M.Borelli, Edoardo Sanguineti, multiplo “gatto lupesco”

Edoardo Sanguineti,
multiplo “gatto lupesco”
di Massimiliano Borelli
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Una densa riflessione attorno
alle innumerevoli caselle
dell’opera plurale del poeta
scomparso lo scorso 18 maggio

Da bambino, Edoardo Sanguineti aveva preso l’abitudine di incollare su un quaderno ogni cosa gli passasse a tiro. Questo quaderno lo aveva intitolato “TUTTO”, e con esso, più o meno consapevolmente, per gioco e sul serio, componeva una figura del proprio lavoro a venire. Pare un caso, ma forse non lo è, il fatto che l’ultimo libro che ci ha lasciato sia proprio una specie di quaderno dattiloscritto di appunti, note, citazioni, materiali vari, ovvero quel Ritratto del Novecento con il quale il poeta genovese ha voluto raccogliere in uno zibaldone, a metà tra personalissima enciclopedia e collezionistica Wunderkammer, il proprio vagabondaggio artistico, filosofico, politico, tra i labirinti del secolo «interminabile».

Un’opera, questa, che in verità è una specie di copione di tutta una messa in scena del Novecento, quella del 2005, alla Sala Borsa di Bologna; però è anche un testo che si legge autonomamente, e che restituisce intera la “forza della fame” che ha contrassegnato la vita e il lavoro di Sanguineti. Ci sono cento nomi, a formare il suo “canone” interdisciplinare e multifocale, a tracciare una costellazione critica che si muove tra quattro categorie che, oggi, possiamo assumere come testamento teorico e pratico di un intellettuale-professore – un “chierico organico” – lucidissimo e di un autore tra i più rappresentativi del secolo: le avanguardie, il montaggio, la psicanalisi, la lotta di classe. Non è questo il luogo per soffermarci su ciascuna di queste stelle fisse, snodi del suo pensiero e, più in generale, della produzione culturale e artistica più avveduta della contemporaneità. Basti dire che esse segnalano e articolano, in dialettica relazione (ché non c’è avanguardia senza la rottura sintattica e gerarchica del montaggio, senza la manifestazione del “rimosso” e la scrittura della nevrosi, e senza la necessaria e consapevole frattura del continuum storico; e si sviluppino ancora vicendevolmente i sottesi rapporti tra questi quattro fuochi), lo stemma aurorale di Sanguineti: la congiunzione, interna a ogni espressione, di ideologia e linguaggio.

È sotto questa insegna, dunque, che si pone l’avanguardia sanguinetiana, lungo l’ampia escursione dei generi che ha attraversato: poesia, in primo luogo, e narrativa, e teatro, e poi la traduzione, e la critica, e la teoria letteraria. Un’avanguardia plurale e proteiforme, plasticamente adattata al momento storico (le sue poesie sono tutte datate, precise al giorno, non per nulla), ma sempre fondata sopra un irrinunciabile materialismo storico (Sanguineti, di recente, ne ha pure scritto un manualetto, un agile vademecum di base); e si ricordi come esordiva, ventenne, citando Stalin: «le condizioni esterne è evidente esistono realmente queste condizioni / esistevano prima di noi ed esisteranno dopo di noi». Marx è il suo maestro primo, da ascoltare anche attraverso la voce di Walter Benjamin, il pensatore novecentesco probabilmente più influente per lui (e da cui, un paio d’anni or sono, ha ripreso la formula dell’odio di classe, sollevando uno scandalizzato vocìo), insieme al contemporaneo, e gemello italiano, Antonio Gramsci. Ed è un Marx da accompagnare con Darwin, e imprescindibilmente con Freud, secondo una triade che spalanca la condizione umana alla modernità e alla presa di coscienza dei suoi conflitti, esteriori e interiori. Sanguineti si fabbrica un freudismo ricorretto, aggravato con Groddeck, lo “scrutatore d’anime” eterodosso più radicale, teorico della psicosomatica, e con Jung, che gli predispone un intero campionario di loci e immagini che rifunzionalizzerà – storicamente e anti-metafisicamente – in diverse opere.

Comincia presto, Sanguineti, a ridefinire valori e modi della letteratura italiana. Mentre ancora si era al palo del neorealismo e dell’ermetismo si mette a scrivere, in preda a un “esaurimento” – disse Andrea Zanzotto – (ma un “esaurimento storico”, preciserà il poeta) di «composte terre in strutturali complessioni sono Palus Putredinis», sprofondando in quel Laborintus che nel 1954, patrocinato da Luciano Anceschi, dilacera la poesia, il modo di concepirla, di leggerla e di farla. Un’indagine linguistica – in forza dell’“autonomia” del segno letterario – nel disordine e nell’informe, una nekuia necessaria di una profondità inesauribile, che riattualizza la discesa di Dante (altro suo autore-chiave, cui ha dedicato molti determinanti studi, oltre alla tesi di laurea che proprio in questi anni stava scrivendo) e che finirà per definire, per l’urgenza di cui è portatrice, un verbo laborintese, secondo un destino che toccherà anche all’hilarotragico manganelliano. Un universo ineludibile, questo, prodotto su impulsi multipli ed eterogenei (la musica dodecafonica, la pittura informale), che tuttavia Sanguineti saprà superare e inverare in altri registri poetici, più comunicativi, a partire dai successivi Erotopaegna e Purgatorio de l’Inferno.

Arriveranno poi negli anni Settanta le Reisebilder e le Postkarten, dove vengono snocciolati frammenti di un io dislocato, ritratto in un’esperienza alienata, dove è bene – come condenserà un verso del 1982 – «scrivere in prima persona, vivere in terza, alla Brecht». E ancora molte altre raccolte di versi, sempre antilirici, spezzati in innumerevoli parentesi, aperti da onnipresenti due punti, così, come per implicazioni reciproche. Nei Codicilli e nei Rebus, nelle Glosse e nei “testamenti”, nei Corollari e nelle Cose, troviamo una poesia che “diffida di sé”, che si degrada in autoparodia, in un comico che è l’unica forma di tragico ammissibile, oggi. Un gioco verbale –  configurato sempre anche come «un giuoco sociale» – che espone l’artificio della parola, il suo irretirsi in contraintes sprigionanti le capacità semantiche della retorica (e pro toto si legga l’Alfabeto apocalittico).

Da bravo “satrapo patafisico” ed esponente dell’Oplepo (Opificio di Letteratura Potenziale), Sanguineti conosce la funzione demistificante e demitizzante, già dadaista, del gioco, specie quando associato all’orizzonte onirico, quest’ultimo però sempre freddamente sorvegliato, mai preso come una consolatoria via di fuga. Piuttosto il sogno è il terreno sconnesso di una nuova mitologia, che intercetta la storia in un immaginario sconvolto, figurativamente e linguisticamente marcato. Ed esemplari a proposito, e campioni di un romanzesco sperimentale sono Capriccio italiano e Il giuoco dell’oca, due romanzi, datati rispettivamente 1963 e 1967, che reinventano il genere e lo strappano al dominio dell’ideologia borghese, incarnando le molteplici tensioni che hanno travolto la narrativa negli anni Sessanta, in seno al Gruppo 63, di cui Sanguineti è stato il più cosciente e vivace e originale autore e teorico. A sigillare la produzione in prosa (che tuttavia si prolungherà fino a L’orologio astronomico del 2002) vi è poi l’“imitazione da Petronio” de Il giuoco del Satyricon, del 1970, traduzione personalissima di un testo mutilo, onirico suo malgrado, per le peripezie della filologia, i cui «vetri rotti» rifrangono una «struttura del discorso» che «ci ha rimesso i suoi nervi, che ci è cascata tutta giù», come denuncia in apertura il romanzo latino, che funziona da modello di una letteratura del «naufragio», tutta volta in parodia, in oscena carnevalata, in libidica giostra.

E da qui possiamo dire che la traduzione, su cui si è esercitato a lungo, appropriandosi di testi dei classici greci, di Lucrezio, di Shakespeare, di Goethe, e ancora di molti altri remoti e prossimi, è per Sanguineti l’occasione non per una ravvicinante, affabile trasposizione, bensì per un’ulteriore dizione, per una riscrittura che nei confronti del testo di partenza varia di volta in volta distanza e condotta, tono e registro. L’approdo è sempre un “travestimento”, ovvero una composizione verbale sotto cui, larvatus, prodit il traduttore, il vero autore contemporaneo del testo (secondo una precisa teoria per cui, in controtendenza con l’idea di una sempre naturale e spontanea contemporaneità dei classici, né Euripide né Dante né chicchessia, sono di per sé presenti al nostro mondo). Una scrittura, questa del “travestimento”, che prevede e riarticola lo “straniamento” di Brecht insieme alla “crudeltà” di Artaud. E come questi (due veri dioscuri, per lui), Sanguineti è a pieno titolo un uomo di teatro: autore innovativo e prolifico traduttore, ha lasciato che i suoi testi venissero rielaborati a piacimento dai registi e musicisti con cui ha collaborato: da Besson a Ronconi (memorabile il loro Orlando furioso), da Berio (compagno nel Laborintus) a Liberovici, da Globokar a Scodanibbio e così via. Del resto quello dei rapporti con artisti di altri campi è un capitolo enorme, che non si ha modo qui di affrontare (si rammenti solo lo scambio su più livelli intrattenuto con Baj, Del Pezzo, Rama, Bueno, Nespolo ecc.). E non tocchiamo neanche la rubrica del Sanguineti-critico, così vasta e decisiva, per noi che leggiamo, oggi, dopo di lui (citiamo solo la sua antologia della Poesia italiana del Novecento, collezione testuale “a contrappelo” che nel 1969 segnò una svolta per il canone nostrano).

Di questo lucido e sollazzevole conversatore oggi ci restano i suoi versi, le sue righe, i suoi video sparsi, dove appare con il profilo da «gatto lupesco», sorridente e gaudente, di un poeta-saltimbanco – come lo riconoscerebbe il sodale Palazzeschi – sostenitore di un “ottimismo catastrofico” memore di Gramsci, mai soccombente al pessimismo della ragione senza contrapporgli un pari ottimismo della volontà (e su questo piano lo incontreremmo politico, deputato e candidato sindaco nella sua Genova, da ultimo; egli che del resto si è sempre definito un “politico prestato alla poesia”). Ci è vietato di farne un monumento, ora, dopo che già da solo si è assemblato «il suo monumentino, lì dentro la sua bara», con tutte le «cose sue» disposte a collage, nella casella XLIV del Giuoco dell’oca. Il suo io è sempre anche un altro, un Es che, nomen omen, acrostica il suo nome.

“Tutto” ci resta di Sanguineti, nel suo quaderno squadernato, e se, come ci ammonisce, «di un uomo sopravvivono, non so, / ma dieci frasi, forse (mettendo tutto insieme: i tic, / i detti memorabili, i lapsus): / e questi sono i casi fortunati:», molto già ci resta, di lui.

Massimiliano Borelli

(www.excursus.org, anno II, n. 12, luglio 2010)

M.Borelli, Edoardo Sanguineti, multiplo “gatto lupesco”ultima modifica: 2010-07-09T16:31:51+02:00da mangano1
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