Monica Floria, Il guappo

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Monica Florio
IL GUAPPO
NELLA STORIA, NELL’ARTE, NEL COSTUME

 

 

monica florio_guappo.jpgprefazione di Ernesto Filoso
Ediz. Kairòs,

La figura del guappo
La figura del guappo è stata efficacemente descritta da de Borcard nel libro pubbli-cato a Napoli nel 1866 intitolato Usi e costumi di Napoli. De Bourcard, ironizzando sulla gestualità esasperata del personaggio, ne ha fatto una figura quasi grottesca.
Con la sua giacca corta e aderente, portata sbottonata, i pantaloni larghi terminanti con due grosse trombe sulle scarpe, la coppola di panno col gallone d’oro, il guappo apparirebbe al giorno d’oggi più ridicolo che temibile.
La stessa acconciatura era anomala poiché i capelli erano tagliati corti all’occipite fino a metà testa e pettinati sulle tempie in grandi ciuffi arricciati.
Anche il gergo del guappo era quantomeno singolare. Lo riportiamo integralmente dal testo di de Bourcard: “Allorché il guappo minaccia di bastonare alcuno, apre entrambe le palme ed agitandole stranamente e quasi ponendole di conserva sul volto dell’avversario in un moto espressivo gli grida: “Mo t’apparo ’a faccia (Ades-so te le serro sul viso)”.
Quando saluta un collega si esprime con enfasi: “A’ razia, ovvero, a’ bbellezza (Alla grazia, ovvero, alla bellezza)”.
A tale che gli paresse non aggiustar piena fede a quel che dice, e’ risponde: “Ebbè, ’o bbbulimmo lassà (Ebbene! Vogliamo lasciar andare)”. Quando vuol mostrarsi osse-quioso si esprime: “Mo ’nce vo’; sapimmo l’obbrigazione nostra (Vivaddio, sappia-mo il nostro obbligo)”, né meraviglierà alcuno dell’imperioso plurale, trattandosi di guappo.
Se si rissa grida: “Ebbè senza che ffaie tutte sse ’ngeste; cca simmo canusciute, e aggio fatto scorrere ’o sango ’a llave po’ quartiere (Or via! Pon giù tutti codesti movimenti, perché qui siamo conosciuti ed ho fatto scorrere il sangue a laghi pel quartiere)”.
Un tale ha l’inavvertenza, passando, di lasciar andare un boccone di fumo sul volto della maestà; ecco il guappo che freddamente e strascicando gli dice: “Ebbè mo mancate; vuie menate o fummo rizziquario ’nfaccia a’ ronn! (Orbè, voi conoscete il vostro dovere. Voi gettate il fumo del sigaro sul volto della donna!).
Quando, nel colmo dell’ira, e minacciando il suo avversario, fruga precipitosamente nelle tasche in cerca d’un coltello, che spesso non vi è, lasciando trattenersi dalle donne e dagli amici, dimenando il corpo e mostrando non veder colui che ravvisa perfettamente, grida con quanto ne ha in gola: “Aro’ sta, aro’ sta! Me ne voglio vevere ’o sango! (Dov’è, dov’è! Me ne voglio bere il sangue)””.

Il guappo di sciammeria
Coloro che volevano atteggiarsi a signori indossavano un abito un po’ più lungo (la marsina) che valse loro la denominazione di guappi di sciammeria.
Il loro stile — visibilmente improntato su quello dei dandy del tempo — ci viene descritto minuziosamente da Enzo Avitabile (L’onorata società. Riti, costumi e gesta della camorra, Napoli, Regina Ed., 1972): “Essi indossavano abiti tagliati dalle più famose forbici del tempo come un Plassenell o un Trifari. Portavano il “raglan”, il “talmà” o la “chemise” corta, cravatte larghe dette “rabats” fermate da spilli di co-rallo e di perle. I cappelli erano di Parigi e di Londra, le scarpe erano cucite da un Finoia o da un De Notaris, i guanti di Bossi o di Cremonese di via Toledo, le camicie di Della Croce di via Chiaia”.
I guappi di sciammeria si erano arricchiti spesso in modo illecito e, grazie agli atteggiamenti da gran signori, potevano mescolarsi tra la gente “bene” del tempo, che sfruttavano fornendo prestiti ad elevato tasso di interesse o presentando loro qualche donnina disponibile conosciuta in una delle bettole che assiduamente frequentavano.
Si trattava di usurai, basisti, strozzini, la cui estrazione piccolo-borghese li poneva, però, in contrasto con i camorristi (generalmente di origine plebea), impedendo loro di entrare a far parte dell’organizzazione malavitosa.
Tuttavia, essi ebbero riconosciuto il titolo onorifico di guappi di sciammeria e col tempo divennero delle figure privilegiate all’interno della camorra napoletana.
L’organizzazione cercò sempre di non farseli nemici, reputandoli degni, in deter-minate circostanze, di ricevere l’anello di ferro, particolare onoreficenza riservata ai camorristi che potevano vantare: 1) trenta anni di servizio; 2) l’omicidio di agenti di pubblica sicurezza (i cosiddetti gatti); 3) la partecipazione in prima persona al compimento di almeno quattro grandi imprese…

Fra fiction e realtà storica
Il giornalista Ernesto Serao ha tentato, riuscendovi solo in parte, una sintesi fra l’affresco storico e la fiction nel romanzo Il capo della camorra. Una storia di ven-detta diviene lo spunto per delineare i riti dell’organizzazione camorristica e per ritrarre molti guappi del tempo.
Il motore della vicenda è l’omicidio del guappo di sciammeria Gennarino Pare-scandolo, autorità assoluta del quartiere Stella, ucciso dall’amante del camorrista Tore Santangelo…
Il Parescandolo — soprannominato “’o Bello guaglione” per il volto fine, signorile e un po’ femmineo — è descritto come un avido sfruttatore di donne, temerario al punto da sfidare con il frustino gli altri guappi nonché gli odiati camorristi.
Nel corso di un’assemblea della “Gran mamma” a cui la madre del Parescandolo si era rivolta per chiedere giustizia, ci vengono mostrati altri esponenti della guap-peria.
“’O Femmenella”, così soprannominato per le sue sembianze femminee, e “’o Milordino”, abituale frequentatore della piccola borghesia sono due “picciuotti”… che aspirano ad entrare nell’organizzazione camorristica.
Rivali anche in amore, i due guappi si scontrano nel corso di una “zumpata di dovere”, un combattimento a scopo dimostrativo in cui era vietato colpire al petto. Questo duello, decisivo per rimanere all’interno dell’organizzazione sancisce la sconfitta e la conseguente espulsione dalla “Gran mamma” di “’o Femmenella”. Il romanzo evidenzia anche il ruolo del guappo di sciammeria all’interno dell’orga-nizzazione camorristica: il Parescandolo, ad esempio, è uno “sciammeria positivo”, ovvero un picciuotto promovibile a camorrista nel caso avesse mostrato di posse-dere doti di grande abilità.
Questo ruolo, ereditabile, viene assunto dalla madre del Parescandolo dopo che il figlio era stato ucciso.

Le gesta di Funa Longa
Serao opera una ricostruzione degli avvenimenti del tempo raffigurando anche uomini realmente esistiti quali Nicola Jossa e Costanzo Ardia (detto “Funa Longa”). Quest’ultimo, padre della giovanissima amante di Tore Santangelo, funge da filo conduttore al racconto da cui emerge l’evoluzione della camorra e della guapparia.
La differenza esistente fra guappi e camorristi è evidenziata da Serao: “Correvano ancora tempi classici per la camorra e l’ibrida confusione odierna, che ha fatto di questa istituzione dissanguatrice il centro e la sintesi di tutta la delinquenza, non era ancora iniziata”.
L’antico camorrista giudicava disonorevole rubare o compiere ricatti, rapine, estor-sioni, ragione per cui demandava ad altri l’incarico di compiere questi misfatti.
Il guappo, invece, era “l’ommo ’e core”, lo spirito fiero e irrequieto che non tollerava alcuna forma di obbedienza e prediligeva le imprese solitarie in cui far sfoggio della propria bravura.
Tuttavia entrambi erano nemici dei ladri e degli sbirri ed intimorivano la gente che li riteneva pericolosi. I guappi sostenevano di badare soprattutto all’onore e di accontentarsi di percepire “il piccolo fiore”, la mancia dignitosa offerta da coloro che proteggevano. A volte si schieravano contro i “feroci”, ovvero i “birri” borbo-nici, noti per la loro malvagità, e a favore di vedove e orfane.
Del famoso e più volte citato Nicola Jossa viene riportato un episodio che ha il gusto della leggenda. Una volta questi fu, a detta di Serao, capace di penetrare nel gabinetto del prefetto di polizia e schiaffeggiare il supremo magistrato di giustizia, rinchiudendolo a chiave e minacciandolo di morte se avesse fiatato.
Il più giovane Costanzo Ardia era un suo compagno di avventure.
Era solito riunirsi con altri guappi, molto più ignoranti di lui, in un noto caffè di Porta Nolana. Tra loro vi era il piccolo e sdentato Gioacchino “’a Vicchiarella” e il suo emulo “Fasciglione”.
La sua passione per le donne, che lo ricambiavano, non faceva che aumentarne lo già smisurato senso di onnipotenza. Una volta, infatti, il guappo riuscì a strango-lare una spia e a rapirne la bellissima moglie, tenuta sotto chiave, senza che alcun sospetto gravasse su di lui.
Soprannominato “Funa Lunga” per la fortuna che gli permetteva di restare impunito dei tanti delitti commessi (la gente diceva, infatti, che solo una lunga corda gli avrebbe impedito di cavarsela), l’Ardia si scontrò anche col famoso Tore ’e Criscienzo, dipinto da Serao come un individuo furbo quanto falso.
Il camorrista aveva diffuso la voce che Funa Longa era un avversario facile da battere. Un giorno, il guappo, per dimostrargli il contrario, si era recato da lui disarmato. Dopo essere stato umiliato e trattato alla stregua di un ragazzotto, il guappo aveva reagito sfidandolo.
Nello scontro Funa Longa ebbe la meglio sul suo avversario che rimase a lungo convalescente per una ferita al cranio.
Successivamente Tore ’e Criscienzio tentò, senza riuscirvi, di vendicarsi.
Quando decise di servirsi dei suoi uomini per eliminare il guappo, inaspettata-mente, fu tradito proprio da loro. I camorristi rimasero, infatti, talmente colpiti dal coraggio di Funa Longa da offrirgli la carica di capintesta.
La carriera del guappo ebbe una volta imprevedibile quando fu promosso a commissario di polizia. Riusciva, infatti, a procurarsi informazioni utili alla polizia ricorrendo ad abili travestimenti. L’attitudine all’inganno era, del resto, una dote precipua di questo guappo che militava anche nelle file della camorra in qualità di capintrito — una sorta di capoquartiere — di Porta Capuana. La sua doppia vita gli consentiva di esercitare l’attività di spia per conto della polizia e contemporanea-mente, di taglieggiare il popolarissimo quartiere della Vicaria.
Le sue malefatte non si fermavano qui. Il furbo Funa Longa aveva persino messo a frutto le sue doti di malvivente, divenendo il capo di una scuola di ladri, per i quali realizzava anche complicati tatuaggi.
Questo personaggio, realmente esistito, assolve nel romanzo una funzione ben precisa. Serao se ne serve per delineare il cruciale passaggio dalla criminalità non organizzata alla camorra. Simbolicamente questa transizione si accompagna anche ad una trasformazione dell’individuo stesso come è evidenziato dal progressivo degrado di Costanzo Asrdia.
Il susseguirsi degli eventi ci mostra, infatti, il guappo Funa Longa sempre più amo-rale al punto di abusare, sotto gli effetti dell’alcol, della figlia convalescente.

© Monica Florio, da “Il guappo”

Il libro
Con il saggio di cultura napoletana “Il guappo – Nella storia, nell’arte, nel costu-me” (Edizioni Kairòs, 2004) Monica Florio ritrae un personaggio complesso e affa-scinante, legato alla storia del costume di Napoli.
Nello spirito della collana di saggistica partenopea e campana “All’ombra del vulcano” il libro attua una ricognizione, scevra da retorica e nostalgia, su una figu-ra spesso idealizzata ed erroneamente confusa con altri personaggi della malavita quali il camorrista.
Del guappo viene operata un’accurata ricostruzione storica e, al tempo stesso, uno studio trasversale che tocca la letteratura, il cinema, il teatro e la canzone.

L’Autrice
Monica Florio (Napoli, 21/11/1969) ha collaborato con “Cronache di Napoli”, “Il Denaro”, “L’Avanti!”, “L’isola”, “Arte & Carte”, www.lucidamente.com, www.napoliontheroad.it, www.pensalibero.it, www.zappingrivista.it. Ha pubbli-cato il saggio “Il guappo – nella storia, nell’arte, nel costume” (Kairòs Edizioni, 2004), i racconti “Fuori dal gioco” (“Vedi Napoli e poi scrivi”, Kairòs, 2005) e “L’uomo della folla” (“San Gennoir”, Kairòs Edizioni, 2006). Con il racconto “Padre Rock” ha vinto il 1° premio per la narrativa inedita alla 38° edizione del “Premio Nazionale Sìlarus”.
Premi:
Con il suo esordio letterario “Il guappo – nella storia, nell’arte, nel costume” (Kairòs Edizioni) ha ricevuto nel 2006 il terzo premio dall’Associazione Culturale “Emily Dickinson” e nel 2005 la menzione speciale da parte dell’Accademia Italiana di Scienze, Lettere e Arti “Terra del Vesuvio” di Nocera Inferiore.
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Monica Floria, Il guappoultima modifica: 2010-06-27T16:02:30+02:00da mangano1
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