MARCO BELPOLITI: Nel paradiso delle spie

525687395.jpgUn segreto noto a due persone non è più un segreto», così scriveva all’inizio del XX secolo Georg Simmel nella sua Sociologia, e non si può dire che si sbagliasse di molto leggendo nei giornali italiani le affermazioni di Giuliano Tavaroli, grande orecchio Telecom: il segreto non esiste. È sempre stato così. In effetti il racconto di Tavaroli si presenta come il plot di un ulteriore volume della Commedia umana di Balzac, rivisto e corretto, e con i debiti aggiornamenti dell’oggi. Nel suo J’accuse Tavaroli pronuncia anche una parola, «rispettabilità», sostenendo che si tratta del bene più prezioso. Di più: è la chiave stessa della «sicurezza». E non è un caso che l’etimo della parola significhi «guardarsi dietro», che è poi l’attività stessa di chi spia, intercetta, costruisce dossier.
Eppure c’è qualcosa di nuovo e di diverso, in questa faccenda di spioni elettronici, che la rende radicalmente diversa rispetto al passato. Roland Barthes ha distinto tre differenti forme d’ascolto nel corso della storia umana. L’ascolto degli indizi sonori, proprio dei nostri progenitori, animali e primati: l’ascolto come allarme. Poi l’ascolto come decifrazione: decifrare e interpretare. E infine l’ascolto «applicato», ovvero l’atto intenzionale, fenomeno del tutto contemporaneo. Questo tipo d’ascolto è aperto a tutte le possibili forme d’ascolto ed è reversibile: non c’è più da una parte chi si confida, confessa, racconta nell’intimità, e dall’altra chi ascolta, tace, sanziona, valuta. Oggi ciascuno è nello stesso tempo ascoltato e a sua volta ascolta.

L’«ascolto libero» di Barthes
La contemporaneità è il paradiso delle spie? Probabilmente sì. Barthes parla di «ascolto libero», un ascolto che circola e scambia, quindi disgrega con la sua mobilità la rete rigida degli antichi luoghi d’ascolto: il carcere, il confessionale, la camera da letto. La nostra è l’epoca dell’«ascolto intersoggettivo», in cui le società disciplinari – quelle dell’ascolto unidirezionale – sono state sostituite dalle società di controllo, come ha sottolineato Gilles Deleuze: viviamo nel multidirezionale. Ai luoghi tradizionali dell’ascolto (ospedale, fabbrica, scuola, famiglia) si sostituisce l’ascolto a rete, in ogni direzione: il satellite, ma anche le masse come campione, per cui i sondaggi o i dati raccolti attraverso le «carte» sono ascolti, spiate legali. Questo significa che non c’è via di scampo, che siamo tutti destinati all’intercettazione continua?
Il grande direttore d’orchestra Wilhelm Furtwängler negli anni Cinquanta ha teorizzato una forma di «ascolto a distanza», il «teleascolto»: quando si ascolta un brano musicale classico, Mozart o Bach, diceva, si è concentrati sull’istante, sulla singola nota o gruppo di note, e tuttavia non si perde di vista l’intero brano, l’ascolto d’insieme. Furtwängler sosteneva che l’opera si «sovrascolta» anche a distanza, nell’insieme. Nella musica contemporanea, nel jazz, e poi nella musica rock, questo tipo d’ascolto non c’è più: le nostre orecchie vengono colpite in ogni direzione. Si tratta di un tipo d’ascolto simile a quello dell’ascolto animale di cui parla Barthes.
L’unica possibilità per salvarci
Peter Szendy, un musicologo francese, in un volume singolare, Intercettare. Estetica dello spionaggio (Isbn), sostiene che l’ascolto dello spione è di questo tipo: ascolto da caccia. Non ha la capacità di cogliere l’intero insieme, non «sovrascolta». Le sue orecchie, scrive Szendy, interrompono il compito di attenta sorveglianza «sulla soglia di una totalità la cui portata non è accordata loro, sebbene sia l’unica in grado di trasfigurare i dettagli raccolti illuminandoli restrospettivamente di senso». Coglie un insieme composto solo di dettagli e gli sfugge il senso generale. D’altro lato, anche lui è ascoltato, come scopre Henri Caul, il protagonista del magistrale film di Coppola La conversazione(1974). Henri, che non parla quasi mai, raccoglie «voci», informazioni, ed è confinato in un contesto il cui orizzonte generale gli sfugge.
Questo è il vero problema delle spie contemporanee: ricostruire la tela d’insieme. Purtroppo non è solo un problema per le spie, lo è anche per noi, dato che questa partitura, lo schema generale, non esiste più, o se esiste, è difficile da cogliere. Ci smarriamo nella grande congerie dei dettagli, nei dettagli dei dettagli, e la verità ci sfugge di mano. Forse l’unica possibilità per salvarci non è tacere, tenere il segreto solo per noi, cosa impossibile, ma fare come il personaggio interpretato da Robert Redford nei Tre giorni del condor(1975): oscuro lettore di libri, uomo periferico di un ufficio della Cia, s’imbatte un giorno per caso in un segreto criptato celato in un libro. Uccidono tutti nel suo ufficio per questo, e lui scampa per caso. Fugge ed è inseguito. Caduto in una trama più grande – sono i servizi deviati, sempre loro! – è costretto da «ascoltatore strutturale» a diventare spia, a votarsi ai dettagli. Sono i dettagli che lo salvano, ora dopo ora. Un futuro da spie per tutti? Molto probabile, poiché, come ci ricorda Szendy, è l’ascolto stesso che porta con sé, quale suo doppio, la spia, il Tavaroli di turno.
MARCO BELPOLITI: Nel paradiso delle spieultima modifica: 2008-07-25T16:24:54+02:00da mangano1
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