Silvio Gambino,Unità nazionale e Mezzogiorno d’Italia:

 

 

Unknown.jpegUnità nazionale e Mezzogiorno d’Italia:
Storia, questioni aperte e prospettive
Un saggio molto attuale su Risorgimento, unificazione politica,
sentimento di identità nazionale e modelli di governo locale
di Silvio Gambino

Sommario:
1. Premessa. – 2. Unificazione politica e identità nazionale: una questione aperta. – 3. Unità d’Italia e questione meridionale. – 4. Unità d’Italia e (incerte) prospettive federalistiche. – 5. Unificazione politica e modelli di governo locale. – 6. Istituzioni territoriali, politica e riforme.

1. Premessa
Le forme di stato moderne e contemporanee, pur non risultando facilmente comparabili rispetto alla natura (e alla stessa intensità) del decentramento territoriale dei poteri, ritrovano un punto comune di riferimento intorno a tre principali modelli statali ideal-tipici: lo stato unitario, lo stato federale e quello confederale (quest’ultimo, in verità, costituendo poco più che un’astratta categoria tipologica)[1]. Al primo di questi modelli, unitario e stato-centrico, si è ispirato il processo di costruzione dello stato italiano nelle contrastate vicende relative alle sue origini (centocinquant’anni fa) e nelle politiche seguite dal liberalismo italiano postunitario[2]. Gli aspetti fondamentali del modello di stato unitario, come è noto, sono dati dall’accentramento e dalla centralizzazione amministrativa, nonché dalla previsione, nelle relazioni con le collettività locali, di un sistema autoritativo esclusivo dello stato, di tipo gerarchico. L’archetipo è costituito dal modello francese[3], che si differenzia dall’assetto organizzatorio dei rapporti tra centro e periferia sperimentato già da vecchia data nel costituzionalismo britannico, con il riconoscimento di forme di autonoma rilevanza politica agli organismi territoriali esponenziali delle realtà territoriali[4]. La centralizzazione e l’uniformità amministrativa, che sono tra gli aspetti che, a partire dal caso francese, maggiormente caratterizzano le esperienze europee di stato unitario, si fondano sull’argomentazione (istituzionale e politica) secondo cui tali profili organizzatori esprimono, integrano e perfezionano l’unificazione politica degli stati, divenendone perciò un elemento indefettibile. Unità, centralizzazione e uniformità costituiscono, così, altrettanti profili caratterizzanti la rete istituzionale dei rapporti tra potere politico centrale, territorio e cittadini, tra autorità politico-amministrative centrali e amministrazioni locali e che, quasi ovunque, come le singole realtà nazionali testimoniano, si sono accompagnate con la negazione e/o la compressione dei livelli di governo locale e, quando previsto in sede costituzionale, nella loro amministrazione attraverso formule di governo standardizzate e uniformi sul territorio, prescindendo cioè dalle diversità culturali e politiche delle varie realtà regionali e locali. A tale fondamentale profilo organizzativo si è conformato lo stato ad amministrazione centralizzata, che ha garantito il processo di unificazione politica dei singoli stati-nazione in Europa e, al loro interno, la formazione e il consolidamento, nel Secondo dopoguerra, di quei centri di potere politico-comunitari, come i partiti politici, che si sono evoluti nel tempo come nuove istituzioni sociali-comunitarie[5].

2. Unificazione politica e identità nazionale: una questione aperta
Centocinquant’anni ci separano dalla proclamazione del Regno d’Italia, celebrata a Torino, il 7 marzo 1861. Con tale evento si concludeva la “fase eroica” del Risorgimento italiano, che tante passioni civili era riuscito a promuovere e con esse tanti eroismi, esaltati dalle guerre d’indipendenza dall’Austria[6] e dall’aspirazione ai principi liberal-democratici del costituzionalismo francese[7]. L’assunzione da parte di Vittorio Emanuele II del titolo di re d’Italia, immediatamente riconosciuto dall’Inghilterra, assumeva, al contempo, un preciso significato politico, volto a «sanzionare le annessioni compiute, (ad) annichilire le speranze di restaurazione dei principi deposti, (ad) arrogarsi la sovranità sulle Due Sicilie che venivano cancellate dal novero degli Stati europei, e (a) mettere l’ipoteca sui territori del Papa non ancora usurpati e su quelli ancora sotto dominio austriaco»[8].
Senza tali tensioni volte a riconoscere le esigenze di un processo di riunificazione politica a un paese che geograficamente si proponeva all’Europa del tempo come naturalmente unitario (benché frammentato in una congerie di piccole e di medie statualità), le importanti disponibilità diplomatiche e militari dell’Inghilterra ma anche della Francia a consentire ciò che in seguito la Storia del paese avrebbe ricordato come “l’impresa dei Mille”, non sarebbero riuscite nell’intento di realizzare una occupazione/annessione del Regno (borbonico) delle Due Sicilie, sostenendo e accelerando, così, il processo di unificazione politica dell’Italia[9]. Tale obiettivo, al contempo politico e istituzionale, poteva essere desiderato e sostenuto dagli stati pre-unitari e dall’Europa del tempo alla sola condizione che non lo si affermasse espressamente (ma soprattutto che non lo si praticasse in modo da evidenziare una palese aggressione a un pacifico regno dell’epoca, quello borbonico, retto al tempo da Francesco II, ultimo re delle Due Sicilie). Il diritto internazionale, le relazioni diplomatiche esistenti, la posizione di Roma e del Papato e (naturalmente) il Regno delle Due Sicilie[10], che ne era l’aggredito principale, non lo avrebbero potuto consentire.
Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi e Camillo Benso conte di Cavour, ognuno per la sua parte e tutti nel loro complesso, erano stati ideatori e sostenitori di questo processo di unificazione: il primo con la forza e la lungimiranza delle idee propugnate[11], il secondo combinando consenso politico e scaltrezza militare[12]; il terzo con la capacità diplomatica esercitata sia nei confronti dei paesi europei del tempo sia nei confronti della stessa famiglia regnante piemontese, la Casa Savoia[13]. Pur non riuscendo compiutamente a integrare stato (nascente) e nazione, tuttavia, il pensiero risorgimentale risulta ben più complesso e articolato di quanto non si possa ritenere, coinvolgendo, tra gli altri, pensatori e scrittori come Carlo Cattaneo, Vincenzo Gioberti, Alessandro Manzoni [14], Bettino Ricasoli, Antonio Rosmini e lo stesso dibattito costituzionale presente negli Stati Uniti d’America e soprattutto nella Francia rivoluzionaria.
Anche nell’ottica di una necessaria riconciliazione del paese con la sua Storia risalente e recente (non priva invero di contraddizioni), per le ragioni appena evocate, l’analisi del Risorgimento e dell’Unità d’Italia dovrebbe tornare a occupare un posto importante nel dibattito politico-istituzionale del paese, a partire, in primis, dalla programmazione del sistema scolastico. L’obiettivo, in tal senso, è di concorrere alla formazione di una cultura nelle giovani generazioni che le porti a ritrovare le (risalenti) ragioni alla base del processo di unificazione politica del paese e dello stesso coraggioso e decisivo apporto di minoranze illuminate (soprattutto) del Piemonte, della Lombardia e del Veneto. In tale ottica, non dovrebbero sussistere timori né nei territori che costituirono un tempo il Lombardo-Veneto, né in quelli che costituirono un tempo ambito di sovranità territoriale del Papato, né infine in quelli del Regno delle Due Sicilie. Se proprio, dal Sud, qualcosa di aggiuntivo dovesse essere ricordato a chi questa Unità oggi pare non apprezzare, questo consiste nel ricordare che un contributo importante e risolutivo alla unificazione politica è venuto appunto dal Nord, dal Piemonte in primis, dalla Lombardia e per essi dalla lungimirante intellighentia liberal-democratica del tempo.
Poiché appare difficile negare l’evidenza storica di ciò che si è prodotto centocinquant’anni addietro, l’unificazione politica del paese non può che essere colta come una sfida storica e politico-culturale che non ammette ripensamenti tardivi. Né a Nord né a Sud del paese! Con le annessioni assistite da plebisciti[15] prima, e con l’unificazione in seguito, si trattava di ricostruire un senso di appartenenza nazionale capace di riunificare ben 12 stati (ridotti a 9 dal Congresso di Vienna del 1815, e poi subito dopo a 7), che ne costituivano la base storica di riferimento. A testimoniare la complessità del processo di formazione dell’identità nazionale, d’altra parte, si ricorda come, nel tempo, non si disponeva di una lingua comune a favore di molte lingue dialettali, che rendevano del tutto difficile ogni possibilità di comunicazione tra i diversi territori. Lo stesso primo ministro del Regno d’Italia, Camillo Benso conte di Cavour si esprimeva abitualmente in lingua francese; nella stessa lingua venivano prodotti gli atti del Regno di Sardegna. Lo stesso Cavour dichiarava nei suoi scritti di non aver mai conosciuto altri centri urbani al di là della città di Firenze.
In termini essenziali, il successo dell’unificazione politica del paese appare tanto più sorprendente quando si consideri che, nella fase “culminante” del Risorgimento italiano, nel “caldo” 1848, mancava del tutto in Italia l’idea di uno stato unico quale espressione di una patria comune, di una nazione italiana[16]. Forte, al contrario, si presentava lo spirito municipalistico, almeno al Nord del paese.
Le interpretazioni storiografiche convengono nel riconoscere gli effetti dello state building, della costruzione dello stato, ma quest’ultimo non si accompagnava con la formazione della nazione[17]. Una mancata integrazione (fra stato e nazione) che, nelle interpretazioni (di una parte) degli storici, rinvierà alla Resistenza (contro il fascismo) il riconoscimento di un “secondo Risorgimento” volto a completare il primo con un compiuto senso dello stato e della nazione[18]. La cultura cattolica, marxista e laico-risorgimentale, in sede di Assemblea costituente, e già prima con l’affermazione dei partiti di massa[19], seppe trarre tutte le conseguenze di questo “patto costituzionale” nell’adozione della Carta costituzionale del 1947.
Tanto per ricordare come la necessarietà politica di una idea di nazione italiana ha costituito per decenni il portato di élites (ampiamente) minoritarie, ma capaci di disegnare, per una mera configurazione geografica quale era l’Italia del tempo, lo spazio di una necessaria sua ricongiunzione sotto l’unico tetto di uno stato riunificato. Intellettuali e politici come Mazzini, Cattaneo, Gioberti, Cavour – ognuno per la sua parte – avevano tratteggiato progetti di unificazione politica del paese, secondo modelli tra loro divergenti: repubblicano-centralistico per Mazzini, repubblicano-federale per Cattaneo, monarchico-federale per Gioberti. Su tali idee/modelli ha prevalso un principio di continuità, affermandosi in tal modo l’idea monarchico-centralistica voluta dai Savoia, alla quale hanno contribuito in modo risolutivo, e ognuno per la sua parte, le competenze militari e politiche di Garibaldi e quelle diplomatiche e politiche di Cavour[20].
Viste in questa ottica, tuttavia, le idealità e le tensioni democratiche espresse nel corso del Risorgimento, con le sollevazioni che lo hanno accompagnato e (soprattutto) con le guerre di indipendenza dalla dominazione austriaca, hanno parzialmente fallito rispetto agli obiettivi attesi di democratizzazione dello stato, con l’esito non certo esaltante del consolidamento della monarchia (sabauda) e di una sua influenza tanto marcata, da far parlare di una vera e propria “piemontesizzazione” del Sud[21].
Considerato dal Sud e dalle sue popolazioni, e in ragione dello spirito che ha promosso e accompagnato i moti risorgimentali – uno spirito liberale, laico e talora illuminista – l’esito di un simile processo di unificazione merita più adeguati approfondimenti. Accreditate letture storiche, accanto agli indubbi esiti positivi conseguenti alla formazione dello stato unitario, hanno letto nell’affermazione del Risorgimento «la frattura con l’anima religiosa del popolo italiano, la frattura con il mondo rurale e con i valori tipici di una civiltà contadina, la frattura con il Meridione»[22]. Contrariamente alla versione presentata nei libri della Storia ufficiale, come ha osservato uno studioso inglese del processo di unificazione del paese, «il popolo meridionale non partecipò al Risorgimento»[23].
La brevissima ricostruzione di alcuni dei passaggi storici (e degli attori) dell’Unità italiana porta anche a richiamare, senza che in questa sede se ne possano sviluppare le argomentazioni, le tesi interpretative più significative sul Risorgimento italiano, da quella di Benedetto Croce[24] a quella di Antonio Gramsci[25].
Allo stato attuale, le brevi riflessioni svolte ci possono aiutare a chiudere questo primo approccio al tema che ci siamo riproposti di affrontare, sottolineando che il Risorgimento costituisce un evento centrale nella storia politica del paese, benché le forme seguite dalla unificazione politica, di tipo illiberale, hanno evidenziato assoluta inadeguatezza rispetto alla stessa realizzazione dell’auspicata finalità unitaria[26]. Alla ricerca di una positiva unificazione politica dell’Italia espressa dal movimento risorgimentale, infatti, si è risposto con un (assolutamente inaccettabile) processo autoritario di “militarizzazione” del Sud e di dismissione di attività economico-produttive validamente operanti durante il regime borbonico, che è all’origine della frattura registrata tra Nord e Sud del paese e della tuttora carente idea di nazionalità condivisa[27], soprattutto dalla prospettiva meridionale.
Realizzata l’unificazione politica rispetto alla molteplicità e alla variegatezza (in termini dimensionali e di stabilità storico-politica) delle statualità che inizialmente componevano gli scenari statuali presenti in Italia, risultava del tutto evidente che l’unità fosse lungi dall’essere stata realizzata. Lo era centocinquant’anni fa, lo è tuttora, con un non superato dualismo Nord-Sud (di tipo non solo economico), che ci ripromettiamo di riprendere successivamente. Fatta l’Italia, si trattava di prendere atto che “mancavano ancora gli italiani” e occorreva lavorare adeguatamente a tale finalità[28]. Rispetto a tale obiettivo, il modello seguito dai Savoia – quello dell’accentramento statale e della centralizzazione amministrativa – poteva forse apparire perfino obbligato. In questo contesto storico, pur risultando del tutto auspicabile che una simile idea potesse trovare pratica attuazione nel ceto politico e istituzionale del tempo, il modello federale-confederale di Cattaneo non ebbe successo[29].
La ricostruzione di una base culturale comune e di una piena identità degli italiani fu da alcuni leaders individuata nell’organizzazione del processo educativo di massa, nella pienezza della partecipazione politica a seguito della universalizzazione del suffragio[30] (per come sarebbe effettivamente avvenuto dopo il fascismo) e nelle riforme istituzionali (Depretis, Giolitti, Minghetti, Sella, Spaventa), mentre da altri fu invece individuata nella guerra (Crispi, Mussolini) [31]. Tali prospettive, in modo più o meno completo, hanno fallito nel loro obiettivo, consegnando alla breve Storia del paese il compito di continuare in tale opera. Il dibattito attuale nel paese, nel suo centocinquantesimo anniversario, nel fondo, rimane ancora questo. Quale ruolo assegnare allo stato nell’unificazione politica del paese, nella ri-creazione di un’idea di nazione che integri/surroghi la risalente idea di patria[32]? Quale spazio può giocare in questa direzione la valorizzazione ultra viresdell’autonomia politica regionale, a fronte di un quarantennio di esperienza fallimentare (tranne limitate eccezioni) dell’istituto regionale? Ne parleremo in seguito, richiamando il tema della riforma costituzionale del regionalismo italiano, che più di uno si ostina a definire federalismo, senza che il dato costituzionale formale possa confermarlo.

3. Unità d’Italia e questione meridionale
Leggendo la Storia senza la pretesa di poterne modificare o incrinare il percorso già effettuato, occorre sottolineare come il Risorgimento e l’unificazione politica del paese hanno indubbiamente risolto problemi importanti di tipo storico-politico e culturale-sociale, superando una frammentazione di stati (grandi e piccoli), nonché un significativo divario (culturale ed economico) che avrebbe escluso l’Italia dal consesso delle grandi potenze europee (ma anche internazionali) del tempo, e nello stesso futuro europeo. Tuttavia, quello che l’Unità d’Italia, nelle forme che sono state storicamente seguite, non poteva risolvere era il deficit conoscitivo, dal punto di vista economico e sociale, da parte della Casa regnante dei Savoia, circa le condizioni profondamente eterogenee del paese, le quali si presentavano drammaticamente esasperate al Sud nei primi anni successivi all’unificazione. Ciò tanto più quando si considerino le conseguenze connesse alla precoce morte di Cavour, un leader competente e capace di cui il paese (probabilmente) non ha conosciuto pari nel seguito della sua Storia nazionale.
In ogni caso, la destra storica, che si è fatta carico di guidare i primi passi del nuovo Regno d’Italia, si è trovata a dare le risposte a tali condizioni che erano non certo quelle più adeguate quanto piuttosto quelle concretamente disponibili e che godevano di un know how istituzionale immediatamente utilizzabile: una organizzazione costituzionale dei poteri dello stato di tipo accentrato, con un’articolazione territoriale dei poteri amministrativi di tipo uniforme e soggetta al vigile controllo preventivo e successivo dello stato, come vedremo meglio in seguito[33]. In questa forma di organizzazione dello stato, se da una parte venivano accolti i nuovi principi costituzionali di separazione dei poteri (nello spirito dell’art. 16 della Déclaration des droits de l’homme et du citoyen), dall’altra non c’era molto spazio per la differenziazione amministrativa e (almeno inizialmente) nemmeno per l’elettività delle cariche di vertice nelle amministrazioni territoriali. Il Nord con le esperienze di amministrazione municipale ispirate alle idee e alle pratiche amministrative del Lombardo-Veneto, di ispirazione austriaca, ha indubbiamente sofferto una conformazione indebita, anche a livello di efficienza dei servizi amministrativi, alle pratiche e ai modelli amministrativi delle regioni meridionali. Per il Sud, lo stato liberale postunitario ha invece individuato e usato i modi forti, secondo il “modello del bastone” più che della “carota”.
Il decennio del brigantaggio (vera e propria “guerra civile”, secondo alcuni storici) [34], quale manifestazione di tutti i malesseri di un meridione dai problemi assolutamente sconosciuti ai nuovi governanti (piemontesi), come si ricorderà, viene superato con la sospensione delle garanzie costituzionali, con la militarizzazione (pressoché completa) delle regioni meridionali, e con una repressione militare senza pari (legge Pica), che ha lasciato nel Sud una scia di rancore che si può ben immaginare capace di consolidare giudizi di astio verso il Nord e scarso senso di identità nazionale (ma anche statale).
Come si fa bene osservare, «gli italiani (“i piemontesi”) in tutti i modi si comportarono tranne che come liberatori. Delusero le speranze delle plebi contadine, per le quali la parola “libertà” non aveva altro significato che l’aspirazione alla terra e alla liberazione dalla fame. Introdussero nuove e più pesanti vessazioni fiscali, amministrative, militari. Assunsero fin dall’inizio modi di superiorità sprezzante. Non soltanto verso le plebi contadine. Anche verso quella classe di “galantuomini” subentrata in parte all’aristocrazia feudale e che, per parte sua, si comportò durante la repressione in modo più che ambiguo»[35]. Insomma, un dolente cahier de doléance che non può essere sottovalutato se si vuole riprendere e superare quel processo di differenziazione Nord-Sud, che tuttora conosce manifestazioni problematiche, che vanno dal carente senso civico (di una parte) delle popolazioni meridionali[36], al radicamento delle mafie[37], alla lottizzazione (clientelare) dello stato e delle amministrazioni territoriali, con conseguente svalutazione e appropriazione privata della funzione pubblica, alla occupazione burocratica dello stato[38]. «La verità – come si fa ancora osservare – è che il Nord, una volta annesso il Sud politicamente, ha proseguito per conto suo»[39]. Un’analisi – quest’ultima – amara e sconsolata, che pare obiettivamente difficile da contestare[40].
Saltando a piè pari (per economia di trattazione) il periodo storico del Fascismo, e senza profonderci (come pure vorremmo) nelle vicende dell’attualità, segnate dall’emergere di un «populismo privatistico e ludico»[41], di tipo cesaristico[42], lo scorrere degli eventi economici e politici soprattutto dell’ultimo ventennio disegnano uno scenario allarmante di minaccia di “decomposizione” nazionale. A voler seguire quest’analisi, lucida e senza grandi incertezze, insomma, ci troveremmo di fronte al fallimento della unificazione nazionale dell’Italia e con essa al venir meno, ora per allora, del consenso popolare che, senza rilevanti differenze geografiche nel paese, aveva portato alla edificazione di uno stato nazionale nato dalla confluenza di storie e di percorsi diversi.
La “questione meridionale”, in questa ottica autorevolmente frequentata (da Giustino Fortunato a Gaetano Salvemini, da Antonio Gramsci a Guido Dorso, da Francesco Saverio Nitti a Pasquale Saraceno), in breve, non si presenta come una questione di forme di articolazione territoriale del potere statale, di regionalismo piuttosto che di federalismo. La questione nodale era e resta quella di riannodare un doloroso nodo storico, colmando un solco profondo che “la conquista delle Due Sicilie” da parte della Casa Savoia aveva tracciato e che non si è mai completamente rimarginato.
Se questa osservazione cogliesse nel segno, si tratterebbe di ripensare in modo più approfondito alle problematiche che attraversano attualmente il paese: da una parte, la “rivolta nordista” – la “questione settentrionale” – , ancorché le modalità nelle quali si concretizza assumono più le forme della jacquerie che quelle di una questione seriamente allarmante, e dall’altra – questa sì fortemente preoccupante – della “deriva mafiosa”, della vera e propria occupazione della gran parte delle regioni del Sud da parte delle mafie. Il Sud abbandonato a se stesso diventerebbe più facile preda della occupazione/lottizzazione mafiosa, con effetti sulla società, sulle istituzioni e sui singoli che si possono facilmente immaginare. Il Nord, a sua volta, rischia di portare a buon fine quella “secessione fredda” che un accordo politico all’interno dell’attuale maggioranza parlamentare pare agevolmente dischiudergli. Evitare il primo e il secondo dei possibili esiti della crisi politica, in corso da tempo, impone forze politiche chiaramente legittimate e soluzioni istituzionali all’altezza della sfida da vincere. Che rimane pur sempre quella di consolidare una unità nazionale capace di riconoscere e di riconoscersi nel pluralismo istituzionale dei suoi territori, come cercheremo di argomentare meglio in seguito.

4. Unità d’Italia e (incerte) prospettive federalistiche
Nel 1861, l’Italia si è data forma (costituzionale) e contenuti (storico-politici) di uno stato unitario. Occorre ora continuare a operare per consolidare una idea di nazione italiana, capace di riconoscere e valorizzare la diversità e la pluralità delle culture e delle esperienze storico-statuali che hanno preceduto la formazione dello stato unitario. Molte e di direzione opposta sono ora le pulsioni che attraversano nel profondo il corpo del paese. E non sempre, né solo, in modo silente! Nell’analisi appena svolta le abbiamo riepilogate, innanzitutto, nella minaccia di una secessione “fredda”, in quanto non appare molto credibile la minaccia di una violenza rivoluzionaria che coinvolga l’intero Nord (con buona pace delle allusioni illegali al “popolo in armi” da parte del ministro delle Riforme, on. Umberto Bossi!).
In secondo luogo, abbiamo colto più di una traccia di queste pulsioni nella minaccia concreta di debordamento delle diverse mafie operanti nelle regioni meridionali dall’alveo dell’illegalità (nel quale sono confinate e perfino tollerate, come denunciano coraggiosi pubblici ministeri impegnati nel loro contrasto giudiziario), per candidarsi in modo più diretto al governo/amministrazione di regioni e autonomie locali meridionali. Peraltro, ciò non significa uno sconfinamento di tali organizzazioni delinquenziali nelle sole regioni del Sud del paese, essendo noto da più tempo il loro interessamento (soprattutto nel controllo dell’edilizia ma anche del mondo bancario-finanziario) per regioni del Nord del paese e perfino per altri stati del Nord Europa (Germania e Svizzera, soprattutto).
Ora – per come hanno già osservato accreditati commentatori (di fatti) politici – appare come minimo dubbioso che la piena attuazione del federalismo fiscale possa soddisfare, nel tempo medio-lungo, le aspirazioni/aspettative (“rivoluzionarie”) del ceto politico leghista. Ma se così fosse, rimarrebbe comunque posto e non risolto un malessere che, in alcune delle aree più produttive del paese, ha assunto le forme (risalenti e attuali) della minaccia secessiva, più o meno strisciante, più o meno credibile. Un malessere che chiede comunque di essere riconosciuto (se non perfino legittimato) e governato con politiche istituzionali e costituzionali all’altezza della serietà della sfida e della gravità della minaccia.
Visto dalla prospettiva del Sud, questo malessere assume soprattutto le forme di una forte attenzione delle (diverse) mafie territoriali volto al controllo delle amministrazioni pubbliche, sia autonomistiche che decentrate. Non mancano – naturalmente – resistenze e di qualità! Innanzitutto, quelle di magistrati coraggiosi, determinati a non arretrare rispetto all’obiettivo della garanzia della legalità e dello stato di diritto. Non mancano neppure politiche lungimiranti di contrasto dei tentativi di penetrazione mafiosa nelle amministrazioni territoriali, mettendo al riparo appalti e contratti pubblici. L’istituzione di Stazioni Uniche Appaltanti ne costituisce una buona riprova.
Facendo un passo indietro e guardando direttamente in faccia alla composita realtà politico-istituzionale che andiamo osservando, non possiamo non rilevare come, nell’ottica delle questioni analizzate, il modello costituzionale della “Repubblica delle autonomie” disegnato dalle riforme costituzionali del 1999/2001, nel fondo, registri molti limiti.
Quanto al riadeguamento della distribuzione delle competenze (poteri) tra stato, regioni ed enti locali secondo un criterio razionale e di adeguatezza (che rapporta l’interesse da governare con il livello istituzionale più adeguato nel farlo), la Corte costituzionale, da anni, sta procedendo nel ridisegno della mappa dei poteri pubblici che era stata malamente disegnata dal legislatore di riforma costituzionale (fra competenze esclusive dello stato e competenze concorrenti e/o esclusive/residuali delle Regioni). Per il resto, si registra un evidente scollamento tra le aspettative/previsioni autonomistiche (di comuni, province, città metropolitane e regioni) e la loro mancata partecipazione in una istanza costituzionale idoneamente prevista allo scopo e capace di assicurare la volontà partecipativa (multilaterale) del sistema autonomistico alla formazione della volontà dello stato. La trasformazione del Senato della Repubblica in una “Camera delle autonomie” costituiva (e costituisce tuttora) la scelta obbligata per un modello come quello delineato dalla riforma costituzionale. L’accesso anche degli enti locali alla Corte costituzionale avrebbe dovuto (e dovrebbe tuttora) accompagnare una simile strategia di riforma, per assicurarne quella equi-ordinazione che la riforma costituzionale ha voluto sancire.
Accanto alle incertezze politiche e istituzionali connesse alla distribuzione territoriale delle competenze, si registrano ulteriori questioni connesse all’abrogazione delle disposizioni costituzionali relative ai controlli sugli atti amministrativi delle regioni e degli enti locali (nonché degli enti da questi dipendenti), che ha lasciato spazio alle incursioni indebite e illegittime della politica. Una politica spesso alleata con la burocrazia per l’organizzazione del clientelismo e di un vero e proprio affarismo volto a conseguire finalità non certo politico-partitiche ma di appropriazione privata, secondo una tradizione risalente nella vita politico-istituzionale del paese[43]. Nelle regioni meridionali tutto questo ha comportato (e tuttora comporta) l’evidente necessarietà del ricorso al giudice penale, con gli effetti delegittimanti (dell’azione amministrativa) che tale intervento produce agli occhi dei cittadini. Le casse dello stato e con esse il principio di legalità ne hanno pagato lo scotto. La Corte dei Conti nei suoi Report per il Governo dà pienamente conto di questa evidente débacle dell’Erario: enti territoriali e aziende sanitarie locali dell’intero paese ultra-indebitati e con essi il riscontro pieno del fallimento delle politiche istituzionali in materia di gestione dei servizi sanitari mediante il ricorso a dirigenti managers.
A fronte di un simile quadro si colloca la sfida costituita dal federalismo fiscale, che, nel dare attuazione alle previsioni costituzionali in materia (art. 119 Cost.), viene motivato soprattutto con l’esigenza (politico-istituzionale) della responsabilizzazione della classe politica e di governo regionale e locale. Salvo ad analizzare, come faremo in altra occasione, alcuni dubbi di (in)costituzionalità di talune disposizioni della legge n. 42/2009 (di attuazione dell’art. 119 Cost., in tema di federalismo fiscale), gli obiettivi di responsabilizzazione istituzionale del ceto politico dei governi regionali e locali sono indubbiamente da condividere. Direi perfino che non si potrebbero comprendere le ragioni di chi questo obiettivo non dovesse (o non volesse) condividere. In questo senso, si può forse spiegare il voto maggioritario del Parlamento nell’approvarne la legge (di delega) di attuazione. Naturalmente, l’analisi dovrebbe a questo punto profondersi sulla grave crisi registrata dai partiti politici, che li ha trasformati, nella loro gran parte, in “partiti personali” e comunque in strutture comunitarie del tutto prive di democrazia interna, per come richiede la Costituzione. In tema di attuazione del federalismo, inoltre, permane il ragionevole dubbio che le previsioni di attuazione possano discriminare in modo inaccettabile le regioni meridionali rispetto a quelle del Nord. Una simile previsione qualora confermata farebbe correre il rischio della introduzione di una politica fiscale che evocherebbe in modo sinistro la “tassa sul macinato” introdotta dai governi postunitari, che fu all’origine, secondo la gran parte degli storici, del fenomeno del brigantaggio nelle regioni meridionali. In quella tragica occasione, la repressione fu il solo strumento che lo stato liberale seppe maneggiare per riportare la situazione sotto controllo[44].
È da auspicare che simili dubbi possano risultare effettivamente eccessivi. Rimane tuttavia che, se così non fosse, quel solco già profondo a suo tempo tracciato a divisione del Nord dal Sud del paese, a seguito delle politiche repressive dei primi governi liberali dello stato postunitario, continuerebbe ad approfondirsi – questa volta sì – rischiando di rompere in modo grave e forse definitivo l’unità nazionale e con essa la stessa legittimazione politica dello stato. Quest’ultima venne alla luce, come abbiamo ricordato in precedenza, appena centocinquanta anni fa! Un tempo ancora troppo breve per il prodursi di pratiche di tranquilla continuità e di stabilità politico-istituzionale. Si trattava, infatti, per come abbiamo sottolineato più volte, di una unità del paese nata in modo precario, in quanto fondata più sulla lungimiranza democratica, liberale e laica di minoranze illuminate, che avevano promosso e accompagnato il Risorgimento nei suoi passi, che sul diffuso consenso politico delle popolazioni e dei territori un tempo parti delle statualità poi confluite/annesse allo stato, al momento della unificazione politica del paese. Un’analisi – quest’ultima – che può risultare convincente quando si rifletta al consenso prestato – nella fase post-eroica della “impresa dei Mille” – da parte delle popolazioni meridionali, culturalmente e perfino idealmente conformate alle politiche del Regno (borbonico) delle Due Sicilie prima, drammaticamente impoverite (nella economia e nelle libertà) dalle politiche repressive e dalle politiche tributarie della Casa Savoia successivamente[45]. Le prime e le seconde ponendo le premesse di un dualismo Nord-Sud e di una “freddezza astiosa” verso lo stato centrale e i governi territoriali (che non può non cogliersi)!
Se una razionalità di fondo potesse essere individuata nel trascorrere dei decenni, dei regimi e degli uomini politici, come anche nelle forme organizzative e nelle culture delle popolazioni nel loro relazionarsi con le forme statuali, in conclusione, l’Unità d’Italia, (soprattutto se) vista dalle regioni meridionali del paese, racconta di un processo unitario di alto valore ideale e politico, una vera e propria sfida storica allorché la stessa fu progettata dalla intellighentia risorgimentale, dalle ispirazioni ideali liberal-democratiche, e portata a esistenza con lungimiranza culturale e politica (pur nel quadro di artifici militari e di ipocrisie diplomatiche).
Per troppi profili, tuttavia, come si è detto in precedenza, si tratta di un processo incompiuto, tuttora aperto al divenire delle dinamiche economiche, culturali e politico-istituzionali. Un processo che per raggiungere i suoi obiettivi deve accompagnarsi con un ceto politico ispirato al rispetto dell’etica pubblica e del principio di legalità, con la definizione di procedure amministrative chiare e trasparenti che assicurino il rispetto delle regole dello stato di diritto, in unum con la presenza diffusa delle istituzioni statali nelle regioni meridionali[46]. Questo tema, come si vede, rinvia alla necessità di riqualificazione della politica e di ripensamento delle forme di selezione delle rappresentanze alle cariche istituzionali. È la prima delle questioni da affrontare con determinazione nell’ambito di uno stato che voglia recuperare pienamente il superamento della “democrazia per ceti” a favore di una “democrazia di massa” capace di farsi carico, di rappresentare e integrare le masse nello stato.
Tanto ricordato del ruolo fondamentale della cultura (e per questo dell’assoluta centralità della istruzione pubblica) e della politica (per assicurare effettività alla partecipazione), rimane comunque che una riflessione può farsi con riguardo all’esigenza di forme istituzionali politicamente adeguate a rappresentare la volontà del superamento dello stallo politico-istituzionale nel quale da tempo il paese si è ricacciato. Per tali forme istituzionali si potrebbe ipotizzare il ricorso a intese interregionali forti (e in qualche modo obbligatorie), ovvero a macro-regioni già ipotizzate in dottrina[47]. In ambedue i casi saremmo in presenza di un aggravamento procedurale dovuto al necessario procedimento di revisione costituzionale. Una simile idea è stata da tempo illustrata da autorevoli studiosi, ancorché senza ricadute di pregio nel dibattito pubblico (né in senso adesivo né per contrastarla). Si tratterebbe, in questa ottica, di progettare e mettere in campo un nuovo soggetto istituzionale, un «vero e proprio stato federale del Mezzogiorno»[48]. Un’idea, quest’ultima, che porta a concludenza operativa progettazioni suggerite da riconosciuti conoscitori della questione meridionale, come Dorso [49] e Salvemini[50], e che suggerisce forme autonome di governo del Mezzogiorno, naturalmente ancorate a un quadro costituzionale “autenticamente federalista”. In tale ottica, si tratterebbe di superare l’attuale regionalismo «che ha frammentato la questione meridionale, favorendo la formazione di clientele locali e perdendo di vista l’unità del problema»[51], in favore di un governo del Mezzogiorno come soggetto politico unitario, capace di affrontarne le grandi tematiche di struttura (economica, politica e istituzionale) e di prospettiva.
La novità più significativa di una simile idea risiederebbe nel superamento delle attuali concrezioni presenti (ancorché in forme e intensità diverse) nel regionalismo meridionale, a favore di una nuova intesa, di un nuovo patto politico e istituzionale (ma anche costituzionale) che individua l’ambito ottimale per il governo degli interessi in campo in ragione della dimensione degli interessi e dunque allargandone la prospettiva al macroterritorio meridionale. Un simile processo – secondo tale idea progettuale – potrebbe validamente accompagnare il (necessario) ricambio della classe politica meridionale, avviando la formazione di un nuovo ceto politico regionale (competente, giovanile, dotato di etica pubblica e orientato politicamente) con capacità di governo adeguate alle sfide di un territorio allargato che, nei fatti, coincide più o meno con l’ambito territoriale di sovranità dell’antico Regno delle Due Sicilie (dal basso Lazio fino alle regioni meridionali e alla Sicilia, includendo l’Abruzzo e il Molise). Un simile progetto, inoltre, guarderebbe all’Europa come nuovo ambito dimensionale e istituzionale al quale aprirsi per la soluzione dei problemi locali. Esso assicurerebbe alla stessa unità del paese di potersi rinsaldare sulla base di una unità che valorizza i territori, li rinsalda in una rete solidaristica, li riconosce quali portatori di culture proprie da proteggere, li rafforza in un inedito e più forte federalismo che guarda all’Europa misurandosi con le realtà regionali più mature.

5. Unificazione politica e modelli di governo locale
Tali tematiche, oltre alle più generali questioni poste dalla implementazione (legislativa e amministrativa) della riforma regionale, coinvolgono la stessa questione delle forme di organizzazione territoriale del potere, in breve la forma di stato e i relativi modelli di governo locale. Se i corpi sociali, che un tempo erano parte di ordinamenti statuali diversi, si sono riunificati nella formazione dello stato italiano, é importante approfondire l’origine e lo statuto giuridico dei governi regionali e locali. In tale ottica, è importante cogliere, in materia di rapporti tra centro e periferia, le modalità di formazione e di evoluzione dello stato liberale, fino alle soluzioni offerte dalla Costituzione repubblicana, nella parte in cui statuisce che l’Italia è «una e indivisibile».
Il modello di governo locale che resterà vigente fino alla Costituzione repubblicana si è fissato nell’ordinamento italiano intorno alla metà dell’Ottocento ed è rimasto pressoché inalterato fino ai primi anni Novanta del secolo che abbiamo appena lasciato alle spalle[52]. Il testo normativo, dal quale sono state tradizionalmente create e ordinate le istituzioni “storiche” del governo locale italiano è la legge comunale e provinciale (del 1865).
L’occupazione napoleonica prima, e l’istituzione del Regno italiano, dopo, avevano prodotto la diffusione in tutti gli stati italiani del sistema francese di governo locale, sistema che venne conservato anche con la restaurazione. In sintesi, il sistema francese di governo locale, delineato in modo definitivo dal regime napoleonico, costituiva elemento essenziale e coerente della complessiva struttura accentrata dello stato propria di quel regime. Esso s’ispirava fondamentalmente a due criteri fondamentali: quello della totale uniformità delle strutture amministrative locali, egualmente formate e dotate di competenze omologhe per tutto il territorio statale e il principio della limitata autonomia degli enti locali, rigidamente “governati” dall’apparato statale: dal ministro dell’Interno e, soprattutto, dai prefetti come suoi rappresentanti locali (donde il nome di “sistema prefettizio”) fino agli intendenti di Finanza.
La sola eccezione alla generale diffusione del modello francese negli stati italiani era rappresentata dal Lombardo-Veneto, in cui vigeva l’ordinamento voluto da Maria Teresa d’Austria nel 1755, ripristinato con modificazioni nel 1816. Questo modello si presentava per molti profili come antitetico al modello francese: esso disponeva la classificazione e una certa diversa organizzazione dei comuni, al posto della loro uniformità organizzativa; e, soprattutto, appariva più rispettoso dell’autonomia degli enti e delle comunità locali, in quanto prevedeva l’elezione (e non la nomina dall’alto) di tutti gli amministratori locali, prevedendo forme di democrazia diretta nei piccoli comuni.
Con la prima legge comunale del 1859[53], l’Italia abbandona il (più aperto) modello lombardo-veneto, contenente forme di elettività sia pure temperate, optando per il modello dell’accentramento e dell’uniformismo. Quest’ultimo, prevede – nella fase originaria – un Sindaco di nomina regia e, quali organi necessari, il consiglio e la giunta, sottoposti – questi ultimi – a un controllo molto rigido, che qualche anno più tardi si rafforzerà ulteriormente durante il Governo (del socialista) Giolitti. Durante la permanenza al potere della Sinistra (1876-1903) [54], si assiste a una riduzione dell’autonomia locale attuata mediante l’applicazione del principio, di chiara matrice francese, dell’uniformismo amministrativo come regola basilare di organizzazione dei governi locali. In termini più semplici, non si riconoscono differenziazioni tra i comuni (grandi o piccoli che siano), operando per tutti indistintamente lo stesso modello organizzativo, lo stesso sistema di organi, lo stesso regime di controlli; dunque, non si ha alcun riconoscimento del pluralismo territoriale evincibile nelle forme di organizzazione del governo locale chiamato a farsi carico delle competenze di volta in volta assegnate dal centro. Addirittura, nel mentre si consumava, a livello territoriale, un dibattito volto a definire un modello di governo locale in qualche modo più espressivo delle comunità locali, viene prevista una riserva di giustizia per il prefetto e per il sindaco. Per questi soggetti dell’ordinamento locale e decentrato, cioè, l’eventuale sottoposizione a giudizio era subordinata a una previa autorizzazione regia, palesandosi in tal modo la piena consustanzialità al potere centrale delle istituzioni locali.
Su questa originaria connotazione si sono innestati, ancorché senza successo, gli intenti riformisti di Cavour e di due suoi ministri degli interni, Giuseppe La Farina e Marco Minghetti. La svolta centralizzatrice si ebbe con i decreti del 9 ottobre 1861, con i quali si segnava la fine dell’autonomia toscana e della luogotenenza di Napoli, a cui si estendeva la legge Rattazzi[55]. Consumata la spinta autonomistica, l’emanazione della prima legge comunale e provinciale italiana avvenne nel quadro dell’operazione di unificazione legislativa compiuta nel 1865. Con Minghetti, per la prima volta, le regioni si affacciano nel panorama delle istituzioni locali della neonata Italia unita. Questo ministro degli Interni (e importante uomo politico del tempo) immagina un “regionalismo per unire” e non per dividere e, dunque, un ruolo delle regioni nel quale queste ultime erano chiamate ad agevolare il processo di unificazione ed essere strumento provvisorio di governo locale. Il disegno immaginato da Minghetti per le regioni e per il sistema locale, in realtà, si è scontrato con una storia alquanto diversa[56]. Dopo Cavour e chi lo segue nel governo del paese, sia Crispi ma soprattutto Giolitti, i controlli sugli enti locali, infatti, si fanno talmente puntuali e pedissequi da accompagnarsi con forme di controllo sostitutorio (scioglimento dei consigli comunali e provinciali), come forme di sanzione, tutte le volte che tali organi e soggetti territoriali avessero messo in essere comportamenti lesivi delle leggi. Giolitti spinge ancora oltre l’accentramento, intensificandolo, pur se la sua formazione politica avrebbe dovuto, piuttosto, portarlo a riconoscere forme di deciso decentramento. Dove Giolitti, in realtà, opera uno spazio di apertura è nel campo della municipalizzazione dei servizi pubblici; la legge in materia del 29 marzo 1903, n. 103, per la prima volta, riconosce uno spazio importante ai municipi in materia di esercizio di alcuni servizi mediante consorzi, società municipali. Si trattava di un fenomeno, che si veniva sviluppando sotto la spinta socialista, e attraverso la quale i comuni andavano alla ricerca di una loro identità e di un loro ruolo sociale e politico.

6. Istituzioni territoriali, politica e riforme
Nel quadro dei tanti profili meritevoli di approfondimento, relativamente al tema di analisi prescelto, proporremo ora alcune brevi riflessioni conclusive volte a farsi carico di una tematica che era e (tuttora) rimane centrale negli studi e nella pratica del diritto costituzionale italiano: quella dei rapporti tra autonomia politica e autonomia territoriale nel quadro di una forma di stato pluralistica costituzionalmente fondata sulla democrazia partecipativa. Come è noto, soprattutto alla luce del fallito tentativo della maggioranza di centro-destra (nella precedente legislatura) di varare modifiche di rilievo della Costituzione, possiamo ben confermare come il regionalismo italiano non sia di tipo federalistico, se non nella esasperazione mitica di qualche leader e di qualche “Vandea” regionale, per mere esigenze territoriali e di propaganda politica[57].
Nella concreta realtà, la storia del regionalismo italiano si coniuga felicemente con una delle categorie interpretative del costituzionalismo maggiormente contestate dalla dottrina, ancorché frequentata nel discorso politico e nell’analisi scientifica: la nozione di “costituzione materiale”. Costantino Mortati ne aveva approfonditamente trattato nei suoi studi[58]. Pur rifiutandosi di assegnarle capacità ermeneutiche idonee a mettere in questione l’interpretazione del testo costituzionale, la dottrina costituzionalistica da tempo ne ha tratto tutte le conseguenze, limitandosi a coglierla come idonea a identificare lo iato esistente tra il testo costituzionale e l’attuazione pratica che ne veniva (e ne viene) data. È appunto in questo genere di lettura – organica a mettere in tensione dialettica un testo costituzionale formale con la sua attuazione – che devono cogliersi le complesse e dinamiche relazioni venutesi a determinare nel paese tra un sistema costituzionalizzato di autonomie regionali e locali (art. 5 e tit. V Cost.) e un inedito sistema di partiti. Specie quando quest’ultimo – sulla base del consenso assicuratogli dal “patto costituzionale” tra cattolici, marxisti e liberali (risorgimentali) – si è candidato a svolgere una funzione di democratizzazione del paese, riuscendo ampiamente nel compito, anche se in uno scenario non indifferente alle scelte di lottizzazione dello stato (Giuliano Amato ha lucidamente parlato, a questo proposito, di “governo spartitorio”).
Nell’ottica appena accennata si è pure affacciata la problematica dell’effettività delle disposizioni costituzionali, cioè della loro idoneità pratica a conformare i comportamenti degli attori del sistema politico e sociale. In questa dialettica politico-costituzionale, ritroviamo prassi amministrative e comportamenti delle istituzioni rappresentative che si discostano dalla previsione costituzionale, nel senso che quest’ultima, nella fase della sua attuazione, veniva/viene concretamente asservita al ruolo monopolista svolto, nella democrazia del paese, dalle forze politico-partitiche. Lo “stato dei partiti” e la “democrazia dei partiti” costituiscono l’esito di tale processo, per come la migliore dottrina costituzionale ha sottolineato. Uno stato e un modello di democrazia – tuttavia – che vedono operare, per più di una metà di secolo, la scelta di non dare piena attuazione a quel pluralismo istituzionale rappresentativo delle più significative novità istituzionali e costituzionali dello stato repubblicano. Ne è seguita, in tal modo, quella “convenzione”, nei fatti contra constitutionem, consistente: a) in un “congelamento” quasi trentennale, della Costituzione nelle disposizioni relative all’attuazione (per la prima volta nella storia del paese) del regionalismo; b) in un congelamento, per un periodo ancora maggiore (fino alla legge n. 142/1990 e al successivo Tuel), delle disposizioni costituzionali volte a dare piena attuazione al ruolo e alle funzioni delle autonomie locali; c) in un congelamento, infine, ancorché temporalmente più breve, di disposizioni fondamentali di primaria garanzia costituzionale, come quelle relative al varo del Consiglio superiore della magistratura e della Corte costituzionale.
La conclusione che se ne è tratta, infatti, non pare molto esaltante rispetto alla considerazione normativistica del diritto e di quello costituzionale in particolare. In concreto, si è dovuto prendere atto, da taluni con insofferenza e con significativi ritardi nelle relative analisi, che la Costituzione in molte sue parti era rimasta “una Costituzione di carta”, rispetto alla quale altre regole materiali si erano concretamente imposte. Regole ideate e praticate da un sistema di partiti politici che, nella storia politica del paese, ha imposto la propria centralità e il relativo protagonismo (più di uno studioso ha inquadrato tale tema con il riferimento alla logica del monopolio), obnubilando il ruolo e la natura di inner law propria della Costituzione scritta.
L’esito contraddittorio di tale oscuramento della Costituzione formale, invero, ha registrato manifestazioni in gran parte positive con riferimento sia agli effetti della partecipazione politica di tipo partitico che di quella referendaria nonché della partecipazione sociale diffusa. Ciò è accaduto anche relativamente alla graduale e importante attuazione di diritti sociali (come l’istruzione e la salute), che hanno concorso (e contribuito) in modo significativo al processo di democratizzazione del paese e alla stessa sua modernizzazione negli apparati economici e di accompagnamento delle trasformazioni sociali ed economiche. Tuttavia, la positività di tali esiti si è accompagnata, fin dalla prima ora, con una capacità pervasiva del sistema politico-partitico sul sistema economico (pubblico e privato), nonché sull’amministrazione pubblica, dando vita a ciò che la politologia e la sociologia politica hanno ben colto con le categorie della “lottizzazione” e del continuum politica-amministrazione.
Detto in grande sintesi, tale processo appare centrale da richiamare per comprendere le sorti concrete del regionalismo del paese, alla ricerca delle sue ragioni, diremmo strutturalmente politiche, e della relativa debolezza istituzionale. Una debolezza che permane – fino ad acuirsi – anche dopo la crisi del modello del “partito di massa” e la relativa delegittimazione a partire dai primi anni Novanta, ma che, cionondimeno, ha aperto concrete possibilità per una ripresa delle strategie istituzionali volte a dare piena attuazione al modello costituzionale del pluralismo istituzionale inscritto nella Costituzione, sia come principio ispiratore (art. 5) sia nelle analitiche disposizioni di attuazione (Titolo V Cost.). Un modello – quest’ultimo – che, per l’evidente discontinuità rispetto al recente passato politico-istituzionale, qualcuno ha ben pensato di qualificare semplicisticamente come federalistico, volendo con ciò probabilmente sottolineare tutte le esigenze di responsabilizzazione dei governi regionali e delle amministrazioni locali nella determinazione di politiche appropriate e differenziate per i diversi territori del paese.
In conclusione, dunque, si può affermare la difficoltà a ben comprendere l’attuazione della Carta costituzionale – rischiando di non cogliere cosa abbiamo alle spalle nella metà di secolo appena trascorso – senza avere culturalmente convissuto con l’idea di “costituzione materiale” di cui ci aveva parlato Mortati, intendendosi con tale nozione l’interpretazione delle disposizioni costituzionali in modo coerente e compatibile con le esigenze di protagonismo dei partiti della maggioranza di governo e, in tale quadro, con la determinazione delle politiche di sviluppo democratico e costituzionale dagli stessi perseguite.
All’interno dei governi fondati sulla base di tale interpretazione materiale della Costituzione sono state individuate e praticate strategie politiche unitamente a strategie costituzionali, che hanno visto la Carta costituzionale indifesa e anche vilipesa. Il baricentro dell’attenzione politica, ma anche della ricerca scientifico-costituzionale, si è quindi spostato all’esterno della Costituzione formale, nei partiti politici e, soprattutto, nella logica organizzativa che li ha caratterizzati fino agli anni Novanta del secolo scorso. Ciò è avvenuto con la nota clausola preclusiva (Leopoldo Elia l’ha ben definita conventio ad excludendum[59]) nei confronti del maggiore partito della sinistra, il Partito comunista e nei confronti del Movimento sociale (ancorché i voti parlamentari di quest’ultimo partito siano stati ampiamente utilizzati a supporto di molti governi di coalizione, a guida democratico-cristiana, succedutisi nel tempo). La Costituzione ha sofferto di tutto questo. Ha vissuto il congelamento di cui si è appena detto, costretta a sopportare la fase di una sua attuazione gradualistica, ivi compreso nell’ambito del regionalismo e dell’autonomismo. Ne ha registrato tutto lo scotto il ruolo delle autonomie politiche. Le altre autonomie, quelle territoriali – che, invero, conoscevano una definizione costituzionale della loro mission molto più precisa dal punto di vista della positivizzazione costituzionale, con ambiti competenziali molto ben disegnati e che per questo avrebbero dovuto poter funzionare di vita propria –, nella concreta realtà, sono risultate perdenti rispetto ai partiti politici e alle altre autonomie politiche, come quelle sindacali, previste nella Carta con un ruolo di sviluppo della democrazia partecipativa. La democrazia territoriale ha vissuto, quindi, di vita grama e di quella dipendenza dal centro, intendendo per tale “le teste pensanti” della rappresentanza politico-partitica, ovvero i vertici del sistema partitico nazionale.
Dopo gli eventi internazionali del 1989, si assiste, in Italia, a una sorta di eterogenesi dei fini per quanto concerne i rapporti tra sistema istituzionale e sistema politico. A partire da tale data, infatti, con la (piena esplicitazione della) crisi del sistema politico-partitico, il paese ritrova condizioni ottimali affinché le autonomie regionali e quelle locali riprendano lo spazio di protagonismo istituzionale che già la Costituzione del ’48 aveva per esse previsto ma che la “costituzione materiale” aveva, nei fatti, se non proprio negato, fortemente svalutato. Alla fine del decennio ritroviamo, così, le riforme costituzionali del 1999/2001, che vanno a rafforzare la forma di governo regionale, con la disponibilità offerta (costituzionalmente) alle regioni di optare (in sede di statuto) tra un modello di elezione diretta del presidente della giunta regionale e un modello di elezione consiliare (in tale caso, in continuità con il passato). Un rafforzamento dell’Esecutivo che per molte regioni ha significato, nei fatti, un suo indebolimento, quando si rifletta alla inadeguatezza di quelle opzioni statutarie che hanno ritenuto di poter svalorizzare il ruolo e le funzioni di partecipazione politica istituzionalizzata dei partiti politici. Nel 2001, il processo riformistico arriva a piena maturità con la costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà (verticale e orizzontale, melius istituzionale e sociale), con la valorizzazione dei comuni nell’esercizio della funzione amministrativa e con il rafforzamento (ancorché in gran parte incerto e confusionario) delle competenze legislative delle regioni. In conclusione, dunque, non possiamo comprendere le ragioni profonde della crisi del regionalismo italiano, perdurata anche dopo la riforma costituzionale del 2001, se non teniamo in considerazione che, fino al 1989, si è registrato un protagonismo politico-istituzionale del sistema politico-partitico e una caratterizzazione di tale sistema come poco o per nulla rispettoso della regola costituzionale del “metodo democratico” imposta alla vita interna dei partiti politici.
Nei confronti di tale sistema, dopo il 1989, si è verificato un effetto dirompente, con la crisi del modello del partito politico di massa, che ha visto riscrivere le regole culturali, ideali, statutarie, di riferimento di questi importanti centri politico-comunitari che, per moltissimi profili e con diverso esito, hanno costituito una parte centrale, la vera “architrave”, della vitalità democratica e del costituzionalismo del paese nel sessantennio che abbiamo alle spalle. Così, soprattutto in ragione della vitalità politica della nostra Costituzione, pienamente confermata dal “patriottismo costituzionale” espresso dal corpo elettorale in sede referendaria, nei sessant’anni appena trascorsi, il tema centrale della politica costituzionale era quello di dare attuazione alla Costituzione in tutte le sue parti – e il Titolo V ne costituiva indubbiamente una parte centrale e innovativa rispetto allo stato liberale.
Oggi abbiamo un altro tema centrale che è dato dalla crisi della politica, ove quest’ultima è rappresentata da un ceto affannato nella vana ricerca del suo ruolo di tramite, importante ma non certo esclusivo, rispetto all’attuazione della Costituzione. Per tale ragione, occorre riprendere tale tematica onde bloccare (o almeno limitare) le pericolose derive plebiscitarie e populistiche in corso da almeno un ventennio nel sistema politico-istituzionale del paese; occorre riprendere tutte le ragioni volte a sostenere – a partire dalla dottrina più avvertita per continuare con tutti i cittadini – un forte senso etico-politico, le ragioni della morale pubblica, quella “eticità repubblicana” senza il cui rispetto rischierebbe di venir meno lo stesso consenso diffuso assicurato fin qui alla Carta costituzionale. Occorre, per questo, far diventare strategica nella politica istituzionale del paese, delle regioni e delle comunità locali, la tematica della riqualificazione della rappresentanza politica e con essa il rafforzamento delle funzioni e delle organizzazione rappresentative.
Nell’ottica di una compiuta legittimazione democratica dello stato repubblicano e dello stesso superamento delle fratture presenti nel paese, rispetto a una condivisa identità nazionale, occorre ricercare e convenire su una tavola comune di valori democratici, sui quali non è dato confliggere politicamente e culturalmente ma che vanno accolti come presupposto a ogni confronto politico e ideale. L’obiettivo di una simile strategia (culturale e politica) è quello di portare a compiuta maturazione il modello di democrazia costituzionale elaborato sessanta anni addietro, nella fase costituente (patto costituzionale) tra le forze politiche popolari, operando in tal modo un ricongiungimento sotto l’alveo costituzionale delle distinte (e ancora conflittuali) identità politiche, espressioni di diverse e risalenti “comunità di valori”, per troppo tempo indisponibili ad ascoltare le ragioni dell’altro. La conclusione, così, rinvia alla sottolineatura di una necessarietà culturale, politica e storica, quella di una ricongiunzione tra identità nazionali fin qui praticate nel paese e stato repubblicano. Un mancato perseguimento di un simile obiettivo lascerebbe il Paese combattuto sulla piena validità dei suoi valori costituzionali e sulla relativa loro idoneità a costituire motivo di superamento delle divisioni e della definitiva condivisione dell’Unità nazionale. Un contrasto – questo – che impedirebbe il necessario consenso sui processi di riforma utili se non anche necessari, sia nella razionalizzazione della forma di governo parlamentare sia nella modernizzazione dei processi e degli apparati amministrativi.

Silvio Gambino

[1] – Per i profili comparati, tra gli altri, cfr. almeno Paolo Biscaretti Di Ruffia, Corso di diritto pubblico comparato, Giuffrè, Milano, 1984; Giuseppe De Vergottini, Diritto costituzionale comparato, Cedam, Padova, 1981; Idem, Modelli comparati di autonomie locali, in Aa.Vv. ,Atti del corso sul tema Organizzazione e diritto delle regioni, Supplemento al «Bollettino di legislazione e documentazione regionale», 2-12 marzo] 1982[, pp. 73-102]; Giorgio Lombardi, Premesse al corso di diritto pubblico, Giuffrè, Milano, 1986; Alessandro Pizzorusso, Corso di diritto comparato, Giuffrè, Milano, 1983; Costantino Mortati, Le forme di governo, Cedam, Padova, 1973; Leopoldo Elia, Governo (forme di), in Enciclopedia del diritto, (ad vocem), Giuffrè, Milano.
[2] – Cfr. Francesco Barbagallo, Da Crispi a Giolitti. Lo Stato, la politica, i conflitti sociali, in Giovanni Sabbatucci e Vittorio Vidotto (a cura di), Storia d’Italia, vol. III. , Liberalismo e democrazia 1887-1914, Laterza, Roma-Bari, 1995.
[3] – Nella letteratura in lingua italiana, cfr., almeno, Piero Aimo, Stato e poteri locali in Italia (1848-1995) , Carocci, Roma, 1997.
[4] – Cfr. Massimo Severo Giannini, I pubblici poteri negli Stati pluriclasse, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», XXIX, 1979; Sabino Cassese, I caratteri originari e gli sviluppi attuali dell’amministrazione pubblica italiana, in «Quaderni costituzionali», n. 3, 1987; Idem, Concentrazione e dispersione dei poteri pubblici, in «Il comune democratico», 1983, n. 3, P. Biscaretti di Ruffia, La regionalizzazione in Europa occidentale (Introduzione), in Aa.Vv., La regionalizzazione, Archivio Isap, Milano, 1983; Giuseppe Bognetti, Le regioni in Europa: alcune riflessioni sui loro problemi e sul loro destino, in «Le regioni», n. 6, 1984; Luciano Vandelli, Poteri locali, il Mulino, Bologna, 1990.
[5] – Sul punto, sia consentito rinviare anche al nostro Partiti politici e forma di governo, Liguori, Napoli, 1977.
[6] – Cfr. Lucy Riall, Il Risorgimento. Storia e interpretazioni, Donzelli, Roma, 1994; Alberto Mario Banti, La nazione del Risorgimento, Einaudi, Torino, 2000; Derek Beales ed Eugenio Bigini, Il Risorgimento e l’unificazione italiana, il Mulino, Bologna, 2002.
[7] – Tra altri, cfr. Aa.Vv., La Rivoluzione Napoletana del 1799, Napoli, Antonio Morano, 1899, rist. an. [8] – Cfr. Giuseppe Ressa, Il Sud e l’Unità d’Italia, edizione elettronica a cura del Centro culturale e di Studi storici “Brigantino – Il portale del Sud”, Napoli, 2004 e soprattutto Carlo Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia (1848-1948), Laterza, Roma-Bari, 1983 (cap. III dedicato alla Unificazione politica e alla costruzione dell’apparato statale).
[9] – Cfr. Roberto Martucci, L’invenzione dell’Italia unita (1855-1864) , Sansoni, Firenze, 1999.
[10] – Cfr. Denis Mack Smith, Storia della Sicilia medievale e moderna, Laterza, Roma-Bari, 1976; Angelantonio Spagnoletti, Storia del Regno delle Due Sicilie, il Mulino, Bologna, 1997.
[11] – Cfr. Giuseppe Mazzini, Scritti editi ed inediti, Imola, 1906-90, vol. LXXVII; Idem, Pensieri sulla democrazia in Europa, Feltrinelli, Milano, 2007 (ultima edizione a cura di Salvo Mastellone). Tra gli altri, cfr. anche Roland Sarti, Giuseppe Mazzini e la tradizione repubblicana, in Maurizio Ridolfi (a cura di), Almanacco della Repubblica. Storia d’Italia attraverso le tradizioni, le istituzioni e le simbologie repubblicane, Mondadori, Milano, 2003.
[12] – Cfr. Alfonso Scirocco, Garibaldi, Laterza, Roma-Bari, 2001; Aleksandr Ivanovic Herzen, Mazzini e Garibaldi,E/O, Roma, 1995.
[13] – Cfr. Luciano Cafagna, Cavour, il Mulino, Bologna, 2002; Rosario Romeo, Cavour e il suo tempo, Bari, 1969.
[14] – In particolare, si veda l’opera (postuma) Alessandro Manzoni, La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859. Osservazioni comparative, in Edizione nazionale ed europea delle Opere di Alessandro Manzoni , Centro nazionale Studi manzoniani, Milano, 2000.
[15] – Cfr. Federico Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Laterza, Bari, 1951; R. Martucci, L’invenzione dell’Italia unita…, cit., pp. 243 ss.
[16] – Cfr. C. Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia) , cit.; C. Ghisalberti, Stato Nazione e Costituzione nell’Italia contemporanea, Napoli, 1999; Fulvio Cammarano, Storia politica dell’Italia liberale, Bari, 1999; R. Martucci, L’invenzione dell’Italia unita…, cit.; A. Banti, La nazione del Risorgimento , cit.; Giorgio Lombardi, Principio di nazionalità e fondamento della legittimità dello Stato (Profili storici e costituzionali) , Giappichelli, Torino, 1975; Marco Cossutta, Stato e Nazione. Un’interpretazione giuridico-politica, Giuffrè, Milano, 1999.
[ 7] – Cfr. Agostino Giovagnoli, Storia d’Italia, storia della Repubblica. Le interpretazioni e le discussioni storiografiche, in M. Ridolfi (a cura di), Almanacco della Repubblica…, cit.
[ 8] – Cfr. Claudio Pavone, Le idee della Resistenza: fascisti e antifascisti di fronte alla tradizione del Risorgimento (1959) , ora in Idem, Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Bollati Boringhieri, Torino, 1995; Massimo Baioni, Miti di fondazione. Il Risorgimento democratico e la Repubblica,, in M. Ridolfi (a cura di), Almanacco della Repubblica…, cit.
[ 9] – Cfr. Pietro Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico 1945-1996) , il Mulino, Bologna, 1997; Maurizio Fioravanti, Costituzione, amministrazione e trasformazione dello Stato, in Aldo Schiavone (a cura di), Stato e cultura giuridica in Italia dall’unità alla Repubblica, Laterza, Roma-Bari, 1990.
[20] – Cfr. Umberto Chiaramonte, Il dibattito sulle autonomie nella storia d’Italia (1796-1996). Unità – federalismo – Regionalismo – Decentramento, Franco Angeli, Milano, 1998; Idem, Le autonomie nella storia d’Italia, in Storia contemporanea in Friuli, 1999, n. 30.
[21] – Cfr. G. Ressa, Il Sud e l’unità d’Italia, cit.
[22] – Cfr. Lorenzo Del Boca, Indietro Savoia, Piemme, Milano, 2003.
[23] – Cfr. D. Mack Smith, Il Risorgimento italiano. Storia e testi, Laterza, Roma-Bari, 1999. Nella stessa ottica, Paolo Mieli (Storia e politica. Risorgimento, fascismo e comunismo, Rizzoli, Milano, 2001) sottolinea che «…la stagione risorgimentale e postrisorgimentale è fatta di migliaia di morti, lotte, spari, massacri… il popolo rimase sordamente ostile, perché legato all’autorità borbonica non percepita come nemica e alla Chiesa cattolica, che era una delle fonti istituzionali alle quali abbeverarsi. Il fenomeno ricordato nei nostri manuali come brigantaggio in realtà fu una guerra civile che sconvolse l’intero sud…».
[24] – Cfr. Benedetto Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, Laterza, Bari, 1932.
[25] – Cfr. Antonio Gramsci, Il Risorgimento, Einaudi; Torino, 1949.
[26] – Cfr. Stuart Joseph Wolf, Il Risorgimento italiano, Einaudi, Torino, 1981; R. Romeo, Risorgimento e capitalismo , Laterza, Bari, 1959.
[27] – Cfr. Umberto Cerroni, Precocità e ritardo nell’identità italiana, Meltemi, Roma, 2000; Sergio Romano, Storia d’Italia dal Risorgimento ai nostri giorni, Tea, Milano, 1998; Ferdinando Adornato, L’Unità e l’identità della Nazione di fronte alle sfide del XXI secolo, in «I Quaderni di Liberal» Dicembre 2009 (Supplemento al numero 4). [28] – Cfr. Umberto Levra, Fare gli italiani. Memoria e celebrazione del Risorgimento, Comitato di Torino dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Torino, 1992; Simonetta Soldani e Gabriele Turi (a cura di), Fare gli italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, il Mulino, Bologna, 1993; Fiorenza Tarozzi e Giorgio Vecchio (a cura di), Gli italiani e il tricolore. Patriottismo, identità nazionale e fratture sociali lungo due secoli di storia, il Mulino, Bologna, 1999.
[29] – Cfr. Norberto Bobbio, Carlo Cattaneo e gli Stati uniti d’Italia, Einaudi, Torino, 1945. Cfr. anche Marina Tesoro, Il federalismo democratico. Dal Risorgimento all’Assemblea Costituente, in M. Ridolfi (a cura di), Almanacco della Repubblica…, cit.
[30] – Cfr. Guido Carocci, L’allargamento del suffragio nel 1882, in Isabella Zanni Rosiello (a cura di), Gli apparati statali dall’Unità al fascismo,il Mulino, Bologna, 1976.
[31] – Cfr. C. Ghisalberti, Storia costituzionale…, cit.
[32] – Cfr., almeno, Gian Enrico Rusconi, Se cessiamo di essere una nazione. Una società tra identità nazionale e integrazione europea, il Mulino, Bologna, 1993; Idem, Patria e Repubblica, il Mulino, Bologna, 1997: Maurizio Viroli, Per amore della patria. Patriottismo e nazionalismo nella storia, Laterza, Roma-Bari, 1995; Ernesto Galli Della Loggia, La morte della patria. La crisi dell’idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica, Laterza, Roma-Bari, 1996.
[33] – Cfr. C. Ghisalberti, Storia costituzionale … , cit.; Adriana Petracchi, Le origini dell’ordinamento comunale e provinciale italiano, Neri Pozza, Venezia, 1962.
[34] – Tra gli altri, cfr. Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Nuovo Pensiero Meridiano, Madrid, 1983; Rosario Villari (a cura di), Il Sud nella storia d’Italia, Laterza, Bari, 1970; Marta Petrusewicz, Come il Meridione divenne una Questione, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1998; Salvatore Scarpino, La guerra ‘cafona’. Il brigantaggio meridionale contro lo Stato unitario, Boroli editore, Milano, 2005.
[35] – Cfr. Giorgio Ruffolo, Un paese troppo lungo. L’unità nazionale in pericolo, Einaudi, Torino, 2009.
[36] – Cfr. Robert David Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, Milano, 1993.
[37] – Cfr. Salvatore Lupo, Storia della mafia. Dalle origini ai nostri giorni, Donzelli, Roma, 2004.
[38] – Sabino Cassese l’ha descritta come “meridionalizzazione” della burocrazia pubblica, in Questione amministrativa e questione meridionale. Dimensioni e reclutamento della burocrazia dall’Unità ad oggi, Giuffrè, Milano, 1977.
[39] – Cfr. G. Ruffolo, Un paese troppo lungo …, cit.
[40] – A fronte di questo scenario, un solo dato per tutti al fine di ricordare come il Sud ha provato a risolvere i suoi problemi di sostanziale abbandono, nella fase postunitaria fino a epoca più recente: dal 1861 ai primi anni Settanta del Novecento, circa ventisette milioni di italiani sono emigrati all’estero (nelle Americhe e in Paesi europei); nei soli primi venti anni del Novecento, dei 4.711.000 italiani emigrati in America, ben 3.374.000 provenivano dal Mezzogiorno. Si tratta di cifre che, se confrontate con la più modesta emigrazione odierna dal continente africano, fanno seriamente riflettere sul vero e proprio spopolamento dell’Italia dopo e a seguito dei processi di unificazione politica del Paese (Andrew F. Rolle, Gli emigrati vittoriosi, Bur, Milano, 2003).
[41] – La definizione è sempre di Giorgio Ruffolo, op. cit.
[42] – Cfr. Antonino Spadaro, Costituzionalismo versus populismo (Sulla c.d. deriva populistico-plebiscitaria delle democrazie costituzionali contemporanee) , in Scritti in onore di Lorenza Carlassare, Jovene, Napoli, vol. V, 2009; Silvio Gambino, La forma di governo in Italia fra Parteienstaat e Premierato assoluto, in Scritti in onore di Franco Modugno (in corso di stampa).
[43] – Cfr. G. Marotta, Pasquale Saraceno. Unità nazionale e Mezzogiorno (Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli), per il quale «… il vero scontro (esistente nel Mezzogiorno d’Italia) è quello tra il potente, implacabile e spietato “blocco sociale” e lo Stato, tra la cultura mafiosa, cioè la cultura del non Stato, e la vera cultura che è quella delle istituzioni. Il vero obiettivo del “blocco sociale” non è lo sfruttamento del lavoro dei contadini e degli operai, ma è il saccheggio del pubblico erario attraverso procedure distorte e deroghe legislative e la riduzione a plebe, a mafia e camorra, di una parte delle nuove generazioni. Viene così impedita nel Mezzogiorno ogni possibilità di vita democratica e soffocato il respiro e l’affermazione dello Stato moderno. La violenza privata costringe intere popolazioni a vivere nella cultura del degrado, in una realtà urbanistica che è l’immagine palpabile della cultura del “blocco sociale” e del trionfo della pratica mafiosa e camorristica: strutture fatiscenti, da Agrigento a Napoli e al suo hinterland fino alla capitale della Repubblica e oltre, condizioni di disperata precarietà, un orrore ambientale e urbanistico. Un intero popolo è stato costretto ad emigrare in tutte le direzioni e a vivere in una situazione precaria di povertà o di semipovertà perché qualunque provvidenza dello Stato, qualunque risorsa degli enti pubblici viene rapinata e saccheggiata dal “blocco sociale” che impone la cultura del degrado, che abbassa ogni tentativo di cultura alla sub-cultura del privato, che costruisce pessime ed inutili opere pubbliche, riuscendo a strappare allo Stato e agli enti pubblici la programmazione e la direzione dei lavori pubblici e dei collaudi; che costringe la popolazione a vivere in abitazioni fatiscenti, in un degrado generale delle strutture abitative, scolastiche, ospedaliere, universitarie, che usa la camorra per incendiare e far saltare le opere pubbliche, come il Palazzo di giustizia nel Centro direzionale di Napoli, perché mal progettate e mal costruite. Il “blocco sociale” abbassa il livello morale della società civile, si espande in tutto il paese e allunga gli artigli sulle grandi opere pubbliche dell’intero territorio, sulle costruzioni ferroviarie, sulle canalizzazioni dei fiumi, provoca gli incendi dei boschi, costruisce con denaro pubblico immensi stabilimenti industriali destinati fin dall’inizio alla rottamazione e fa terra bruciata di ogni risorsa e tutto saccheggia, vivendo non degli ideali della cultura, ma dell’ideale “di un’allegra giornata di saccheggio” come scrive Croce nella Storia del Regno di Napoli (1925) ».
[44] – Sul punto, rinviamo agli approfondimenti operati nel saggio storico R. Martucci, Emergenza e tutela dell’ordine pubblico nell’Italia liberale, il Mulino, Bologna, 1980.
[45] – Cfr. R. Martucci, L’invenzione dell’Italia unita … , cit.; A. Scirocco, Governo e Paese nel Mezzogiorno nella crisi dell’unificazione (1860-1861), Giuffrè, Milano, 1963.
[46] – Cfr. S. Gambino, Istituzioni territoriali e Politica: ripensare il regionalismo politico del Paese, in «Astrid Rassegna», vol. 63, n. 1, 2008.
[47] – Cfr. Marcello Pacini, Scelta federale e unità nazionale. Scelta federale e unità nazionale, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 1994.
[48] – Cfr. G. Ruffolo, op. cit.
[49] – Cfr. Guido Dorso, La rivoluzione meridionale, Einaudi, Torino, 1945.
[50] – Cfr. Gaetano Salvemini, Scritti sulla questione meridionale (1896-1955),Einaudi, Torino, 1955.
[51 – Cfr. G. Ruffolo, op. cit.
[52] – Cfr. C. Ghisalberti, Unità nazionale ed unificazione giuridica, Laterza, Roma-Bari, 1979; P. Aimo, Stato e poteri …), cit.; Ernesto Ragionieri, Accentramento e autonomie: istanze e programmi, in I. Zanni Rosiello (a cura di), Gli apparati statali …, cit.
[53] – Cfr. A. Petracchi, Le origini dell’ordinamento …, cit.; C. Pavone, Amministrazione centrale e amministrazione periferica. Da Rattazzi a Ricasoli (1859-1866), Giuffrè, Milano, 1964; Massimo Severo Giannini, Autonomie comunali e controlli statali, in I. Zanni Rosiello (a cura di), Gli apparati statali…, cit.; U. Chiaramonte, Le autonomie nella storia… , cit., pp. 12 ss.
[54] – Cfr. Paolo Farneti, La classe politica della Destra e della Sinistra, in I. Zanni Rosiello (a cura di), Gli apparati statali …, cit.
[55] – Cfr. C. Ghisalberti, Storia costituzionale … , cit.
[56] – Cfr. G. Talamo, Il problema delle Regioni nella cultura politica del Risorgimento, in Aa.Vv., Le Regioni, Giappichelli, Torino, 1971.
[57] – Nell’ampia bibliografia, sul punto, cfr. anche, di recente, S. Gambino (a cura di), Diritto regionale, Giuffrè, Milano, 2009 e la bibliografia ivi citata.
[58] – Cfr. C. Mortati, La costituzione in senso materiale, Giuffrè, Milano, 1940. Cfr. inoltre Mario Galizia e Paolo Grossi (a cura di), Il pensiero giuridico di Costantino Mortati, Milano, 1990; M. Galizia (a cura di), Forme di Stato e forme di governo: nuovi studi sul pensiero di Costantino Mortati, Giuffrè, Milano, 2007.
[59] – Cfr. L. Elia, Governo (forme di), cit.

(direfarescrivere, anno VI, n. 59, novembre 2010)

Silvio Gambino,Unità nazionale e Mezzogiorno d’Italia:ultima modifica: 2010-11-08T16:13:45+01:00da mangano1
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