Gianfranco Bettin,Ultimi compagni di viaggio del 900

20cfa7268c3d2b7968947c428592a2fa.jpgda IL MANIFESTO, 19 febbraioIl secolo breve riletto attraverso le opere di alcune figure intellettuali spesso dimenticate o relegate ai margini dal pensiero dominante. Un’anticipazione di una relazione all’incontro torinese «A che servono i maestri?»Si poteva, e si può, criticare radicalmente l’esperienza storica dei socialismi reali senza per questo esaltare il capitalismo e i suoi regimi, senza ritenerlo la sola se non la migliore forma possibile di organizzazione della società e della produzione. Si può negarsi a ogni sciocca speranza e a ogni febbrile utopia senza per questo pensare che «ciò che è reale è razionale» e che il dio della Storia, con le sue armi e le sue ricchezze e i suoi poteri, ha sempre ragione.Si può uscire, o cercare di uscire, dal nodo destra/sinistra senza farsi qualunquisti, senza scoprirsi o volersi cinici nei falsi disincanti dell’opportunismo. Si può, perfino, pensare ancora di essere «di sinistra» in un modo totalmente altro da quello che a lungo ha ufficialmente significato e che ha impoverito la parola stessa oltre che il suo senso. Un senso la cui radice, già verde e feconda, non si sa nemmeno più dove sia oggi piantata. O, viceversa, si può davvero uscire dalla dicotomia e da ciò che, nelle tradizioni politiche e ideologiche del Novecento soprattutto, ha significato e piantare la radice delle proprie idee e del proprio confronto con il mondo su un terreno davvero altro e davvero verde e fecondo. Si può, insomma, anche oggi, nel nostro oggi bruciato e smaliziato, sentire buone lezioni e ascoltare – leggere – maestri (e maestre) in grado di impartirle senza temere di cadere negli inganni dei guru, nelle manipolazioni dei profeti (sedicenti), nei deliri di qualche Vate.Il secolo sulle spalleFilippo La Porta (Maestri irregolari. Una lezione per il nostro presente, Bollati Boringhieri) ci propone una galleria di maestri e maestre «irregolari», compagni ideali nel viaggio che ha attraversato il secolo. Buon per chi li ha saputi, nel tempo, riconoscere come tali. Ha viaggiato meglio, ha capito di più, si è magari sentito meno solo e smarrito. Ma sono stati pochi, costoro. Gli «irregolari» a cui La Porta rende omaggio – Nicola Chiaromonte, George Orwell, Simone Weil, Albert Camus, Ignazio Silone, Arthur Koestler, Carlo Levi, Hannah Arendt, Cristopher Lasch, Pier Paolo Pasolini, Ivan Illich – non hanno in genere avuto gran seguito. Non hanno avuto – loro – molti compagni di viaggio. Chi non ha potuto giovarsi della loro parola e del loro pensiero, a volte del loro esempio diretto e concreto, ha perso molto. Ma loro soli, a volte isolati, lo sono stati spesso nel modo più oggettivo e pesante, tra denigrazione e marginalizzazione o (nei casi migliori) riduzione alla sola dimensione artistica, letteraria, del loro impegno e del loro lavoro. La ragnatela dell’ideologiaLa cosa che più colpisce del libro di La Porta, oltre alla pregnante ricostruzione dei diversi percorsi intellettuali e umani sullo sfondo delle rispettive epoche (che sono, tutte insieme, il secolo che incombe alle nostre spalle e che sembra non finire mai, altro che «breve»!), è che mostra con nitida e, in un certo senso, dolorosa chiarezza come, nel pensiero di questi autori, avrebbero potuto trovare con estrema naturalezza dei punti di riferimento formidabili, dei veri e propri nutrienti vitali, molti tra i più generosi e originali esperimenti politici, culturali, artistici, molte avventure esistenziali innovative che invece, per tutto il secolo appunto, o hanno finito per riconoscersi nelle ideologie ufficiali finendo per sclerotizzarsi (o per diventarne parte, assimilate al dominio e al conformismo) oppure per smarrirsi e svuotarsi progressivamente. Una buona risposta a tante domande e ricerche esistenziali, intellettuali e politiche era lì, sotto gli occhi, a portata di mano – in carne e ossa, a volte, letteralmente – e tuttavia in pochissimi se ne sono giovati. Il mancato incontro tra il Sessantotto e almeno alcuni di questi autori, ad esempio, è uno dei maggiori drammi culturali – e non solo – degli ultimi decenni e li segna in profondità, marcando una frattura le cui conseguenze si avvertono pesantemente ancor oggi. Le odierne commemorazioni del ’68, nell’ovvio quarantesimo, lo confermano, sia quando si accaniscono a denigrarlo (o a infamarlo) sia quando lo celebrano. Le retoriche contrapposte, in realtà, ignorano entrambe il senso profondo del sommovimento che ha preceduto, accompagnato e seguito quella stagione. L’incontro con l’ideologia – il ritorno di Lenin, diciamo, evocando una delle più utili antologie di testi e documenti di allora: Il ’68 senza Lenin, a cura di Goffredo Fofi e Michele Colucci (e/o) – e, in alternativa o in successione, una sorta di continuo e disorientato bricolage delle pratiche culturali ed esistenziali, hanno depotenziato la carica trasformatrice globale del movimento, e dei suoi singoli membri soprattutto, e ne hanno preparato il riassorbimento nell’establishment (a volte anche in modo indecente). Il suo mancato incontro, appunto, con lezioni e pensieri come quelli dei «maestri irregolari» ha privato la ricerca pur così diffusa, così radicale, così persistente ben oltre il maggio fatale, di solidi approdi etici e culturali, così da favorire una sorta di surfing politico e teorico accompagnato spesso da una irrisolta maturazione umana. Un’omologazione coattaOrwell e Koestler e Silone e Weil e Chiaromonte avrebbero ben potuto vaccinare dai deliri ideologici, dalle manie di grandezza, non solo smascherando i falsi maestri ma, in radice, criticando a fondo l’idea stessa di grandezza storica che quelle ideologie rimettevano in circolo e, con ciò, andando più dentro e «contro» i meccanismi del reale (parlando della Weil, La Porta ricorda appropriatamente come abbia «saputo dare un fondamento concreto, direi esperienziale, all’etica stessa» e, citandola: «È bene ciò che dà maggiore realtà agli esseri e alle cose, male ciò che gliela toglie». Val pena di sottolineare come questo richiamo radicale alla realtà, fatto proprio anche da Elsa Morante, non sia affatto in contrasto con quanto di meglio si può intuire espresso nello slogan più celebre del ’68: l’immaginazione al potere). Arendt e Lasch, a loro volta, da diversi angoli visuali e diverse latitudini temporali, avrebbero potuto ben condurre dentro il nesso tra democrazia e società, tra individuo e istituzioni, tra libertà e responsabilità, armando la coscienza di anticorpi contro ciò che, troppo facilmente, ha poi fagocitato nel sistema e irretito nelle sue seduzioni chi aveva cominciato contestandolo. Ancora Silone, e Levi, e Pasolini, avrebbero potuto mostrare a chi, risucchiato senza riferimenti solidi nella modernità del «boom», ne stava smarrendo la percezione, un’altra Italia e contribuire a un diverso e nuovo temprarsi etico e morale e a una diversa e nuova evoluzione politica, della cosiddetta «meglio gioventù» di questo paese. Una gioventù troppo in fretta e con ben poca resistenza – sarebbe forse stata la vera «nuova Resistenza» – assimilata, tra ’68 e ’77 e dopo, nell’omologazione generale, nel «nuovo fascismo» disperatamente e lucidamente descritto «in presa diretta» da Pasolini. E un Ivan Illich avrebbe ben potuto mostrare ai «persuasi» (con o senza virgolette) dall’istanza ecologista, ai «convertiti» alle nuove pratiche e ai nuovi stili di vita «equi e solidali» (come, ai neo nonviolenti, sarebbero stati necessari il pensiero e l’opera di Capitini o, ai buoni educatori, di don Milani), vie credibili per passare dalle parole ai fatti, da una sensibilità magari autentica ma generica a una vera e solida coscienza, oltre che a coerenze che proprio i maestri irregolari spesso impersonavano nel loro modo di essere, ricorda La Porta, «umili ed esigenti, in parte involontari, maestri senza scuola e senza chiesa», cioè refrattari a ogni gerarchia (compresa quella in cui avrebbero potuto trovare un posto, volendo). Nel flusso della storiaQuesti incontri, quasi sempre, sono invece mancati e molti problemi d’oggi derivano anche da questo, a cominciare dalla solitudine riservata a chi, invece, tra tali lezioni «irregolari» e i problemi del presente ha cercato un nesso. Tra tutti, e peraltro non molti, citerei Alexander Langer, con il suo sforzo tragicamente infrantosi di stare nel flusso dei fatti, nei percorsi delle persone, specie quelle aggredite dalla vita e dalla storia, cercando di sfuggire ai nuovi luoghi comuni del movimento e di annodare i fili che lo potevano avvicinare a molti di questi buoni maestri. Langer è uno che li ha presi sul serio, uno dei pochi. La sua solitudine è la loro solitudine. «Maestro è chi, arrivato prima, ci chiede di raggiungerlo, anche se la via dobbiamo trovarla da noi», scrive La Porta in una bella, intensa pagina. Forse, però, «maestro», almeno nel senso eccentrico e generoso mostrato da questi autori, è anche chi ha saputo smarrirsi, sfidare la fatica dell’impegno diretto, la fragilità che tutti ci segna, toccare l’impotenza e sentire lo scacco, e perfino, scandalo estremo, dire basta e dire addio. Maestro è anche chi, arrivato prima alla sconfitta, non ci chiede di raggiungerlo e ci aiuta invece a trovare la strada per continuare a cercare «quello che è giusto».

Gianfranco Bettin,Ultimi compagni di viaggio del 900ultima modifica: 2008-02-20T09:15:05+01:00da mangano1
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