Marco Iacona – Jack Kerouac e il baseball come sogno

Jack Kerouac e il baseball come sogno

di Marco Iacona – 01/06/2009

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Fonte: Arianna Editrice

 

 

Ci sono sport veri e sport completamente immaginari, come il Quidditch praticato dal mago in erba Harry Potter, nella scuola di Hogwarts. Così come ci sono atleti veri e atleti partoriti dalla fantasia degli autori di libri e fumetti. Chi è cresciuto sbucciano i Peanuts di Charles M. Schultz saprà esattamente di cosa parliamo: di una squadra di baseball a dir poco sgangherata allenata da Charlie Brown con Lucy la chiacchierona in prima base e i bambini del quartiere, col cane Snoopy, a condividere le sorti di un gruppo eternamente destinato alla sconfitta. Fosse estate o fosse inverno. Da oggi, tuttavia, Linus il “catcher” godrà della compagnia di ben altri atleti partoriti dalla fantasia del grande Jack Kerouac, uno dei padri della Beat Generation, colpito, fin dalla più tenera età, dalla passione fino a ieri peraltro segretissima, di inventarsi squadre di baseball (con tanto di staff tecnico e manager), incontri e campagne acquisti, fino ad interi campionati, non privi dei più classici dopo-partita.
La notizia è stata riportata dai quotidiani più importanti, a partire dal New York Times. Il 18 maggio scorso, Repubblica ha addirittura dedicato una pagina intera alla passione nascosta di uno dei più conosciuti scrittori del dopoguerra (Enrico Sisti, Da re del Beat a super tifoso. Il baseball segreto di Kerouac). Nomi di squadre inesistenti ma del tutto plausibili: i Pittsburgh Plymounths, i Cincinnati Blacks; e poi ancora Wino Love, Wardy Pepper, Heinie Twiett, Phegus Cody, Zagg Parker: nomi di atleti ed addetti ai lavori completamente inventati; ed una storpiatura del proprio di nome, così tanto per non lasciare da parte il protagonista: da Jean Louis a Jack Lewis. Kerouac annotava tutto, giorno per giorno, in molti taccuini che da geniale inventore conservava nei cassetti della sua casa di Lowell. Quaderni pronti a trasformarsi in una storia parallela del baseball, partorita dalla fantasia di uno scrittore nato; come per lui scrittoti nati erano Herman Melville, Walt Whitman e Hanry David Thoureau. Adesso, la Berg Collection della biblioteca di New York che ospita l’archivio Jack Kerouac li ha ordinati quasi in coincidenza con l’uscita del libro Kerouac at bat: fantasy sports and the King of the Beats (Il battitore Kerouac: sport di fantasia del re dei beatniks) di Isaac Gewirtz, curatore dello stesso archivio-Kerouac.
Dietro uno scrittore, tuttavia, c’è sempre l’ombra della più ordinaria biografia a riprodurne per intero immagini e contorni. In realtà, grande sportivo, in gioventù, Jack lo era stato per davvero (non si dedicava al baseball però, ma all’altro dei grandi sport americani: il football), fino a quando si era trovato dinnanzi al più comune dei bivî: scrittore o sportivo? Per (nostra) fortuna Jack, non aveva faticato molto a scegliere il suo futuro, voltando per il primo dei due sentieri, il più lungo e difficile, un sentiero tuttavia che l’avrebbe condotto post mortem fino alle glorie dell’empireo degli narratori “maledetti”; con e dopo l’altro grande Jack (London), e dopo di lui, forse con Bob Dylan, punto di riferimento di una seconda America, non più quella del Sogno (S maiuscola) ma quella “vagabonda”, i cui piccoli sogni correvano verso luoghi lontani, dai quali bisognasse unicamente ripartire.
D’altra parte, i grandi Sogni di Jean Louis Lebris de Kerouac (questo il suo vero nome), di famiglia cattolica e franco-canadese, nato nel 1922, erano svaniti già molto presto, a quattro anni, con la morte del fratello. Risalgono a venti-ventidue anni, invece, i primi contatti con gli altri esponenti Beat, e non è ancora il 1950 quando Jack esordisce nella letteratura con buon successo (forse l’unico che avrà davvero in vita). Il suo capolavoro, il libro per cui è universalmente conosciuto però, come tutti sanno, è On the Road (Sulla strada), pubblicato nel 1957, ma scritto nel ’51 in appena tre settimane, dopo una serie di viaggi col “mito” vivente Neal Cassady. Già nel ’47, Kerouac aveva coniato il termine Beat Generation, diffuso poi nel 1952 da un paio di lavori di John Clellon Holmes. Se vogliamo, Beat Generation è per molti versi anche una continuazione “con altri mezzi” della Lost Generation di un ventennio prima (denominazione che si deve a Gertrude Stein), dunque la generazione – straordinaria – di Francis Scott Fitzgerald, di Ernest Hemingway ed anche di Ezra Pound e di Dos Passos. In ordine di tempo fra le due coppie, Jack Kerouac morirà a causa dell’abuso di alcol nell’ottobre del 1969.
Kerouac è oggi un’icona della letteratura universale, ma fin dagli inizi degli anni Sessanta la cultura italiana (straripante di modi d’importazione), guardava a quell’“altra” America con straordinario interesse. C’era, sì, nei giovani che vivevano gli anni del boom, una forte attrazione verso il consumismo e la logica del guadagno ma c’era anche un’autentica infatuazione per l’America anti-sistema, quella appunto protestataria pacifista ed esasperatamente libertaria di Jack Kerouac & co. Tutti ricordano, peraltro, che a far conoscere autori e cultura Beat in Italia era stata la prossima novantaduenne Fernanda Pivano, studiosa fra le più importanti di letteratura americana e grande amica di Hemingway. Anche se “Nanda” amerà certa cultura italiana almeno quanto quella Americana. Sua una famosa dichiarazione di qualche lustro fa sul concittadino (genovese come lei), Fabrizio De Andrè: «Sarebbe necessario che invece di dire che Fabrizio De André è il Bob Dylan italiano si dicesse che Bob Dylan è il Fabrizio De André americano». Si può dire così, a questo punto, che col De Andrè cantastorie democratico e anarchico ad un tempo, portavoce degli emarginati, dei ribelli e di ogni bastian-contrario, il cerchio del mondo “ribelle” si chiuda.
Beat… Beat…, che cosa è Beat? Il significato di un termine che ha accompagnato quasi per intero l’esistenza dei nostri cinquantenni è multiforme come poliedrici sono i criteri comportamentali dei giovani (e meno giovani) che hanno sposato la madre di tutte le contestazioni del dopoguerra (i cui “padri” ricordiamolo oltre Kerouac, sono Allen Ginsberg, William Burroughs, Gregory Corso e Lawrence Ferlinghetti). Beat è soprattutto un viaggio. Un viaggio in alcuni casi, senza ritorno, per almeno tre significati. Viaggio fisico, spostamento dunque, voglia di “andare” senza un vero perché razionale; viaggio “mentale” grazie all’utilizzo dell’alcol e delle droghe (nel marzo del ’68 il periodico “Panorama”, pubblicava un’inchiesta sulle sostanze allucinogene – con tanto di carta d’identità delle droghe – che veniva così introdotta: «Dalla prima sigaretta di marijuana all’internamento nell’ospedale municipale di San Francisco in uno stato mentale forse incurabile, erano passati 18 mesi. In questo breve periodo Bill W., 19 anni … aveva esperimentato una vera escalation della droga. Dalla quasi innocua marijuana … era passato all’Lsd… dopo qualche mese neanche l’Lsd gli bastava più e Bill assaggiò l’Stp una nuova potentissima sostanza chimica intossicante…»); viaggio, infine, nel costume, nei modi e nei comportamenti non più e non solo degli americani di entrambi i versanti, prima di New York poi di San Francisco (non per niente la sezione dedicata a “Beat e capelloni”, tratta dal libro di Francesco Donadio e Marcello Giannotti, Teddy-boys rockettari e cyberpunk, Ed riuniti,1996, così comincia: «come la gioventù italiana intraprende un cambiamento a tutt’oggi senza ritorno…»).
Ma anche in modo più concreto Beat può essere tradotto in vari modi. Come “beatitudine”, ascetismo, spiritualismo-Zen e ricerca di un paradiso (artificiale) in terra, ma anche come sconfitta, come l’esser stati battuti da un mondo circostante di cui poco o nulla si può condividere. Ma Beat è anche ritmo, musica, soprattutto jazz nello stile be-bop, utilizzati perfino come modello di scrittura. In fondo Beat è forse unicamente ricerca e speranza di novità, in un mondo stretto nella morsa del consumo e della guerra fredda ed è anche ricerca e speranza di una vita vissuta in parallelo o, magari, di nascosto (e della quale, chissà, poteva far parte quel campionato di baseball creato dalla fantasia adolescenziale di Kerouac). Una vita dalle forme minuscole e consumata in fretta, colma e stracolma di curiosità e oggetti minuscoli di uso quotidiano, e, poco o nulla, di abusata grandeur (da questo punto di vista fa in un certo senso scuola, la poetica di Charles Bukowski, anche se, a rigore, il vecchio “Hank” non può essere considerato uno scrittore facente parte del gruppo della generazione Beat). Grande amico Jack! Dalla lettura dei quaderni dell’Archivio newyorkese apprendiamo anche una gustosissima curiosità, nella quale se ci si pensa c’è tutto Kerouac – dalla cima dei capelli alle suole. Sapete come s’immaginava il cantore del viaggio attraverso l’America, il baseball, nella sua dimensione minima, lontano perfino dagli occhi indiscreti del suo amico Ginsberg? Un sassolino per palla ed uno stuzzicadenti per mazza. Con questo baseball casalingo e con la voglia di essere un eterno “sconfitto”, forse perfino Snoopy e Charlie Brown avrebbero vinto la loro prima partita…

Marco Iacona – Jack Kerouac e il baseball come sognoultima modifica: 2009-06-02T17:10:00+02:00da mangano1
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