Dibattito su CHI E’ IL MIO PROSSIMO? di Adriano Sofri

c4526b1870980620abe1fa405aea88fc.jpgFilippo Cusumano da http://ilmestieredileggere.wordpress.comChi è il mio prossimo?”- chiede a Gesù un giorno, secondo il Vangelo di San Luca un dottore della legge.Gesù risponde raccontando la storia dell’uomo che, assalito dai briganti, viene lasciato a terra nudo e mezzo morto per le percosse. Passano un sacerdote ed un levita e tirano dritto. Passa un Samaritano, che lo soccorre e si prende cura di lui.“Chi dei tre che sono passati per quella strada ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?” chiede Gesù al dottore della Legge.Parte dalla parabola del buon Samaritano“Chi è il mio prossimo”(ed. Sellerio) la riflessione di Adriano Sofri su come va il mondo e su chi siamo noi e i nostri similiCome fa notare Sofri, all’inizio del libro, la prospettiva corretta, quella, che sorprendendo il suo interlocutore, propone Gesù, è quella della persona che soffre, che subisce un danno o un’ingiustizia e che si trova in difficoltà.E’ per la vittima che si pone con particolare urgenza e necessità il problema della ricerca del prossimo.E vittima di volta in volta siamo tutti.Anche il condannato che si è macchiato delle colpe più gravi, che è stato aggressore, una volta rinchiuso nel braccio della morte, veste i panni della vittima e si guarda in giro cercando il suo prossimo tra coloro che possono compenetrarsi nella sua sofferenza e in qualche modo alleviarla.“Non è di me che parla questo libro- scrive Sofri- ma di tutti noi e della terra che, più o meno vicini, più o meno lontani, abitiamo insieme”Un capitolo del libro parla della “eterogenesi dei fini” e di come influenzi il modo di pensare e di agire di chi fa politica il rendersi conto che i risultati delle azioni umane spesso non corrispondono agli scopi per i quali ci si era attivati.Perché, si chiede Sofri, nonostante le migliori intenzioni, poi “va tutto storto”?Perché per alcuni il bicchiere è mezzo pieno, per altri è mezzo vuoto?Perchè siamo sostanzialmente indifferenti agli eventi tragici che si svolgono lontano da noi? E’ancora vero quello che sosteneva Adam Smith duecento anni fa? Che un terremoto in Cina, anche quando risultasse fatale per migliaia di persone non ci toglierebbe il sonno, mentre un evento infinitamente meno importante, ma a noi vicino, ci turberebbe infinitamente di più?Certo che è vero, sostiene Sofri. Con una terribile aggravante: quando Smith faceva quell’esempio, era padrone di attribuire la nostra freddezza al verificarsi di tragici eventi remoti all’impossibilità di vederli con i nostri occhi, mentre oggi, che possiamo dire di assistere a questi eventi quasi in tempo reale, non abbiamo più alcun alibi dietro al quale ripararciQueste alcune delle questioni affrontate dal libro.Un libro che è un caleidoscopio di fatti piccoli e grandi pescati fra i libri di storia, le pagine della cronaca, la personale biografia dell’autore.“Domande così grandi vanno ben oltre le mie conoscenze” scrive Sofri per giustificare il bisogno che prova, qua e là, di ricorrere anche agli esempi che gli derivano dai fatti della sua vita personale .Ma le conoscenze di Sofri non sono poi così anguste : il suo libro è un piccolo strepitoso Zibaldone per palati fini, in cui ci imbattiamo continuamente in personaggi come Rousseau, Voltaire, Vico, Macchiavelli, Marx,. Lacan.Klingo, da http://www.brennerbasisdemokratiePer molti è un cattivo maestro. Non si può comunque non convenire che i suoi ragionamenti non facciano pensare e non aprano dibattiti molto accesi e molto vivi.E’ per questo che comunque ho deciso oggi di parlarvi dell’ultimo libro di Adriano Sofri, “Chi è il mio prossimo“, ed. Sellerio Euro 12,00Sembrerà strano ad alcuni di voi (e lo sembra a me) che per la terza volta consecutiva io parli in questa rubrica di un libro della casa editrice palermitana Sellerio. Credetemi non è voluto, e non ve ne sarebbe ragione. Semmai questo certifica la genuinità e la casualità delle mie scelte; soprattutto di lettore.Adriano Sofri è persona controversa, su di lui troppo si è scritto e troppo si è detto, per ovvie ragioni. Io che ho avuto la fortuna di conoscerlo penso che si sia dimenticato di ascoltare la persona per guardare più al “caso”. Ogni volta che però qualcuno si sofferma sulle sue parole e non su chi le ha pronunciate o scritte ne viene fuori un’emozione. A volte può essere contrastante, a volte di profondo convincimento. Resta il fatto che la penna di Sofri rimane una delle più argute e ficcanti del panorama italiano. Ho seguito molto e seguo il suo “caso” giudiziario. Ho le mie idee in merito e me le tengo. Chiedo però di dimenticare la sua fama da “cattivo maestro” per andare invece a leggere in profondità nei suoi concetti, nelle sue idee.Trovo questo ultimo suo libro una sorta di testamento personale. Si nota che la sua parola esce dall’umiliazione della condizione carceraria che ha vissuto fino a pochissimo fa e dalla tristezza di una perdita importante, anche questa di pochissimo tempo fa.Il libro è una raccolta di pensieri solo apparentemente sparsi sugli effetti che le notizie provenienti da tutto il mondo lasciano sull’autore. Nel primo paragrafo Sofri si lancia in un’interessantissima rilettura della famosa parabola del buon samaritano per giungere alla domanda che lega tutte le parti del testo: “Chi è il mio prossimo?”. Si deduce dai suoi ragionamenti che, in piccolo, la società che viviamo ed i nuclei più piccoli che ne sono fondamento (famiglia, condomini, città) contengono in nuce tutti i prodromi di quelle che poi risulteranno essere cause scatenanti anche a livello globale; “l’eterogenesi dei fini” vale così per la guerra in Iraq come per le vite personali.L’interesse è tenuto alto lungo tutto lo scorrere delle pagine dalla varietà dei temi trattati. Si passa da fatti che escono “dalla pancia” della nazione (i vari casi Erba, Verona ecc.) per andare a toccare temi internazionali come la guerra, lo tsunami, l’ecologia. Si offre al lettore una molteplicità di letture possibili, libri tutti di grande interesse ed importanza, ma soprattutto si parte da una condizione di vita dell’autore che tutti sappiamo e giungiamo comunque a chiudere la lettura con un senso di ottimismo velato ma certo. Chè l’uomo ce la farà, oltre il destino, o la Provvidenza, o la Fortuna (così ben analizzati anche questi a partire da Machiavelli per giungere sino all’illuminismo e all’attualità).“Sono finito in galera e mi sento rinfacciare il mio privilegio“: un lungo paragrafo dedicato al principio di indeterminazione della fisica e alle nuove frontiere della scienza sembra darci la chiave di lettura di tutto il suo pensiero. Sofri sembra dirci che i suoi scritti possono far male e guardare oltre certi ostacoli a noi invisibili perchè la sua è una posizione d’osservazione diversa, relativa alla nostra.Non vi è una sola fisica possibile che scandisce con le sue regole apparentemente ferree il nostro incedere nella vita. Un libro come questo ci svela l’esistenza di altre leggi, di altre prospettive, e sarà nostra cura non ignorarle, per arricchirci e saper vivere meglio, accettando l’altro da noi.Ferdinando Camon, da La Stampa” 9 febbraio 2008 Come sanno tutti (anche i non cristiani), nella parabola di San Luca il prossimo è il Samaritano, che incontrando un uomo derubato dai ladroni e abbandonato con le ferite aperte al bordo della strada, si ferma e lo medica e lo ricovera in una locanda, dove lascia dei soldi perché qualcuno se ne occupi finché lui sarà via. Altri eran passati di lì, un levita, un sacerdote, ma avevano schivato la scena, spostandosi dall’altra parte della strada. Prossimo è colui che aiuta, che fa quel che può. La parabola è un test che stabilisce chi è buono e chi no. Non sappiamo niente del derubato-picchiato, potrebbe anche essere cattivissimo: ma era sofferente, aveva bisogno di aiuto. L’aiuto va dato a chi ne ha bisogno. Qui Sofri impianta un discorso che si amplia a tutte le condizioni in cui c’è un bisogno e ci sono dei bisognosi: le guerre, le carceri, le migrazioni, gli sfruttamenti. C’è un filo che collega il centinaio di paragrafi di questo libro, le badanti, le prostitute, lo tsunami, la strage di Erba, Israele-Palestina, i kamikaze, Priebke, le adozioni a distanza… Ognuno di noi, col suo piccolo bagaglio di esperienze, si sente attraversato venti-trenta volte da questo libro, e non può non avere delle reazioni personali. Anch’io. E delle mie reazioni personali parlerò. Prima però credo che Sofri abbia diritto a sentirsi dire che il suo libro è alto, teso, etico, non c’è nulla da obiettargli. E qui non intendo contraddirlo, ma raccomandarlo. Però i punti a cui arriva (ogni capitoletto ha una sua conclusione) non sono sempre punti d’arrivo, dove la questione muore, molti sono punti di svolta, dove la questione rinasce e riparte. Priebke: è nobile quel che Sofri dice, che Priebke ha diritto di morire a casa sua, in Argentina. La sua vita è conclusa, comincia la sua morte. Non possiamo punire fino alla o oltre la morte. Non è umano. Ma Priebke non è “un militare che obbediva agli ordini”, Priekbe s’è messo a disposizione del partito nazista nel ’33, ed è perché c’era lui e gli altri come lui che quegli ordini son diventati poi possibili. Per liberare Priebke, bisogna che una colpa, per la quale abbiamo stabilito la non-prescrizione, venga prescritta. Io non me la sento. Tullia Zevi nemmeno. E Sofri?Reciprocità. Non si può chiederla, ha ragione Sofri, si concede la libertà (per esempio, di fare una moschea), perché è giusto, anche se coloro a cui la concediamo non ci daranno mai l’analoga libertà di fare una nostra chiesa in casa loro. Di fatto però la nostra cedevolezza funziona come una debolezza, e rafforza la loro convinzione. Se noi crediamo in qualcosa, in un certo senso lo abbandoniamo e lo tradiamo. Chi ci nega la reciprocità oggi, a maggior ragione ce la negherà domani e sempre.Strage di Erba: Sofri la cita spesso. E’ giusto, c’è un processo in corso. Ma in questi casi, per stragi orrende, che pena si dà ai colpevoli? Puoi dare il massimo, se quando arrivano ai 65 anni chiedi che siano messi fuori? Allora, vuoi inventare un limite “fino ai 65” o “ai 75 anni di età”? Il condono della pena sminuisce la colpa. Erica ebbe come pena un gruzzoletto di anni, neanche enorme: pareva che quel che aveva fatto non fosse una strage, ma un incidente o poco più.Badanti: sono immensamente sole, 24 ore su 24, dice Sofri. E’ vero. Sono un caso di sfruttamento. Però io ne ho avuta una, per un vecchio di casa, in 6-7 anni ha messo da parte quel che le bastava, nelle Filippine, per comprarsi un negozio. Aveva un figlio, ogni due mesi riceveva una fotografia, e guardandola saltellava di gioia. Adesso è a casa col bambino e può mantenerlo. E se non faceva la badante?Adozioni a distanza: si guarda lontano per non essere turbati dalla fame dei vicini, dice Sofri. Ho un bambino adottato a distanza in India. Le madri premono perchè i loro bambini vengano accolti in una scuola cattolica (è proibito parlare di religione), perché lì mangiano due volte al giorno. Fingono che i figli abbiano sei anni, anche quando ne hanno 5 o 4. I salesiani li mettono in fila, e li invitano ad alzare il braccio destro, scavalcarsi la testa e toccare l’orecchio sinistro. Se ci arrivano hanno 6 anni, se no ne hanno meno. Il mio è passato, ha 6 anni. Penso alle madri disperate che tirano le braccia dei figli per allungarle. Forse è una miseria lontana, ma il suo grido è così alto, che è arrivato fin qui.

Dibattito su CHI E’ IL MIO PROSSIMO? di Adriano Sofriultima modifica: 2008-02-20T09:42:04+01:00da mangano1
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Un pensiero su “Dibattito su CHI E’ IL MIO PROSSIMO? di Adriano Sofri

  1. da Il Foglio del 19 febbraio 2008, pag. 2

    di Angiolo Bandinelli

    “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono lasciandolo mezzo morto…”. Il nuovo libro di Adriano Sofri, dal referente titolo “Chi è il mio prossimo?”, inizia così, con la famosa parabola raccontata dal vangelo di Luca (10: 25-37). Prosegue il racconto: “Un samaritano lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite versandovi olio e vino, poi, caricatolo sul suo giumento, lo portò ad una locanda e si prese cura di lui…”.. Tra i due brani, ve n’è per la verità un altro che anche riporto, però nella cinquecentesca versione del Diodati (protestante, ma le sue varianti sono solo linguistiche): “Or a caso un sacerdote scendeva per quella stessa via; e veduto costui passò oltre di rincontro. Somigliantemente ancora, un levita, essendo venuto presso di quel luogo e, vedutolo passò oltre di rincontro”. Sofri non vuole aggiungere interpretazioni a un tema già gravato di una “esegesi sterminata”; trascina però la parabola dentro ai nostri giorni, legandovi un episodio accaduto (la notizia giornalistica risale al 12 ottobre 2002) su quelle stesse polverose strade (“il tratto da Gerusalemme a Gerico – 27 km in tutto – era pericoloso allora, e lo è ancora”): “Un uomo, Rafiq Hamad, scendeva da Kalkilya a Tel Aviv. Alla fermata di Geha Road (…) cercò di salire sull’autobus 84, ma sbatté nella portiera che si chiudeva e cadde a terra svenuto, con il capo sanguinante”. L’autista dell’autobus, Baruch Neuman, vide quell’uomo nello specchietto retrovisore “e n’ebbe compassione”. Fermò il mezzo, lo soccorse con l’aiuto di un passeggero: “Gli aprì la camicia…e vide la cintura, fili elettrici e 5 chili d’esplosivo imbottito di chiodi e biglie”. Tenne fermo l’uomo che si divincolava e gridò alla gente di scappare, scappò anche lui. “L’uomo si alzò, fece qualche passo e si fece esplodere, gridando qualcosa in arabo. Saada Aharon, una donna ebrea di 70 anni, morì, altri 16 restarono feriti”. Nella sovrapposizione topografica, la parabola ha il suo rovesciamento: il conflitto israelo-palestinese, che Sofri investe da sempre di una appassionata attenzione, non sembra consentire l’intrusione di un samaritano.
    La nota parabola evangelica, ci notifica Sofri, “è la più forte definizione (…) del rapporto tra la compassione e la vicinanza e la lontananza”. Alla domanda se il tuo “prossimo” sia il tuo vicino o chi ti è più lontano, la parabola risponde: “il più lontano”: i samaritani erano, agli occhi degli ebrei, quasi dei meticci ed eretici, eppure il prossimo dell’infelice abbandonato per strada è un samaritano, non i due “professionisti di dio”, il levita e il sacerdote, che hanno tirato dritto senza soccorrerlo. Con il suo comportamento, anzi, il samaritano “si fa” prossimo fino a divenire “fratello” all’uomo sofferente, in una dimensione sempre più “universale” della compassione (com-passione): parafrasando Ratzinger, per Sofri “diventano miei fratelli tutti quelli che incontro e che hanno bisogno del mio aiuto”. Già Antigone aveva opposto alla legge di Creonte il suo amore “per chiunque giaccia insepolto: anche il nemico, anche il rinnegato”: “il samaritano è il passo verso questa universalità”.
    Il tema della com-passione attraversa sottotraccia, oltre alla prima dedicata al “prossimo”, le altre tre sezioni del libro, dedicate rispettivamente allo “scacco delle azioni umane (e specialmente delle buone azioni umane) e il suo legame con nozioni come l’indeterminazione, o l’eterogenesi dei fini”; alla questione dell’ottimismo, “cioè del pessimismo”; al nostro rapporto con le “generazioni future”; e, per chiudere, alla parabola del figliol prodigo, ma “dal punto di vista di chi è andato via di casa”. Nella densissima sezione dedicata al principio di indeterminazione e alla eterogenesi dei fini, Sofri si interroga sulla libertà e il suo rapporto con la storia: in definitiva, sul senso della politica. Il principio di indeterminazione, scoperto da Werner Heisenberg nel 1927, stabilisce una limitazione irreversibile alle capacità predittive cioè al valore oggettivo della scienza, mentre il principio della eterogenesi dei fini enunciato da Wilhelm Wundt (ma semi se ne ritrovano già in Vico e in Hobbes) sostiene – scrive Sofri – che “i risultati delle azioni umane non corrispondono, e spesso tradiscono e rovesciano, gli scopi da cui sono partite”. Se si condiscende alla moda che ama trascinare grossolanamente “una espressione scientifica fuori del suo campo” si potrà dire che, col suo negare consistenza della realtà, il principio di Heisenberg apre la porta a ogni sorta di relativismo e al più nefasto negazionismo. Per l’eterogenesi dei fini viene citato Weber: ”E’ del tutto vero che il risultato finale dell’azione politica viene a trovarsi spesso, anzi regolarmente, in un rapporto completamente inadeguato e molte volte paradossale con il suo significato originario”. Ne risulta una tragica “impotenza” dell’uomo che alla fine mette a nudo la sua “naturale malvagità”. Figurarsi cosa fosse da aspettarsi da quel paradigma della “solidarietà verso l’umanità intera” che fu lo schematismo dell’azione politica della generazione di Sofri, la quale prometteva una solidarietà “internazionalista e senza frontiere, tanto più sentita quanto più lontana: il Congo, Cuba…”. La grottesca promessa venne sconfitta dalla storia, dagli eventi, persino dagli uomini (la chiave solidarista rinacque, ma rovesciata, nella Polonia di Solidarno‰ã). C’era da aspettarselo, del resto: “i rivoluzionari hanno una peculiare esperienza di questo scacco. E in genere gli attivisti del bene fatto al prossimo e al pianeta”.
    Era stato coltivato, quel tale schematismo dottrinario, sull’humus delle grandi ideologie deterministe darwinian-marxiste, che erano comunque ancora di matrice umanistica. Avrebbe potuto rifarsi a radici del tutto diverse. Ricordate Spinoza: “Chiamo libero chiunque è unicamente guidato dalla ragione”?; ma, obietta Sofri, “non passa giorno senza che sia individuata nella mappa cerebrale la sede esarca di emozioni e inclinazioni sulle quali si sono spesi millenni di verso lacrime e voti agli dèi”. Peggio ancora: ”Per una scienza convinta della conoscibilità (e osservabilità e misurabilità) infinita (…) ogni passo avanti della conoscenza riduce la libertà e accresce di altrettanto il determinismo”…”Le scienze da prima pagina (…) promettono una conoscibilità perfetta della vita umana e (…) una sua prevedibilità e plasmabilità totale. Una determinazione senza residui”. In piena regressione, l’uomo si sta identificando con i suoi condizionamenti fisici e biologici. E allora addio alla libertà spinoziana: “La nuova fisiologia del cervello (…) mira a ridurre di molto la responsabilità personale”. Unica uscita di sicurezza, figurarsi, il richiamo a Heisenberg e al suo principio: “Nel mondo degli atomi non ci sono cause determinanti; regna piuttosto l’aleatorietà e l’indeterminazione, anche se nel quadro di una sostanziale regolarità. Solo un corpo di una certa dimensione può produrre un effetto mirato e prevedibile. Solo un animale può rendersene conto. Solo un uomo può mettere in relazione il concepimento di una azione con l’effetto della stessa, pensata come causa” (E. Boncinelli, “Il male”, 2007). Mi pare che in tutto il libro non ci sia un solo richiamo ai teorici dell’etica liberale, da Constant a Croce ad Aron, o anche alla tradizione personalista di un Mounier. Così l’uomo non è retto dalle grandi norme kantiane, o crociane, o spinoziane, l’etica la ritroviamo a livello quantistico, nel gioco ambiguo del probabilismo heisenberghiano: chissà, ci si potrebbe chiedere, se il buon samaritano ha agito per spinta cosciente o per impulso neurobiologico. Su questa umanità inquietante e persino dubbiosa di se stessa, della propria natura messa in forse da scoperte che possono portare a “cambiare la natura umana fino a spezzarne la continuazione con le generazioni passate e la nostra” incombono scenari devastanti, una sorta di ripetizione, moltiplicata per un milione, di quel terremoto di Lisbona (1755) ricordato da Sofri come l’evento drammatico che fece abbandonare a Voltaire l’ottimismo illuminista: “Guerra, manipolazione del clima, disastri naturali, stanno in un unico viluppo” dal quale pare impossibile districarsi.
    Viviamo forse nella ”Cultura della Rottamazione”, nella “Filosofia della Rottamazione”? L’uomo è divenuto un mero supporto acrilico, tipo i “cretti” di Burri? Sofri capovolge il pessimismo fino a farlo incontrare faccia a faccia con l’ottimismo: più o meno, ci pare, è l’ottimismo tragico di Mounier. E’ pur vero che persino il rapporto pessimismo/ottimismo dipende da una attività “neuronale”: così avrebbe potuto giocare con i due termini uno Swift, e in effetti molte pagine di questo libro sono di timbro swiftiano: i rapporti tra uomini sono fatti di distanziamenti e avvicinamenti ottici che assumono valore morale: la piccolezza diventa un disvalore, per Voltaire la Cina, “l’antipodo per eccellenza”, ha “la costituzione migliore del mondo”, ecc. Sofri è un po’ un Gulliver, fa convivere situazioni divaricate e magari incommensurabili nell’alveo di un calibrato e attentissimo eclettismo, del tipo che egli attribuisce a merito di Voltaire, difeso dalle accuse di essere il padre dell’”Ottantanove” e delle “delle dittature novecentesche”, ed invece rivalutato per l’”apertura eclettica contro il dogmatismo clericale” e per aver attivamente promosso “l’opposto del delirio dogmatico e cannibalesco del comunismo dispotico”, cioè il sale della tolleranza e della libertà laica. La polemica antitotalitaria, antifondamentalista e antiterrorista, la difesa dei valori democratici sono sempre, in Sofri, pilastri incrollabili.
    E se pur fosse non un valore ma la risultante della eterogenesi dei fini, Sofri è fiducioso che la libertà possiamo – dobbiamo – ammetterla, scoprirla almeno nella spinta interiore alla com-passione, all’incontro e la scoperta del prossimo. Nella cella, la piantina di basilico coltivata “in un fondo di bottiglia di plastica” accende di una speranza la quotidianità del detenuto, così come l’incontro con il prossimo, il “farsi prossimo” dell’altro, riscatta il fallimento, lo scacco di tante umane certezze e comportamenti, a partire dalla politica. E l’altro è sempre dietro l’angolo: questo è un libro di incontri, di persone, di gente, ma anche di libri, di citazioni, di spunti, di occasioni, forse di ossessioni. Sofri è maestro nell’evocarci figure e figurine incontrate nei più diversi posti, dal carcere a Buenos Aires, che sono configurazioni diverse, travestimenti, del prossimo della parabola evangelica. E ogni incontro, del primo come del secondo tipo, ha una sfaccettatura sua singolare, cosicché ogni citazione è un azzardo, può essere confermata ma anche capovolta alla pagina successiva, come in un labirinto che ti proietta ad ogni passo su dimensioni impreviste.
    E’ altamente probabile che l’umanità, presa da un “delirio di distruzione” “abbia ricevuto in solido un avviso di scadenza per dopodomani, più o meno”, e si trovi in una fase di “malattia terminale” e forse di “estinzione”. Sofri ha, per la verità, una qualche perplessità in merito: la parabola del figliol prodigo potrebbe significare che il peccato, il male e la “fallibilità umana” siano l’ambiguo dono di un dio che mette a prova, provoca l’uomo, sfidandolo al pentimento e alla riconquista del bene: non all’innocenza di cui si compiace il figlio restato a casa, ma a “non fare più” il male (il male del conoscere?) che l’altro figlio, quello che se ne è andato all’avventura, ha attraversato. Dunque, una speranza di salvezza c’è ancora. E dunque, “diventa tanto più prezioso, oggi, ogni pensiero, ogni gesto che miri lontano, che coltivi la vita oltre la nostra vita”. C’è da augurarsi che prendano sempre più forza, nella consapevolezza comune, le tematiche sollevate – già nel 1979 – dal filosofo Hans Jonas, nel suo sforzo “di procurare un fondamento all’imperativo categorico della responsabilità verso le generazioni future” tenendo conto della novità costituita dalla “grande impresa tecnologica che rende possibile la fine del mondo” favorendo, come fa, “un dispotismo travestito di religione o di ideologia” (oggi, ulteriori rischi si presentano nella “molecolare erosione e consumazione del mondo attraverso l’esistenza ‘normale’ dei suoi inquilini umani, automobilisti e collezionisti di sabbia rosa, disboscatori e respiratori di aria condizionata…”).
    Una “misantropia sdegnata, che investe altrove i propri risparmi d’affetto” può anche pensare “che non sia affatto necessaria la sopravvivenza dell’umanità”. Ma, una volta raccolto il messaggio del samaritano, chi “vorrebbe lasciare un mondo senza eredità di cuccioli umani?”.

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