Fr. Pullia, La non violenza in Italia

da NOTIZIE RADICALI
La nonviolenza in Italia, una vicenda alternativa
di Francesco Pullia
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(Quello che segue è il testo della “lezione” che Francesco Pullia ha tenuto nell’ambito delle giornate di seminario di liberalismo e ricerca scientifica “Scuola estiva Luca Coscioni”, che si sono svolte a Marina di Camerota dal 15 al 18 settembre).

Quando si parla di nonviolenza, con particolare riferimento all’Italia, è bene, innanzitutto, dirimere l’equivoco che la vorrebbe ricondotta al pacifismo e all’antimilitarismo, quasi fosse suscitatrice o estrema conseguenza dell’uno o dell’altro. Non sempre, anzi assai di rado, nel corso della storia del secolo scorso, mezzi e finalità di pacifisti e antimilitaristi (e sarebbe opportuna, a questo proposito, un’ulteriore distinzione, considerato che l’antimilitarismo, specie nella declinazione marxista-leninista, presenta aspetti di discontinuità e differenza rispetto al mero pacifismo) hanno finito per coincidere con quelli della nonviolenza.
Quest’ultima implica, infatti, una visione della vita e dell’agire sociale che sarebbe svilita se, in modo riduttivo, fosse esclusivamente intesa come generica, quando non strumentale, contrapposizione al bellicismo.
Valgano, tra tutti, gli esempi emblematici dei cosiddetti Partigiani della pace, costituitisi nel 1949 in alveo comunista e proprio per questo non in grado, negli anni della guerra fredda, di spingersi al di là di scelte unilaterali, e dello speculare Movimento cristiano per la pace di Guido Miglioli.
A differenza dell’orientamento pacifista, la nonviolenza in Italia è, invece, stata caratterizzata da un’articolata, ricca e complessa elaborazione che ha sostenuto e innervato un progetto di riforma radicale della società in senso liberale e socialista, ispirato altresì, come nel caso difr1.jpg Capitini o di Danilo Dolci, da un’intima religiosità antitetica alle strettoie del confessionalismo e del dogmatismo.
Ecco perché da un lato può essere definita come una strenua resistenza anticonformista in un paese, come il nostro, fortemente condizionato dalla banalità trionfante e dall’altro come diuturna prefigurazione e costruzione, nel proprio estrinsecarsi, di apertura e autentica liberazione.
Non a caso il suo percorso, il suo delinearsi, i suoi contenuti sono risultati sempre invisi all’istituzione ecclesiastica e, analogamente, guardati con sospetto, quando non rigettati in modo preconcetto, dall’altra struttura tipica dell’ideologia clericale, vale a dire dal Partito comunista.
In altri termini, si può affermare che il pensiero e la prassi della nonviolenza costituiscano in Italia il momento più alto di un processo e di una volontà di laicizzazione del paese e abbiano avuto le loro motivazioni più profonde e la loro maturazione in e come alternativa al duplice conformismo cattolico e comunista.
Da qui il costante ostracismo, il tentativo di marginalizzare, isolare, occultare, ignorare il manifestarsi della nonviolenza e la sua portata propositiva.
Significativo è, in questo senso, il modo subdolo, ipocrita, con cui comunisti ed ecclesiastici hanno affrontato, dalle loro angolazioni, la questione dell’obiezione di coscienza, a partire dal silenzio, ampiamente rivelatore di imbarazzo, se non di autentico fastidio, con cui la stampa comunista accolse nel 1949 il gesto di disobbedienza di Pietro Pinna e dall’intervento, apparso nel numero del 18 febbraio 1950 della rivista “La Civiltà Cattolica”, con cui il gesuita Antonio Messineo bollò la renitenza al servizio militare come deprecabile espressione di “relativismo religioso e morale”, di derivazione protestante e pericolosamente soggettivista (1).
Come, all’inizio del Novecento, dinanzi alla comparsa degli ideali nonviolenti toltstojani, le gerarchie cattoliche e i gruppi dirigenti socialisti avevano osteggiato, sia pur ovviamente con differenti valutazioni, quella che definivano “resistenza passiva”, allo stesso modo, mezzo secolo dopo, la prima obiezione di coscienza si ritrovò “fra l’incudine clericale e il martello comunista”(2).
Si considerino, ancora, le scomposte reazioni, nel 1963, al rifiuto di indossare l’uniforme da parte di Giuseppe Gozzini, giovane cattolico,fr2.jpg impegnato nel sociale, che, per la sua decisione, si era appellato al dettato evangelico e alle parole del pontefice di allora, Giovanni XXIII.
D’altronde, lo sbandierato pacifismo del Pci doveva fare i conti, in quel periodo, con le insanabili contraddizioni provocate dalla tragica realtà dei fatti di Ungheria del 1956.
Giustamente è stato notato come “fino a quel momento, delle poche decine di obiettori che avevano punteggiato la storia del dopoguerra italiano nessuno si era richiamato alla dottrina marxista (…) neanche uno che avesse dichiarato la sua appartenenza a una cellula del Partito comunista o a una organizzazione a esso affiliata. Proprio per questo, probabilmente, il Pci fece molta fatica a cavalcare anche questo aspetto della protesta antiautoritaria dei giovani, come accadde pochi anni dopo con lo scoppio della contestazione” (3).
Comunisti e democristiani continuarono a non smentirsi neanche quando, mutati i tempi, si giunse nel 1971 alla discussione in Parlamento del disegno di legge, approvato poi nel dicembre 1972, relativo al riconoscimento giuridico dell’obiezione di coscienza.
Il Pci, al momento della prima votazione in aula, nel luglio 1971, optò per l’astensione, per approdare successivamente ad una disponibilità di massima ribadendo, però, la ferma convinzione che la leva obbligatoria fosse una garanzia per il sistema democratico. Tesi ripetuta nel 1976, quando i deputati comunisti votarono contro la proposta di modifica della legge 772 che prevedeva l’accoglimento automatico della domanda di obiezione da parte del ministero (4).
Qualche anno più in là, nel 1983, “Rinascita” ospitava una chiara presa di distanza dalla nonviolenza in cui si rimarcava che tra l’impostazione comunista della lotta per la pace e la teoria morale della nonviolenza non vi erano, tranne che per la coincidenza di alcuni obiettivi, molti punti di contatto (5).
A poco è valso sul piano politico il tentativo compiuto da Fausto Bertinotti, in tempi a noi più ravvicinati, di accostarsi alla nonviolenza ricorrendo a strumenti cognitivi marxiani assimilandola al comunismo come unica risposta possibile alle disfunzioni del sistema capitalistico (6).
Eppure, oltre trent’anni fa, in perfetta sintonia, almeno su questo, con quanto da sempre sostenuto dai radicali, Norberto Bobbio aveva ravvisato nella storia del movimento operaio “le più grandi manifestazioni di nonviolenza collettiva” quali gli scioperi parziali e generali, le proteste di massa, le varie forme di disobbedienza civile anche se, precisava, i partiti che s’ispirano al marxismo “non hanno elaborato e propagandato una vera e propria teoria della nonviolenza, come ha fatto Gandhi, e, al contrario, hanno spesso teorizzato la necessità della violenza” (7).
Per il filosofo torinese, non vi sarebbe alcun “nesso necessario” fra marxismo e violenza e le diffidenze esistenti tra marxisti e nonviolenti deriverebbero da una mancata conoscenza reciproca: “si tratta”, annotava, “di un contrasto che ha per oggetto piuttosto i fini ultimi che non i mezzi di volta in volta ritenuti legittimi per raggiungerli” (8). Detto altrimenti, il fine ultimo del marxismo sarebbe una società di tipo comunitario mentre quello della nonviolenza una di tipo libertario (9).
Un aspetto, aggiungiamo, non di poco conto, proprio perché, nell’ottica nonviolenta, i fini non sono mai disgiunti dai mezzi, essendo da questi ultimi prefigurati. Il ricorso a mezzi violenti per giungere ad un assetto sociale nonviolento non potrebbe che pregiudicare in partenza l’effettiva realizzazione dello scopo.
Vi ha correttamente insistito Giuliano Pontara affermando che il satyagraha non è un semplice metodo di lotta, bensì una strategia complessiva: la sua acquisizione da parte dei marxisti non può essere esente da una profonda revisione della dottrina della lotta di classe (10).
“La violenza da parte delle masse”, non mancò di puntualizzare Gandhi nel 1925, “non riuscirà mai a guarire la malattia. L’esperienza fatta fino ad oggi dimostra che i successi ottenuti con la violenza hanno avuto vita breve. Essi hanno condotto ad una ancor maggiore violenza”(11).
La sinistra italiana, da parte sua, ha sempre colpevolmente ignorato che la stessa Resistenza ebbe una componente non armata e nonviolenta. Su questo aspetto, completamente eluso dalla storiografia ufficiale, si è soffermato Antonino Drago portando alla luce episodi straordinari come il rifiuto da parte degli italiani arrestati l’8 settembre 1943 e finiti nei campi di concentramento in Germania di collaborare con i nazisti. Su ventottomila ufficiali ben ventimila, così come la maggioranza di seicentomila soldati, espressero apertamente la loro opposizione pur conoscendo a quali crudeli conseguenze sarebbero andati incontro. “Senza il sacrificio volontario di quella massa di militari”, ha tenuto ad evidenziare Drago, “ la Repubblica di Salò istituita da Mussolini sarebbe stata legittimata come la struttura statale della gran parte degli italiani” (12). La lotta non armata e la nonviolenza hanno fatto parte della storia della Resistenza. Studi campioni effettuati a Bergamo, Forlì, Napoli, Roma, Torino, hanno fornito, in questo senso, dati sorprendenti (13).
Per quanto poi concerne, più schiettamente, l’analisi delle incomprensioni da parte cattolica, basti ricordare il rifiuto di Pio XI di incontrare Gandhi, in visita a Roma nel dicembre 1931, e gli articoli usciti successivamente ne “La Civiltà Cattolica” del 6 e del 20 febbraio 1932.
Nell’articolo pubblicato nel numero del 6 febbraio si giudicava come “deprecabile profanazione” il paragone, accreditato anche in ambienti cattolici del tempo, tra il leader indiano e Francesco d’Assisi. In quello del 20 febbraio si puntava, invece, l’indice contro l’universalismo religioso gandhiano, accusandolo di mirare a induizzare e diluire il senso cristiano in una sorta di sincretismo nonché di essere “infatuato” dall’umanitarismo tolstojano (14).
Per inciso, va detto che Tolstoj fu, come si sa, molto severo nei confronti dell’istituzione ecclesiastica imputandola di nascondere la verità cristiana ai propri fedeli facendo credere artatamente che la salvezza provenga dai riti e dai sacramenti e non da un radicale cambiamento di vita. Per questo, nel 1901 fu scomunicato dal Sacro Sinodo della Chiesa ortodossa russa (15). Circa cinquant’anni dopo, Capitini si vedrà messo all’indice dal Sant’Uffizio della Chiesa cattolica, apostolica, romana in seguito alla pubblicazione dell’opera Religione aperta e del pamphlet Discuto la religione di Pio XII (16).
Tornando all’ostilità cattolica contro la figura gandhiana, Gianni Sofri nel suo Gandhi in Italia ne ha messo ampiamente in risalto le motivazioni riferendo su testi e interventi, prevalentemente di sacerdoti gesuiti, risalenti ad un lasso di tempo che va dal 1930 al 1939.
Per gli esponenti dell’ortodossia cattolica solo il cristianesimo, e non la sincretistica visione gandhiana, avrebbe potuto condurre le masse indiane ad emanciparsi. La “non obbedienza”, inoltre, a lungo andare, avrebbe finito per scalfire il principio di autorità (17).
Se ci siamo soffermati su questi aspetti è per sottolineare un dato, a nostro avviso, mai compiutamente analizzato o almeno evocato, e invece estremamente peculiare, della nonviolenza in Italia, vale a dire la presenza in essa di una innegabile componente religiosa alternativa, altra, rispetto al dominante formalismo cattolico (18). E’ una religiosità viva, laica, eticamente esperita, che in diversi casi risente palesemente di influenze orientali, nella fattispecie indiane, per risolversi in una responsabile, diuturna, azione di affrancamento in cui l’individuo è valorizzato come artefice di coralità e compresenza, portatore di nuova socialità nonché di un’attenzione accesa, spinta sino alla piena compartecipazione, nei confronti di tutti gli esseri senzienti.
E’ nota, in questo senso, la limpida inclinazione religiosa non confessionale che agì costantemente in Aldo Capitini (1899 – 1968) avvicinandolo al pensiero orientale e portandolo a compiere scelte radicali come il vegetarianesimo e la fondazione nel 1952 della Società vegetariana italiana, dopo avere promosso un convegno su La nonviolenza riguardo al mondo animale e vegetale.
“Là dove il buddhismo e il cristianesimo penetrarono trasformando veramente i cuori, – scrive il filosofo in Rivoluzione aperta – lo fecero con la nonviolenza e facendo innamorare i cuori di un nuovo modo di vivere e di rinascere”(19). E continua: “I testi indiani, alcuni secoli prima di Gesù Cristo, dicevano che si deve essere come il legno di sandalo, che profuma anche la scure che lo colpisce” (20).
In Elementi di un’esperienza religiosa parla dell’esigenza della libertà come diretta conseguenza dello sforzo di liberazione intima e scrive che “qualsiasi individuo, gruppo o società anche vastissima, che non attiva in sé la libertà, che è il suo respiro, si cristallizza e si avvia alla morte. Non c’è istituto che possa sigillare in sé per sempre l’anima”, la quale viene, appunto, nullificata ad oltranza da chiese e stati assoluti (21).
Ma andiamo avanti. Pochi sanno che nell’intensa antologia intitolata L’ascesa alla felicità, pubblicata nel 1948, Danilo Dolci (1924 – 1997) rivelò i debiti del proprio umanesimo integrale anche nei confronti della Bhagavad G¥tÇ e delle Upanishad, tra i più conosciuti testi sacri indiani. Vi ritroviamo le dottrine del samsÇra e del karma, l’Uno-Tutto (che in Capitini diverrà Uno-Tutti), la recondita analogia tra microcosmo e macrocosmo, l’identità del principio vitale nell’uomo e nell’universo (22).
“Per Danilo –affermò Capitini- si tratta di mettere in pratica il Dio in cui si crede, e così la realtà si trasfigura. Tener presenti elementi religiosi è necessario per comprendere il suo lavoro” (23).
E, ancora, per ammissione dello stesso Capitini, non si possono ignorare nell’elaborazione della nonviolenza italiana echi della religiosità mazziniana, della riflessione di Carlo Michelstaedter nonché della concezione etica di Piero Martinetti.
Per quanto concerne Giuseppe Mazzini (1805 – 1872), lo stesso Gandhi lo riconobbe come uno dei suoi principali ispiratori, soffermandosi più volte sul mazziniano autogoverno dell’uomo e sulla necessità di assicurare prima di tutto al nostro interno quella rivoluzione che dovrebbe attuarsi a livello sociale.
Gli scritti capitiniani, da parte loro, abbondano di riferimenti appassionati alla lezione mazziniana. E’ soprattutto nel volume Nuova socialità e riforma religiosa, contenente tra l’altro un’approfondita disamina del liberalsocialismo, che il filosofo perugino ravvisa in Mazzini una religiosità scissa “dal dogma della caduta” e nettamente avversa all’istituzione vaticana.
“Quando altri si baloccavano con speranze di rinnovamenti cattolici, la sua tensione missionaria e messianica lo salvava”. E aggiunge: “L’ansia di un avvenire religioso nuovo si articola (in Mazzini, n.d.r.) in schemi di filosofia della storia ma si avviva per un senso intransigente di ciò che è morto”(24).
In altri termini, Capitini vi percepisce una elaborazione, affine alla sua, della compresenza dei morti e dei viventi, in cui anche l’assente, l’escluso è chiamato a concorrere alla creazione di realtà. E’ una religiosità che non pone una forzata separazione tra terra e cielo ma si traduce in prassi mirante a realizzare qui ed ora un disegno divino.
Per Mazzini, d’altronde, negatore del ruolo intermediario e privilegiato assunto dal clero, Dio s’identifica con il progresso storico dell’umanità entro cui l’anima “varca dal finito all’infinito, dal reale all’ideale, da ciò che è a ciò che deve essere” (25).
Da Carlo Michelstaedter (1887-1910) si desume, invece, nella nonviolenza italiana quella tensione etico-religiosa, tutta in chiave antiretorica, che porta ad affermare la centralità della persuasione. Non è casuale che Capitini si sia definito persuaso, nel senso di autopersuaso, cioé di pervaso, anziché credente (26).
Con La persuasione e la rettorica, del 1910, l’autore goriziano ci ha lasciato uno straordinario manuale di resistenza interiore al conformismo, di ribellione aperta nei confronti di ciò che viene abitudinariamente accettato, dato per scontato (27). Sin dalle prime battute, in quell’ostentato, reciso, rifiuto di pagare pedaggi a categorie stabilite, si coglie immediatamente il senso di un percorso che è, innanzitutto, un’esortazione ad appellarsi alle forze interiori per conseguire un’effettiva liberazione.
La vita, ci dice Michelstaedter, non può ridursi ad abitudine, a ɔɫɅÉÕÉ’É“É‘›Éø, sterile attaccamento al piacere, a ciò che è passeggero. Il debole s’adatta, si acquieta, s’adagia nella superficialità, cerca espedienti e infingimenti per sottrarsi al dolore e alla morte. Ma temere la morte equivale ad essere già morti. Al contrario, sostiene a chiare note Michelstaedter, “chi vuol aver un attimo solo sua la sua vita, esser un attimo solo persuaso di ciò che fa, deve impossessarsi del presente, vedere ogni presente come l’ultimo, come se, dopo, fosse certa la morte, e nell’oscurità crearsi da sé la vita”(28). Ed ecco, quindi, la forza della persuasione, l’assunzione su di sé della responsabilità della propria vita, l’essere padroni e non schiavi nella propria casa, il volere andare al di là delle vie consuete. La via della persuasione appartiene a coloro che eticamente si oppongono alla menzognera “comunella dei malvagi”, alla cosiddetta rettorica delle istituzioni create dall’uomo per mascherare il violento impulso all’autoconservazione, a chi si fa fiamma, trascendendo l’irretimento nella sfera egoistica per affermare una realtà superiore.
Da Michelstaedter a Piero Martinetti (1872- 1943) il passo è breve. Anticonfessionale, vegetariano, tra i pochi ad avere avuto, nel 1931, il coraggio di rifiutarsi di prestare giuramento al regime fascista, anche il filosofo piemontese mette l’accento sull’individuo e sulla sua responsabilità ponendosi in aperto contrasto con l’istituzione ecclesiastica e prendendosi di petto l’ottusità tomista e la limitatezza neoscolastica.
Il suo orientamento è delineato con nitidezza sin dagli esordi, dalla sua tesi di laurea sul sistema filosofico indiano samkhya, da lui considerato come il primo ad avere proclamato l’indipendenza della ragione da ogni rivelazione e rivolto “esclusivamente ai problemi del dolore dell’esistenza, del merito delle opere, della purificazione dell’anima e della liberazione” (29).
Per Martinetti, il cui Breviario spirituale è stato definito da Anacleto Verrecchia “un ottimo disinfettante per lo spirito”(30), non saranno certamente i vincoli dogmatici, le credenze tradizionali, gli irrigiditi clericalismi ad affrancarci. Non si può, egli sostiene, prestare fede alle cosiddette religioni positive, che si reggono sulla “sottomissione servile” dell’individuo, hanno smarrito “ogni potenza vivificatrice” e si mostrano, tra l’altro, indifferenti innanzi all’inaudita sofferenza provocata negli animali dagli uomini e dai loro modelli organizzativi economici e sociali. Gli animali “sono esseri affini a noi e il presentimento pietoso non ci inganna quando nei loro occhi leggiamo l’unità profonda che ad essi ci lega” (31). C’è urgenza, per il pensatore, di una profonda rigenerazione etica, religiosa, sociale e il compito di realizzarla spetta a minoranze attive. Difensore di Ernesto Buonaiuti, avversato da Padre Agostino Gemelli, con cui fu tenacemente in polemica, Martinetti fu oggetto, nel 1926, di una lettera anonima, secondo alcuni ispirata dallo stesso Gemelli, destinata al rettore dell’ateneo milanese, in cui si denunciava che, nel corso di una pubblica lezione, avrebbe definito l’eucarestia come “l’elemento più basso, infimo della religione, incompatibile con la sublime spiritualità di Cristo” e “i mangiatori di Dio semplicemente inconcepibili” (32).
Avverso recisamente alla concezione gentiliana di uno stato etico, non si stancò mai di ribadire che non ci sarebbe mai stata libertà politica senza libertà religiosa e che le armi del totalitarismo non avrebbero mai avuto efficacia dinanzi alla risoluta resistenza di una libera coscienza religiosa. Il suo libro Gesù Cristo ed il cristianesimo, pubblicato a proprie spese nel 1934, venne immediatamente sequestrato perché messo all’indice dalla Chiesa. Vi si contrapponeva la religione dello spirito a quella dell’autorità e si rimarcavano le differenze tra Cristo, storicizzato, spogliato di elementi mitici e leggendari, e Paolo (33).
“La chiesa –scrisse- che ha accolto in sé il maggior numero di elementi estranei e che più si allontana dallo spirito del Cristo è la chiesa cattolica” essendo quella che “ha dato il più ricco svolgimento alla tendenza politeistica: non solo essa ha sostituito al culto di Dio il culto del Cristo, ma vi ha associato un’infinità di altri esseri divini. (…) La chiesa cattolica (…) ha trasformato l’unione delle primitive comunità cristiane, che, come le sinagoghe, erano strette fra di loro da un semplice legame spirituale, in una teocrazia, che sotto l’apparenza d’una religione internazionale, è realmente un’organizzazione politica aspirante al dominio materiale e spirituale di tutto il mondo: dominio che, quando fosse realizzato, rappresenterebbe la più spaventosa delle tirannidi che il mondo abbia mai veduto” (34).
Ancora: “La chiesa, chiusa nel suo dogmatismo orgoglioso e cieco, asservita ai potenti, si è associata a tutte le violenze, ha giustificato tutte le guerre, ha perseguitato con crudeltà i suoi nemici” (35) e, purtroppo, anche le chiese riformate non sono state da meno avendola imitata “su questa triste via. Anch’esse”, infatti, “hanno difeso e qualche volta applicato la pena di morte contro l’eresia” (36).
Gesù, per Martinetti, non ha basato il proprio insegnamento su alcuna rivelazione soprannaturale ma, come Buddha, come i grandi profeti di Israele, è stato “un veggente nel senso più alto della parola”, avendo voluto condurre “gli uomini a vedere ciò che Dio ha già scritto profondamente nei loro cuori”. Per questo la sua parola colpisce ancora perché detta al nostro interno come faceva con i “suoi umili ascoltatori (…) La riduzione della religione ad un atto sentimentale o volitivo è in realtà solo un artifizio diretto a mascherare l’arbitrio dogmatico” (37).
La religione, per Martinetti, è volgare e ipocrita se non si regge sull’autonomia del giudizio e sulla libertà di coscienza. E quest’ultima non può essere al servizio di nessuno, tanto meno dell’istituzione ecclesiastica. Il messaggio di Cristo, per lui, non ha bisogno di mediazioni perché è rivolto direttamente agli uomini e fondato sulla pietà, sulla carità, sulla coerenza tra parola e azione. Pertanto non ha nulla di assolutistico e può essere colto da una sorta di relativismo critico.
La vera storia della chiesa di Gesù Cristo, secondo il filosofo, non ha nulla in comune con quella delle grandi chiese, in grandissima parte estranee allo spirito cristiano, “ma è la successione degli spiriti, simili al suo, che hanno attraversato il mondo umili e miserabili come furono il Cristo ed i suoi seguaci. (…) Le chiese”, aggiunge amaramente, “continueranno nel mondo, finché il mondo sussisterà, l’opera loro: la corruzione richiamerà di tempo in tempo le riforme e le riforme rigenereranno la corruzione (…) Ma nessun ostacolo del mondo può impedire il rinnovamento di quella pura tradizione cristiana che si leva sulla storia delle chiese come la Gerusalemme celeste che nell’apocalissi sorge sulle rovine del cielo e della terra” (38). La religione, conclude Martinetti, “vive nelle anime, non nel mondo: e la luce risplende in una coscienza pura che non conosce tramonti” (39).
Come si può facilmente riscontrare, nelle concezioni cui abbiamo qui accennato, presenti, più o meno sotterraneamente, nelle varie declinazioni italiane della nonviolenza agisce, come una costante, l’affermazione kantiana dell’autonomia della morale, vale a dire un’etica che responsabilizza al massimo il soggetto, imprimendo significato e valenza creatrice ai suoi comportamenti. E’ a questa eticità di fondo che, nella nonviolenza, si fa ricondurre la stessa religione.
Ai connotati distintivi sinora incontrati non sfugge neanche Giuseppe Giovanni Lanza del Vasto (1901- 1981), italiano di nascita, di origine aristocratica, personalità eclettica, figura di primo piano in Francia nella denuncia dei soprusi commessi nella guerra d’Algeria, impegnato contro il nucleare e a favore dell’obiezione di coscienza nonché fondatore dell’Arca, comunità ispirata ai principi gandhiani.
Di lui, purtroppo, si parla poco. La sua testimonianza è erroneamente vista come marginale e un po’ defilata all’interno del variegato scenario nonviolento. Eppure la sua azione di riformatore religioso, su un impianto cristiano su cui si innestano influenze indiane, non può essere tacitata e, ancora una volta, è fortemente indicativa di una tensione che, come linfa, scorre nella proposta nonviolenta.
Nell’autunno del 1936, in seguito ad una crisi spirituale, parte alla volta dell’India. Ha meditato così a lungo e intensamente sulle scritture cristiane da convincersi che il messaggio evangelico è stato tradito ed eluso. Negli anni degli studi universitari, a Pisa, si era, inoltre, accostato al buddhismo e alla filosofia di Shankara.
In India si reca dapprima da Gandhi, nel villaggio di Wardha e successivamente compie un pellegrinaggio alle sorgenti himalayane del Gange. Torna in Europa nel 1938 con il nome, datogli da Gandhi, di Shantidas, servitore di pace. Parte per la Terra Santa e percorre a piedi il Mediterraneo orientale. Pensa di costituire un ordine di pellegrini solitari, poi decide di dedicarsi, invece, alla creazione di comuni rurali, vegetariane, economicamente autosufficienti, animate da un indirizzo religioso privo di specifica impronta confessionale, con momenti di preghiera comunitari, pratiche meditative e yogiche.
Negli anni della guerra conosce, a Marsiglia, Simone Weil. Nel 1943, mentre comincia a delinearsi la fine del conflitto, pubblica il suo Pellegrinaggio alle sorgenti (40). Incontra Simone Gébelin, che diventerà sua moglie e chiamerà Chanterelle. Con lei darà vita all’esperienza dell’Arca inframmezzata e arricchita da un breve ritorno, nel 1954, in India al seguito di Vinôbâ Bhave (1895 – 1982), continuatore dell’insegnamento gandhiano (41). Per essere nonviolenti, egli dice, non basta non essere violenti, occorre mirare alla coscienza (42). E aggiunge:”felice è colui che sta sulla cresta ventosa, perché lì si è più vicini al cielo” (43).
Ci si chiede, a questo punto, quanto di ciò che abbiamo considerato possa ritrovarsi nella progettualità radicale, così come da cinquant’anni in qua ha inteso conformarla Marco Pannella. E’ indubbio che, come ha ravvisato Angiolo Bandinelli (44), anche la nonviolenza pannelliana si riconnetta ad una religiosità non confessionale e che lo stesso Pannella, se non metafora, sia icona vivente di una tensione intima e sofferta e non assolutistica.
Probabilmente ha ragione Gianni Baget Bozzo a scorgere in Pannella l’intenzione di riformare l’orizzonte spirituale degli uomini: non cerca il potere, non vuole fondare un’istituzione, è parola continua e se entra in conflitto con la Chiesa è perché “ciò corrisponde alla dinamica della profezia”(45).
C’è, però, in lui una caratteristica nuova, dal momento che sfronda la spiritualità da retaggi orientali per ricondurla, invece, più direttamente nel tronco del laicismo, del liberalismo e del libertarismo occidentali: “Gandhi e la nonviolenza –egli afferma- sono il completamento senza il quale i Lumi, l’illuminismo, il laicismo sono mera astrazione, sono una schumanniana incompiuta, bella di per sé ma, insomma, un pezzo e non un’opera, una sonata e niente di più” (46).
In questo senso il radicalismo si evidenzia come una sorta di gandhismo riformato: “La nonviolenza – tiene a precisare Pannella – mette al centro della vita sociale la persona, il dialogo, come Socrate, non solamente come Gandhi” (47). Ed avverte, riferendosi alla situazione italiana, che o la nonviolenza riesce “antropologicamente” ad ancorarsi “nella cultura acquisita da ciascuno e da tutti” oppure, pur avendo consistenza, è condannata a restare marginale (48).
Su questo sfondo, si può spiegare anche il significato, più socratico che gandhiano, che i radicali conferiscono ai vari metodi di lotta nonviolenti e, in particolare, al digiuno: “ Noi non digiuniamo per protestare o per soffrire, ma per raggiungere un obiettivo. In genere l’obiettivo è inerente alla moralità altrui, non alla nostra; non chiediamo cioè attraverso il digiuno di privilegiare una specifica proposta di legge, ma che vengano attuate le leggi che altri hanno imposto o proposto (…) non cerchiamo di far accettare i nostri principi e le nostre impostazioni, esigiamo il minimo, esigiamo cioè dal governo della città il rispetto della sua legalità, la reintegrazione delle regole della democrazia violate. In realtà è l’unica risposta che possiamo dare, al di là della distruzione, a una città che tradisce le proprie leggi” (49).
Nel 1977, ancora Gianni Baget Bozzo aveva ravvisato: “Le tecniche di lotta del Pr vengono dalla tradizione nonviolenta, che ha una matrice religiosa, ma non cristiana (Gandhi). Questo sembra significativo: ci pare che il Pr non possa considerarsi erede del laicismo ideologico (che, in quanto partito, finisce per cadere sotto l’egemonia del modello leninista) se esso cercherà quindi forme di azione che non fanno appello solo alla ragione ma, ampiamente, al sentimento religioso”(50).
E’ inconfutabile che Marco Pannella dia corpo e voce all’esortazione, di matrice evangelica, di Ernesto Buonaiuti (1881 – 1946) a farsi ed essere continuamente scandalo. E non è di certo casuale il suo continuo richiamo ad una religiosità piena anelante a tessere caparbiamente, incessantemente, le fitte trame di una riforma rigeneratrice.
In questo senso deve essere valutata la riscoperta da lui acutamente proposta e perorata di figure centrali del modernismo come Romolo Murri (1870 – 1944) e, ovviamente, lo stesso Buonaiuti, mettendone in debita luce la radicalità della loro riflessione e della loro operosità dedite all’oltrepassamento di quello che, per usare una terminologia michelstaedteriana, potremmo chiamare senz’altro l’assunto “rettorico”, miranti cioè allo smantellamento di quanto di più falso e perverso sia stato dalle istituzioni, e in primis da quella ecclesiastica, artificiosamente spacciato e accreditato per vero e volgarmente accettato per mero conformismo e sonno delle coscienze.
E fu proprio Romolo Murri, ordinato sacerdote nel 1893 e sospeso “a divinis” da Pio X nel 1906 e addirittura scomunicato nel 1909 per le sue serrate critiche apertamente rivolte alla Chiesa e alla sua politica fortemente conservatrice e antipopolare, a scrivere senza remore nel 1908: “Se essere anticlericale ha il senso pienamente negativo di essere contro il clericalismo, certo io sono anticlericale, (…) ma (…) sono anticlericale principalmente nel nome e per la tutela di interessi religiosi ed invece gli altri non sono solo contrari a quella speciale politica che si chiama clericalismo ma contrari direttamente alla religione stessa”(51). Nel 1912 ribadì, poi, che la lotta al clericalismo era “dovere incombente della nuova democrazia sociale” (52).
Allo stesso modo, Pannella “contro la politica tradizionale, come contro la religione tradizionale, cioè contro tutte le istituzioni che si sono nutrite di potere ecclesiastico e politico” rivendica la dignità e la nobiltà della tensione politica (53), rimarcando che oggi è giunto il tempo di “edificare la felicità in concrete azioni di fiducia attraverso il dialogo, la parola” (54).
Ecco, quindi, una chiave possibile per rileggere l’intera vicenda dell’alternativa nonviolenta italiana nelle sue molteplici diversificazioni fino all’incardinamento all’attualità politica attuato dai radicali. Per dirla un po’ alla Buonaiuti, nelle nostre anime vibra così intenso il desiderio di rinnovamento(55) da potere, senza alcun indugio, annunciare l’apparire all’orizzonte di nuove forme di religiosità e, insieme, di socialità rette non dall’autoritarismo ma dalla consapevolezza d’essere parti attive e responsabili della compresenza, di una continua creazione comprendente, nel segno dell’apertura e della pluralità, ogni essere senziente, nessuno escluso.
Nel 1992, due anni prima di lasciare il passaggio terreno, Ernesto Balducci, sacerdote scomodo e nonviolento militante, annotò nel libro L’uomo planetario, che può essere considerato il suo testamento: “Mentre abito la città, con i suoi miti, i suoi dogmi, le sue divisioni, insomma la sua ferocia velata di cultura e di religione, già abito, per una specie di doppia appartenenza, la città planetaria, in cui, divenuto inutile il tempio, ogni uomo ama spartire, come Melchìsedec e Abramo, il pane e il vino. Non ci sono armi nella città in cui vivo con una parte di me. (…) Venuta meno la necessità del salvagente, il vero culto di Dio è nell’essere di aiuto all’uomo, sempre più libero dalla necessità, ma proprio per questo sempre più fragile e precario negli spazi dell’universo. E’ qui, su questo limitare fra il passato e il futuro, che mi è possibile, senza niente rinnegare di ciò che sono, intuire una mia nuova identità di credente”(56). E, con riferimento alla propria esperienza di religioso estraneo all’irrigidimento degli schemi, ammise con estrema lucidità: “Quando sento ripetere che il messaggio di Gesù è universale perché egli è il Logos nel quale, dal quale e per il quale tutte le cose sono state create, una specie di immenso sbadiglio mi sale dal profondo, come dinanzi a una verità resa vacua dall’abuso. Ma quando rifletto in silenzio sui gesti concreti con cui egli, mettendosi contro gli uomini della religione e del potere, andò incontro ai poveri, ai miti, agli afflitti, ai perseguitati, è come se scorgessi nel buio un sentiero di luce, il sentiero che ancora oggi discende dalla profondità degli inferi dove il senso e il non senso, la vita e la morte, l’amore e l’odio si confrontano. Qui tutte le identità perdono di senso per lasciare posto all’unica che ciascuno è in grado di dare a se stesso, al di fuori di ogni eredità, semplicemente con l’assumersi o con il rigettare la responsabilità del futuro del mondo. Se noi lasciamo che il futuro venga da sé, come sempre è venuto, e non ci riconosciamo altri doveri che quelli che avevano i nostri padri, nessun futuro ci sarà concesso.(…) Se invece noi decidiamo, spogliandoci di ogni costume di violenza, anche di quello divenuto struttura della mente, di morire al nostro passato e di andarci incontro l’un l’altro con le mani colme delle diverse eredità, per stringere tra noi un patto che bandisca ogni arma e stabilisca i modi della comunione creaturale, allora capiremo il senso del frammento che ora ci chiude nei suoi confini” (57).
(1) Cfr. A. Martellini, Fiori nei cannoni, nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento, Donzelli, Roma, 2006:
Ragioniere poco più che ventenne, impiegato di banca, di origine sarda ma ferrarese di adozione, Pietro Pinna era stato chiamato alle armi nel settembre del 1948 e assegnato alla Scuola allievi ufficiali di Lecce. Dopo pochi mesi, nel gennaio del 1949, in seguito ad una crisi di coscienza , si rifiutò di partecipare agli addestramenti militari.
Il suo gesto fu accompagnato da una istanza inviata al ministero della Difesa con cui chiedeva il riconoscimento dello status di obiettore e, quindi, l’esonero e dichiarava altresì la propria disponibilità a rastrellare terreni minati come servizio alternativo disarmato. Anziché l’attesa esenzione dal servizio militare, arrivarono per Pinna l’esclusione dal corso di allievi ufficiali e la notifica di una nuova destinazione al Car di Casale Monferrato. Lì avrebbe dovuto portare a termine la ferma come soldato semplice. Raggiunta la nuova destinazione, reiterò, però, la propria istanza con una nuova lettera al ministero rifiutandosi di prendere parte alle esercitazioni. I superiori, questa volta, lo deferirono al tribunale militare con l’accusa di “disubbidienza continuata” e, in attesa del procedimento, lo mandarono in galera. Il processo si celebrò a Torino alla fine di agosto. La difesa fu affidata a Bruno Segre e Agostino Buda e come testimoni furono chiamati Umberto Calosso, Aldo Capitini e Edmondo Marcucci.
Quando gli fu concessa la parola, Pinna dichiarò, tra l’altro, di richiamarsi ai principi della nonviolenza e della non menzogna. Fu condannato a dieci mesi di reclusione ma con il beneficio della condizionale e la non iscrizione. Scarcerato, venne nuovamente raggiunto da una cartolina precetto che gli intimava di presentarsi al Centro addestramento reclute di Avellino. Rinnovata la disobbedienza, fu tradotto al carcere militare di Sant’Elmo a Napoli e sottoposto a processo per direttissima. Non gli fu possibile neanche nominare i difensori di fiducia. Soltanto Umberto Calosso poté assistere al processo. Gli venne, invece, assegnato un difensore d’ufficio che, anziché sostenerlo, gli si mise contro. La nuova sentenza, pronunciata il 5 ottobre 1949, gli comminò altri otto mesi di reclusione.
Nel novembre successivo, intanto, Colosso, deputato socialdemocratico, presentò, insieme al democristiano Igino Giordani, la prima proposta di legge per il riconoscimento giuridico dell’obiezione di coscienza. La Camera decise a larga maggioranza di rimandarne l’esame alla commissione competente. Alcuni giorni dopo, Luigi Einaudi, Presidente della Repubblica, e Alcide De Gasperi, Presidente del Consiglio, ricevettero un appello firmato da oltre venti parlamentari laburisti inglesi per la scarcerazione dell’obiettore ferrarese. Il caso si concluse in modo grottesco. Il 29 dicembre 1949 gli fu, infatti, comunicato d’essere stato amnistiato in occasione dell’anno santo. Nonostante avesse rifiutato il condono, fu obbligato ugualmente ad uscire. Mandato a Bari, al nono reggimento fanteria, rinnovò, nel gennaio dell’anno seguente, per l’ennesima volta la scelta dell’obiezione. Il medico militare volle, stavolta, visitarlo a tutti i costi per riscontrargli un’inesistente ‘nevrosi cardiaca’. Pertanto, il 12 gennaio 1950, venne riformato e definitivamente congedato.
Successivamente, e precisamente nel 1973, Pietro Pinna fu condannato a quattro mesi, con sentenza confermata in appello e in cassazione, per avere diffuso l’anno prima un manifesto antimilitarista in occasione della ricorrenza del 4 novembre. Il 9 agosto 1974, condannato in via definitiva, presentò una domanda di grazia la Presidente della Repubblica rivendicando il riconoscimento della liceità etica e politica della nonviolenza. Il 17 gennaio 1975 venne, tuttavia, arrestato e rinchiuso nel carcere di Perugia. Dopo quattro settimane, l’istanza di grazia venne accolta e Pinna poté finalmente uscire. Su questo episodio cfr. A. Maori, Gli eretici della pace, breve storia dell’antimilitarismo pacifista dal fascismo al 1979, Labirinto, Montepulciano (SI),1988, pp. 109-111
(2) A. Martellini, Fiori nei cannoni, nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento, cit., p. 91
(3) ivi, p. 150
(4) ivi, pp. 195-211
(5) A. D’Alessio, Chi sceglie la non violenza e perché, in “Rinascita”, 8 aprile 1983, 14, p. 8, cit. in A. Martellini, op. cit., pp. 209-210
(6) F. Bertinotti, prefazione a M. N. Nagler, Per un futuro nonviolento, tr. it. S. Valenti, Ponte alle Grazie, Milano, 2005, pp.7-12. Cfr. anche F. Bertinotti, L. Menapace, M. Revelli, Nonviolenza, Fazi, Roma, 2006
(7) N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna, 1979, p. 206
(8) ivi, p. 207
(9) ibidem
(10)G. Pontara, Antigone o Creonte, etica e politica nell’era atomica, Editori Riuniti, Roma, 1990, p. 102
(11) E. Balducci, Gandhi, Giunti, Firenze, 2007, p. 165
(12)A. Drago, Difesa popolare nonviolenta, premesse teoriche, principi politici e nuovi scenari, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2006, p. 336.
(13) ivi, p. 340 e ss. A Forlì in media un giorno su tre si verificava un’azione non armata o nonviolenta (sciopero, boicottaggio, renitenza, manifestazioni, ecc.). A Napoli una popolazione in gran parte composta da donne, senza direttive da parte di vertici partitici, disarmate e prive di un coordinamento centrale, riuscirono a cacciare i tedeschi ricorrendo alla collera, all’inventiva, alla teatralità. A Carrara avvenne, poi, un episodio considerato da Drago come “il massimo di lotta nonviolenta contro il nazismo”. In seguito alla decisione presa dai nazisti di deportare tutta popolazione, nel luglio del 1944 le donne si organizzarono e si presentarono in massa, inermi sotto le mitragliatrici, davanti alla sede del comando militare, in piazza delle Erbe. Il provvedimento, ci dice Drago, venne ritirato “senza rappresaglie o ritorsioni (benché quello stesso esercito nazista nella vicina S. Anna di Stazzema compì una strage improvvisa e raccapricciante di 450 persone)” (ibidem)
(14)G. Zizola, Un santo indù in Vaticano, nel supplemento domenicale de “Il Sole 24 Ore”, 3 febbraio 2008, p. 33
(15) Per saperne di più sulla visione religiosa radicale di Lev Tolstoj e sulla sua concezione della nonviolenza: I. Mancini, Come continuare a credere, Rusconi, Milano, 1980, cfr. in particolare il capitolo Il Cristo radicale di Tolstoj, pp. 299- 431; Il vangelo di Tolstoj, tr. it. R. Martelli, con l’introduzione Cristianesimo e violenza di I. Mancini, Quattroventi, Urbino, 1983; G. Sofri e P. C. Bori, Gandhi e Tolstoj, Il Mulino, Bologna, 1985; L. N. Tolstoj, Perché la gente si droga? e altri saggi su società, politica, religione, a cura di I. Ribaldi, Mondadori, Milano, 1988; L. N. Tolstoj, Resurrezione, tr. it. C. Terzi Pizzorno, Rizzoli, Milano, 1992; L. Tolstoj, Il primo gradino (saggio sull’alimentazione vegetariana) e Contro la caccia, Michele Manca editore, Genova, s.i.d.
(16) A. Capitini, Religione aperta, Guanda, Parma, 1955; A. Capitini, Discuto la religione di Pio XII, Parenti, Milano-Firenze, 1957
(17) G. Sofri, Gandhi in Italia, Il Mulino, Milano, 1988, pp. 134-137
(18) Già Aldo Capitini in Antifascismo tra i giovani, Celebes, Trapani, 1966, p.244 lamentava che il rapporto tra religione e nonviolenza non era stato mai preso seriamente in considerazione dagli studiosi. Si trattava, a suo giudizio, di un grave limite perché il tema di una “ripresa religiosa” meritava di essere “indagato attentamente, con la pazienza di ricercarne ogni minima manifestazione”.
(19) A. Capitini, Rivoluzione aperta, Parenti, Milano-Firenze, 1956, p. 2
(20) ivi, p. 3
(21) A. Capitini, Elementi di un’esperienza religiosa, Laterza, Bari, 1937, pp. 15-16. Cfr. anche G.B. Furiozzi, Democrazia e totalitarismo in Aldo Capitini, in Il socialismo liberale, dalle origini a Carlo Rosselli, Piero Lacaita, Manduria, pp. 135-147
(22) A. Chemello, La parola maieutica, Vallecchi, Firenze, Firenze, 1988, p. 8
(23) A. Capitini, Rivoluzione aperta, cit., p. 26
(24) A. Capitini, Nuova socialità e riforma religiosa, Einaudi, Torino, 1950, p. 14
(25) G. Mazzini, Scritti scelti, a cura di J. White Mario, Sansoni, Firenze, 1964, p. 125
(26) A. Capitini, Antifascismo tra i giovani, cit., p. 53
(27) C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a cura di S. Campailla, Adelphi, Milano, 1982
(28) ivi, pp. 69-70
(29) A. Vigorelli, Piero Martinetti, Bruno Mondadori, Milano, 1998, p. 37
(30) A. Verrecchia, prefazione a P. Martinetti, Breviario spirituale, Utet, Torino, 2006, p. XVI
(31) A. Vigorelli, op. cit., p. 206. Cfr. anche P. Martinetti, Pietà verso gli animali, a cura di A. Di Chiara, Il Nuovo Melangolo, Genova, 1999
(32) ivi, p. 253
(33) P. Martinetti, Gesù Cristo ed il cristianesimo, Edizioni della “Rivista di filosofia”, Milano, 1934, riedito successivamente in due tomi con il titolo Gesù Cristo e il cristianesimo, a cura di G. Zanga, da Il Saggiatore, Milano, 1964. Cfr. anche Il Vangelo, con introduzione e note del filosofo, Guanda, Modena, 1936 pubblicato, in una nuova edizione, a cura di A. Di Chiara, da Il Nuovo Melangolo, Genova, 1998
(34) P. Martinetti, Gesù Cristo e il cristianesimo, a cura di G. Zanga, cit., pp. 291- 292
(35) ivi, p. 326
(36) ivi, p. 327
(37) ivi, p. 308
(38) ivi, p. 337
(39) ivi, p. 339
(40) Lanza del Vasto, Pèlerinage aux sources, Denoël, Paris, 1943; tr.it.; Jaca Book, Milano, 1978
(41) Lanza del Vasto, Vinôbâ où le nouveau pèlerinage, Denoël, Paris, 1954; tr.it., Jaca Book, Milano, 1980
(42) Lanza del Vasto, Che cos’è la nonviolenza, tr.it. M. Giacometti, Jaca Book, Milano, 1978, p. 27
(43) Lanza del Vasto, Vinôbâ, op. cit., tr. it., p. 193
(44) Angiolo Bandinelli, L’anticlericalismo religioso di Pannella, in “L’Opinione”, 7-8 settembre 2001
(45) M. Suttora, “Pannella è un profeta cristiano”, intervista a Gianni Baget Bozzo, in “Libero”, giovedì 28 febbraio 2008
(46) I radicali e la nonviolenza, a cura di A. Bandinelli, O. Dupuis, L. Frasineti, S. Manzi, Il Partito Nuovo, Roma, 1994, p. 51
(47) ivi, p. 52
(48) I radicali e la nonviolenza: un metodo, una speranza, atti del convegno svoltosi a Roma il 29 e il 30 aprile 1988, a cura L. Arconti e L. Terni, 1988, p. 84
(49) I radicali e la nonviolenza, a cura di A. Bandinelli, O. Dupuis, L. Frasineti, S. Manzi, cit., p. 34
(50) Gianni Baget Bozzo, Società radicale e politica radicale, in “Argomenti radicali”, n. 1, aprile-maggio 1977, ripreso in AA.VV., Radicali o qualunquisti?, Savelli, Roma, 1978, p. 111
(51) B. Marcucci, Romolo Murri, la scelta radicale, con pref. di M. Pannella, Marsilio, Venezia, 1994, p. 59
(52) ivi, p. 93
(53) AA.VV. Le sbarre del Concordato, Lanterna, Genova, 1973, p. 57
(54) ivi, p. 59
(55) E. Buonaiuti, Lettere di un prete modernista, Universale di Roma, Roma, 1948, p. 60
(56) E. Balducci, L’uomo planetario, Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole (FI), 1990, p. 175
(57) ivi, p. 177

Fr. Pullia, La non violenza in Italiaultima modifica: 2008-11-23T15:40:00+01:00da mangano1
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