo aver rimediato la famosa ferita alla gamba; ed ecco la Parigi degli anni ’20, con la sagoma di Joyce elegante ed esilissima, e gli scaffali della Shakespeare and Co. di Sylvia Beach; e naturalmente i tori scatenati nelle strade di Pamplona, il giorno della festa di San Fermìn. E dopo innumerevoli immagini di tori e di corride, arrivano i primi pesci grossi pescati a Key West, le prime tre mogli tutte di St. Louis, i morti per le strade di Madrid nel 1936, Gregory Peck nel film del 1952 tratto dalle nevi del Kilimangiaro (all’interno del mito biografico, le immagini del cinema sono come un rizoma, una mistificazione secondaria), e poi di nuovo la Storia, con Ernest che sbarca in Normandia e conquista Parigi al comando di una specie di esercito privato di partigiani. La curva discendente ha a disposizione immagini altrettanto intense, per esempio un ritratto del 1960 faccia a faccia con un Fidel Castro talmente ruspante da sembrare decrepito. C’è poi, verso la fine, un’immagine struggente e poco conosciuta, la foto di una gita alla diga di Yesa, vicino Pamplona, scattata durante un viaggio in Spagna del 1959. A torso nudo, il vecchio orso conserva, grazie all’imponenza, qualcosa dell’antica fierezza. Ma non basta a nascondere il disfacimento generale. Chi conosce l’intelletto caustico e britannicamente anti-retorico di Burgess immaginerà facilmente che il biografo non si risparmia, commentando questa notevole galleria, nessuna frecciata ironica. E il destro gli si offre fin troppe volte, ovviamente. Ma è pur vero che in Burgess, in una maniera abbastanza singolare e propria del grande scrittore che è, l’ironia convive con l’ammirazione, che è altrettanto intensa e ben mirata. È un’ambivalenza che da Burgess si riflette facilmente sui lettori. Nulla è più vero di quel pensiero di Schopenhauer che definisce tragicomica l’essenza della vita umana. Bisogna anche aggiungere che il tipo di follia che fa da presupposto alla costruzione della vita come opera d’arte non è di quelli che si consumano in solitudine. Affine in questo all’isteria, il mito biografico è un sintomo, se vogliamo chiamarlo così, che presuppone un pubblico. Tendenzialmente, bisogna aggiungere, questo pubblico è composto di potenziali imitatori, pronti a smembrare le parti del mito per riviverle all’interno delle proprie possibilità. La mediazione di Burgess è molto convincente, ma rimane un fatto individuale, mentre la forza del mito è tale perché si rivolge a una moltitudine d’individui, ognuno con la propria maniera di intenderlo e subirne l’irradiazione. Resta il fatto che chi legge L’importanza di chiamarsi Hemingway tiene in mano un tassello significativo di una storia ben più ampia: una storia i cui protagonisti sono il romanzo e il romanziere, la sensibilità sociale e quella individuale, il desiderio e la noia. Si capisce solo dai suoi principali personaggi che questa è una storia importante. È la storia del bovarismo, inteso come categoria fondamentale della sensibilità moderna, come patologia la cui durata e resistenza è connessa a un’infaticabile capacità di metamorfosi. A Madame Bovary ben si addice l’aver dato il nome a un fenomeno di cui le sue tristi vicende sono l’incarnazione perfetta. L’eroina di Flaubert è dominata dall’insoddisfazione e non sa fare i conti con l’inevitabile noia che la vita porta con sé.Nell’immaginario dei romanzi sentimentali e dei libretti d’opera riconosce una possibile compensazione: è lì, in quel mondo fuori della sua portata che l’esistenza può essere riscattata dalla sua grevità, inerzia, sostanziale penuria. Ancora più in profondità, l’immortale creatura di Flaubert intuisce che l’immaginario romanzesco è l’unico luogo in cui l’eros può trovare il suo pieno appagamento. A perderla, con la fatalità di una tragedia, saranno le conseguenze di un’illecita confusione. Perché i contenuti del romanzo, trapiantati nell’arido e impoetico terreno della vita reale, sono come bombe a orologeria pronte a far deflagrare tutta la loro impossibilità. Da apoteosi dell’amore romantico, l’adulterio si trasforma in uno scandaletto di provincia. Spietata e precisa come un referto legale, la diagnosi sociale di Flaubert interpreta l’immaginario come una potente minaccia all’ordine delle cose. Rielabora così un tema polemico antichissimo, che risale almeno ai Padri della Chiesa, ma depurandolo di ogni moralismo. Semplicemente, intende isolare un virus, e lo fa con una tale forza di persuasione da rendere addirittura leggibile il passato alla luce delle sue intuizioni. Trama di una esistenza La triste sorte di Madame Bovary ci rende, ad esempio, più comprensibile quella del suo più illustre antesignano e vittima del morbo romanzesco: Don Chisciotte. E da lì, sarà facile arrivare perlomeno alla Francesca da Rimini di Dante. Spiriti intrappolati in un’esistenza-prigione che il confronto con la vita fittizia dei romanzi rende intollerabile, tra noia e frustrazione. La maggiore forza di Flaubert (non a caso ancora oggi il termine bovarismo non è stato sostituito) consiste nell’assoluta precisione di un quadro sociale che si sovrappone, complicandolo, all’anatomia del carattere individuale. Eppure, se i libri ricchi di futuro come Madame Bovary si contano sulle dita di una mano sola, è pur vero che il capolavoro di Flaubert, da un altro punto di vista, chiude un’epoca – la potremmo definire quella del bovarismo classico. Come gli amanti di Dante, come Don Chisciotte, Emma Bovary desidera vivere la vita dei personaggi dei romanzi che legge. A questa schiatta di illustri vittime dell’immaginario, l’artefice di quei romanzi non interessa affatto. Che esista un autore di quelle storie che tanto li ammaliano e corrompono, fino a spossessarli di sé, è ovvio. Ma l’esistenza di un autore, di un romanziere non suscita in loro nessun reale investimento emotivo, nessuna proiezione. Se avessero proposto a Don Chisciotte di diventare l’autore di uno dei romanzi cavallereschi che lo hanno condotto alla follia, magari non avrebbe disdegnato l’offerta, ma certo la sua condizione di scrittore non sarebbe stata un rimedio sufficiente alla noia che lo corrode. Proprio ai tempi di Flaubert, però, l’asse del desiderio bovaristico si sposta, determinando un’autentica rivoluzione della sensibilità, i cui effetti sono evidenti ancora oggi. Non sono più solo i personaggi delle storie a godere di un’esistenza più desiderabile, più ricca di senso, più erotica di quella dei loro lettori. Questa componente «ingenua» del bovarismo si complica dal momento in cui anche il romanziere, e la sua vita, diventano oggetti del desiderio, mitologie sociali, potenti modelli da imitare. La vita di Hemingway raccontata da Burgess ci mostra il processo in una fase ormai matura, quando le foto dei rotocalchi articolano alla perfezione le tappe del mito – scandito nei due tempi fondamentali dell’Ascesa e del Declino. È difficile stabilirlo con sicurezza per ciò che riguarda Hemingway, ma di sicuro, in questa nuova fase storica del bovarismo, la vita del romanziere è sottoposta a un tale investimento libidico collettivo da sopravvivere più facilmente, e più universalmente, della sua stessa opera. Ovviamente, questo investimento non è in linea di principio appannaggio del romanziere: ogni specie di artista, dal pittore al divo del cinema, produce la sua mitologia. Ma c’è qualcosa, nel tessitore di storie, dotato di un alone quasi numinoso. Trasformando l’esistenza in trama, il romanziere si affaccia nell’immaginazione collettiva con i crismi del nuovo alchimista, capace di trasformare la materia vile dell’esperienza nell’oro di una trama. Da questo punto di vista, egli è un uomo come noi, se si eccettua il fatto che riesce proprio dove la maggior parte dei suoi simili fallisce. E questo potere, evidente nei libri, non può che affondare le sue radici nella vita. Mediante un’ulteriore raffinatezza, poi, l’eventuale assenza e volontaria obliterazione delle tracce rafforzerà questa mitologia anziché distruggerla. Il caso di un Thomas Pynchon è il più emblematico proprio perché Pynchon sembra l’esatto contrario di Hemingway. Alle migliaia di immagini di quest’ultimo si contrappongono, del primo, solo due o tre foto di un ragazzo magro, con gli incisivi prominenti. Poi, il buio più totale, foriero di illazioni e leggende metropolitane di ogni tipo. Fanno un po’ pensare, queste rarissime immagini di Pynchon, alle foto segnaletiche dei grandi latitanti di mafia, volti giovani di persone sparite nell’ombra per decenni, magari invecchiate al computer per facilitare le ricerche. Si capisce bene che una biografia di Pynchon sarebbe un testo impossibile, una sorta di contraddizione in termini. Probabilmente, nella decisione di sparire ha contato la volontà di far parlare esclusivamente i libri, sottraendosi alla mitologia dell’artefice. Ma una cosa sono i risultati, un’altra le intenzioni. Perché il bovarismo contemporaneo si nutre tanto dell’eccesso di testimonianze e di segni quanto della loro totale cancellazione. E il potere di persuasione che si annida nel segreto e nell’invisibile è addirittura più efficace dell’ostentazione divistica dei dettagli della vita privata. È facile prendere in giro Hemingway, quando racconta di essere stato a letto con Mata Hari. Basta confrontare le date, e scopriamo la balla: Ernest arrivò la prima volta in Europa nel 1918, un anno dopo la fucilazione della bella spia. Ma di qualcuno che, per quello che ne sappiamo, potrebbe essere chiunque e aver fatto qualunque cosa, non ci possiamo liberare così facilmente. Annidato nel suo mistero, il romanziere senza volto è la mistificazione terminale, l’ultima tappa di una storia sociale e psicologica destinata a durare, si direbbe, oltre ogni disincanto.i

Emanuele Trevi, Hemingway. splendori e miserie di un corpoultima modifica: 2008-07-14T17:24:03+02:00da mangano1
Reposta per primo quest’articolo