Agenzia Asca, Le infibulazioni in Italia

infibula3.jpgDonne: Italia Paese Ue Con Maggior Numero Di Infibulazioni
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(ASCA) – Roma, 21 nov – L’Italia e’ uno dei Paesi membri dell’Europa con il
piu’ alto numero di donne infibulate. A rivelare ”l’inquietante” dato sulle
mutilazioni genitali femminili e’ stata stamane l’eurodeputato Roberta
Angelilli, rappresentante del Forum europeo per i minori e delegato del
sindaco di Roma per i diritti dei minori durante il workshop ”Mutilazioni infibulazione2.jpg
genitali femminili. Che fare?”, organizzato nella sala del Carroccio in
Campidoglio. Secondo gli ultimi dati Istat sulla presenza di donne straniere
residenti in Italia al dicembre 2007, si contano, infatti, 67.988 donne
provenienti da Paesi a tradizione scissoria e quindi potenzialmente a rischio
(Egitto, Ghana, Costa D’Avorio, Eritrea, Burkina Faso, Etiopia, Camerun,
Somalia, Guinea, Sudan, Kenya, Sierra Leone, Niger, Mali, Repubblica
Centrafricana). Di queste donne, circa 40mila, e’ emerso nel corso dei lavori,
sono state gia’ sottoposte alla pratica di infibulazione e ogni anno, 6mila
bambine, tra i 4 e i 12 anni, rischiano di essere sottoposte a questa pratica
illegale. Le comunita’ provenienti da questi Stati sono concentrate soprattutto
nelle grandi citta’ del nord (Milano, Torino, Bologna) e a Firenze e Roma. Nel
Lazio, in particolare, vivono circa 29mila donne provenienti dall’Africa e di
queste, circa 10 mila provengono da Paesi nei quali e’ diffusa la pratica delle
mutilazioni genitali femminili. A Roma e provincia, nello specifico, le donne a
rischio di mutilazioni genitali femminili sono circa 8.500.

Eppure Se ne parla da dieci anni…..

La Repubblica, 12 febbraio 2000

Roma – L’Italia è ormai il primo paese in Europa per il più alto numero di
donne infibulate. Tra le 20 e le 30 mila donne immigrate hanno subito una
mutilazione genitale e circa 5 mila bambine rischiano la stessa sorte. Per la
prima volta dei medici italiani stanno per pubblicare uno studio scientifico
sulla loro esperienza con le donne mutilate. Aldo Morrone, responsabile del
Servizio di medicina preventiva delle migrazioni, del turismo e di
dermatologia tropicale dell’ospedale San Gallicano di Roma, anticipa a
Repubblica i risultati della ricerca:
«La mutilazione genitale femminile è stata una sorpresa per la classe medica
italiana. Quando agli inizi degli anni Ottanta abbiamo osservato i primi casi,
per la verità non conoscevamo questa pratica. Il motivo per cui queste donne
venivano da noi non era tanto la mutilazione genitale ma perché affette da
malattie veneree. Mi colpì il primo caso di una donna somala che aveva avuto
un’infibulazione completa. Le chiesi di poter fare una fotografia della lesione
e la signora rispose che non c’era alcun problema, per lei era perfettamente
normale essere infibulata, per lei quello era il suo stato naturale. Allora capii
l’importanza di curare gli aspetti culturali e psicologici».
Dottor Morrone, come è nato questo primo rapporto scientifico sulle donne
infibulate residenti in Italia?
«Noi siamo partiti da un’analisi oggettiva che è la presenza di donne
infibulate nella nostra casistica che va dal primo gennaio dell’85 al 31
dicembre del ’99. Questa casistica è composta da oltre 35 mila persone
straniere visitate, di cui più di un terzo sono donne. In Italia le donne
originarie dei paesi africani dove vengono praticate le mutilazioni genitali
femminili sono circa 41 mila. Sono stati 147 i casi di donne immigrate che
abbiamo seguito clinicamente e che avevano richiesto il nostro intervento per
lesioni di natura genitale».
Sulla base della sua esperienza come specialista in dermatologia e
venereologia come valuta la pratica dell’infibulazione?
«In effetti dal nostro punto di vista la situazione è drammatica perché
l’infibulazione viene fatta in condizioni di assoluta mancanza di igiene. È
chiaro che ci troviamo ad avere a che fare con degli effetti collaterali molto
gravi. A mio avviso la componente medica è certamente importante, cioè
bisogna che i ginecologi e i medici di famiglia conoscano il problema. Ma
l’unica maniera per risolverlo è di intervenire a livello culturale in modo da
garantire una continuità della cultura di queste persone pur modificando la
pratica dell’infibulazione, abolendola, sostituendola con un’altra pratica. Ad
esempio, avviene soprattutto nel Ghana, si fa una festa simbolica in cui si
simboleggia la mutilazione genitale senza eseguirla realmente».
Nel vostro caso l’approccio transculturale ha portato a dei risultati?
«Dal ’92-’93 sono emerse due novità. La prima è stata l’arrivo nel nostro
centro di donne che volevano far infibulare le proprie figlie. Lì è stato un
problema accoglierle con la solita attenzione e dignità, pur spiegando loro
che noi non eseguiamo le infibulazioni perché riteniamo che non è corretto
mutilare il corpo delle bambine. Non ci siamo limitati a ciò, abbiamo cercato
di convincerle a cambiare atteggiamento, a trovare un altro modo. Nella gran
parte dei casi ci siamo riusciti. È proprio perché c’è una grande fiducia che
sono arrivate a chiederci di far infibulare le figlie. Noi non le abbiamo mai
denunciate, ma abbiamo cercato di accogliere questa loro istanza
modificandola nel tempo. La seconda novità è stata l’arrivo in Italia di
bambine somale infibulate e adottate da famiglie italiane, soprattutto a
seguito dell’operazione “Restore Hope”. All’epoca avevano grossi problemi
con la prima mestruazione. Le bambine non ricordavano di essere state
infibulate. E i genitori adottivi hanno fatto mille giri prima di arrivare a capire
che si trattava di un effetto collaterale dovuto all’ostruzione di cheloidi, di
cicatrici. All’inizio è stato vissuto in modo traumatico. I genitori italiani non
sapevano neanche dell’esistenza dell’infibulazione. In alcuni casi questo
trauma è perdurato perché si è trattato di situazioni con necessità di
intervento chirurgico per deinfibulare, eliminare queste forme di
cicatrizzazioni e ricostruire con la chirurgia plastica tenendo conto anche
dell’età perché se c’è un’ulteriore fase di sviluppo bisogna poi reintervenire.
Comunque dopo il trauma iniziale i genitori italiani sono stati particolarmente
vicini alle bambine somale adottive».
Sono stati presentati tre progetti di legge in Parlamento contro la pratica
dell’infibulazione. Lei come li valuta?
«A nostro parere non è sufficiente fare una legge contro l’infibulazione ma è
necessario che si crei una cultura del corpo, di un nuovo modo di entrare
nella comunità che non sia quello della mutilazione genitale femminile. La
criminalizzazione dell’infibulazione sarebbe l’errore più grave perché
porterebbe a un mercato clandestino dell’infibulazione».
Cosa si fa concretamente in Italia per porre fine alla pratica dell’infibulazione?
«Direi che dell’infibulazione se ne parla tanto allo stesso modo di quanto non
si fa nulla. Immaginate che fatichiamo a tener aperto questo nostro servizio
pubblico perché l’amministrazione non ci concede neppure un assistente. Ciò
succede perché purtroppo se si attua o meno la legge sull’assistenza
sanitaria agli stranieri non interessa a nessuno. La verità è che in Italia si dice
sì alla carità e all’elemosina ma no al diritto uguale per tutti».

«A 10 anni volevo operarmi come tutte le mie amiche» – Fatima, 36 anni: ho
sofferto per anni
Roma (m.a.) – «Mia madre non voleva che venissi infibulata, lei aveva sofferto
tanto, ma a all’età di dieci anni io non capivo. Ogni giorno piangevo, mi
rifiutavo di mangiare, mi ero barricata in casa, non volevo più parlare con
nessuno, urlavo in continuazione: “Ti prego mamma fammela fare, voglio
essere come tutte le altre mie amiche”. Mi sentivo male quando stavo in
mezzo alle mie compagne di gioco. Mi prendevano in giro e mi insultavano:
“Ma come, sei grande, hai dieci anni e non hai ancora fatto l’infibulazione. Tu
non sei una musulmana, sei una cristiana. Sei una puttana. Sei tutta aperta,
bisogna chiudere. Una ragazza per bene deve essere infibulata”. Ero
disperata perché ero diversa dalle mie amiche che sghignazzando mi
provocavano: “Se non sei una puttana, facci vedere che sei cucita, ma se sei
aperta vuol dire che sei una puttana”».
Fatima Mahamad Abdulleh, nata 36 anni fa a Mogadiscio, ricorda così come
avvenne la sua mutilazione genitale completa che in Somalia chiamano
gudniinka. Oggi è cittadina italiana, si è sposata nel ’95 con l’architetto
italiano Fabrizio Carola, presidente dell’associazione Nea
(Napoli-Europa-Africa).
Confessa il trauma interno vissuto al momento del matrimonio: «Quando mi
sono sposata non mi piaceva fare l’amore, non è che sono insensibile ma
avevo paura, paura di provare dolore. È logico, se sono tutta chiusa come
può avvenire la penetrazione? Quando arrivai in Italia le ragazze della mia
età si divertivano, per loro avere rapporti sessuali non era una
preoccupazione ma un piacere, mentre io li vivevo come un incubo. Quando
domandavo alle ragazze somale sposate: “Come è andata con tuo marito?”,
loro mi rispondevano: “È andata male, molto male, abbiamo sofferto tanto,
abbiamo provato dolore dappertutto fino alla testa, mamma mia quanto
abbiamo sofferto!”. Ecco perché io non volevo avere rapporti sessuali. Ed è
allora che mi sono domandata: perché mi sono fatta infibulare?” Se non fossi
infibulata tutto sarebbe stato più facile, il sesso, il parto, avere figli non
sarebbe stato un problema». Dopo il matrimonio Fatima ha subito due
interventi per farsi deinfibulare, ora gode di un’attività sessuale soddisfacente,
vuole avere figli ma giura che mai e poi mai farebbe infibulare la propria
figlia.

Modi e forme delle violazioni
ROMA – Il primo rapporto sull’ infibulazione in Italia ha esaminato il caso di
147 donne di cui 27 ha subito l’infibulazione, che è l’escissione di parte o di
tutti i genitali esterni e il restringimento dell’apertura vaginale, 34 è stata
sottoposta all’escissione del clitoride con asportazione parziale o totale delle
piccole labbra, mentre su 86 è stata praticata l’escissione del prepuzio con
asportazione parziale o totale della clitoride. Sono queste, secondo la
classificazione mondiale della sanità, le tre forme più diffuse di mutilazione
sessuale genitale a cui sono state sottoposte 130 milioni di donne in tutto il
mondo, mentre si calcola che ogni anno due milioni di donne subiscono
questa pratica.
In Italia la Costituzione vieta espressamente qualsiasi violazione all’integrità
corporea della persona ma non esiste ancora uno specifico reato contro
l’infibulazione.
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Agenzia Asca, Le infibulazioni in Italiaultima modifica: 2008-11-21T18:45:00+01:00da mangano1
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