Giulio Iacoli, Rileggendo Zazie nel metro

0d28d5611380f381b5d2f28c81c37ced.jpgInformatrice o sabotatrice? Zazie e l’antropologia della modernità quotidiana, tra Queneau e gli studi di de Certeau21/07/2005versione pdf © UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI BERGAMO Inizierei con il dire che le pagine seguenti rappresentano una sorta di prospezione su Queneau e il mondo da egli rappresentato che rientra in un più ampio progetto sulle modificazioni nella percezione e nella rappresentazione dello spazio tra moderno e postmoderno, già intrapreso ai tempi del dottorato, e finora diretto verso Borges, Bergman, Calvino, Perec, DeLillo, principalmente. Perché dunque aprire a Queneau, attraverso l’antropologia urbana, e perché Zazie? Perché Queneau, con il romanzo in questione, inventa una proiezione conoscitiva, la ragazzina di provincia Zazie, abilissima nel sabotare la conoscenza standard dei luoghi e delle persone e, al contempo, nell’attivare percorsi di conoscenza topografica o, ancora, demografico-antropologica del mondo ri-topografato dall’autore (e, al suo interno, le potenzialità di quanto Queneau denomina «la factidiversialité»). Roland Barthes, in uno degli Essais critiques uscito nello stesso anno del romanzo, ha osservato per primo come in Zazie il punto di vista sia accordato all’autore stesso, funzionale alla creazione di una paradossale riconoscibilità della scrittura entro i modi di una tradizione romanzesca francese e, di conseguenza, di una familiarità con i lettori che ne avrebbe agevolato l’ampio successo; eppure le valutazioni, le scoperte, le continue inchieste sono rimandate a una prolungata contrattazione tra la ragazzina stessa e gli altri personaggi (gli adulti); il dialogo assume su di sé la responsabilità dello svelamento di quella che definirei una costruzione corale del paesaggio antropologico.Zazie demarca uno spazio, quello del giudizio sulla città che intende visitare, mediante stereotipi personali (solitamente congruenti con l’idea che gli adulti siano tutti dediti a deconner) e mediante l’insistenza sull’agire interrogativo: domanda per porre in difficoltà o in aperta contraddizione l’interlocutore, per demistificare con il suo punto di osservazione fantasioso la logica, che certo nel romanzo non appare ferrea, degli adulti – ricordo per inciso come il porre interrogativi strutturi in profondità la ragion d’essere di, Jérôme e Sylvie, psicosociologi dediti a inchieste di mercato, protagonisti del romanzo d’esordio di un figlioccio letterario di Queneau, Les choses di Georges Perec. Per tornare a Zazie, la sua è insomma una ridda di questioni gnoseologiche (dov’è il métro, su tutte) che sfocia in più generali questioni identitarie.Se al centro dell’interpretazione dei personaggi sta la discussione sull’identità dello zio Gabriel/Gabrielle, ballerino en travesti al Mont-de-Pitié (e su di lui il pressing di Zazie si manifesta nell’angosciante interrogativo su cosa sia un hormosessuel), nondimeno è l’essenza della città stessa, o meglio ancora, di una nazione postbellica rappresentata per sineddoche dalla sua capitale, a essere messa in discussione nei suoi riti fondativi, nella sua ragione monumentale: si ricorderà l’esilarante corsa in taxi ad inizio di romanzo dove Gabriel discute di continuo con l’autista e proprietario del mezzo, l’amico Charles, sull’individuazione – sempre da entrambi sventatamente azzardata e sempre frustrata dalla verità dei fatti – dei singoli luoghi monumentali di Parigi.Zazie giustamente berteggia l’ignoranza dei due, irrompe nel continuum di una descrizione neomitologica dell’allure parigina con il rigore oppositivo di chi contesta e impugna le regole del gioco: la città dovrà essere da lei ridisegnata secondo un modus vivendi alternativo. Così, per denegare la virtualità di una sua formazione culturale, la giovinetta risponde allo zio che si perita di asserire la veridicità delle sue informazioni storiche e spaziali nel modo seguente:– Zazie […], si ça te plâit de voir vraiment les Invalides et le tombeau véritable du vrai Napoléon, je t’y conduirai.– Napoléon mon cul.Ma se Zazie appare uno strumento nelle mani di Queneau per vedere simili moderni tableaux parisiens, la realtà vivente dell’organismo urbano, è altrettanto vero che attraverso di lei si vedono la storia, la letteratura, immancabilmente deformate. In questo senso, Zazie è concepibile come una nuova Albertine o un’anti-Albertine, mi sembra: se l’eroina proustiana in cattività, in un noto episodio rivelatore, lascia trapelare indignata la sua paura di rompersi certe parti intime per la noia, quella di Queneau manifesta la volontà di romperne altre (come bene tradusse il nostro Fortini) ad altri antagonisti avventizi, che ne interrompano, per così dire, la libertà inventiva e la particolare necessità di esprimersi. E, come il suo antimodello proustiano, nel proseguire la sua visita allo zio, Zazie fugge, da casa come dall’ascesa alla Tour Eiffel, imprimendo al racconto una velocità di azione e una fluidità nella derivazione di un episodio da quello precedente delle quali Louis Malle, nel visualizzare per immagini il romanzo, non potrà non tenere conto, rievocando poi in un’intervista il carattere avventuroso, frenetico e oltremodo giovane, della sua pellicola.Ma fermerei per un attimo il vortice delle monellerie di Zazie, e il loro trasfondersi in nuovi incontri sempre con personaggi-limite (presunti satiri, tardone, flics…), per contestualizzare meglio le affermazioni iniziali sulla natura squisitamente antropocentrica e antropologica del romanzo. Anzitutto, richiamerei la figura di Marc Augé, la sua pervasiva osservazione metropolitana come forse una delle sue idee più fortunate, la teorizzazione dei non-luoghi. Se possiamo anche solo pensare a Queneau, in maniera per certi versi non dissimile da Borges, come a uno tra i primi inventori di spazialità postmoderne, non sfuggiranno altre presenze imponenti nella quotidianità descritta dai suoi romanzi, che difficilmente potremmo evitare di ascrivere agli odierni non-luoghi: lo spettacolare Uni-Park, il grande parco di divertimenti che verrà misteriosamente dato alle fiamme nottetempo in Pierrot mon ami, il quale svetta nella banlieue per essere riconoscibile ovunque, mondo fittizio che riproduce al suo interno le regole dell’isolamento sociale per il malinconico protagonista; oppure il tentacolare camping meta di avventurosi turisti stranieri, distante cinquecento metri dalla chiatta ormeggiata sulle rive parigine dal Cidrolin punitore di se stesso delle Fleurs bleues (lo ricordo, è egli stesso l’autore delle scritte infamanti e anonime sul suo conto che alla mattina vengono scoperte sulla palizzata di fronte all’imbarcazione, e che ci rimandano a un enigma celato nel suo passato).Accanto a simili modelli, l’esplorazione di Zazie si incarica di localizzare eventi, associazioni di luoghi e di persone, come avviene per il confusionario pullman di turisti francofili (siamo davvero prossimi all’episodio delle turiste anglofone in gita alla Parigi di Playtime di Jacques Tati) che rapisce Gabriel per essere poi raggiunto dalla ragazzina nei pressi di un’altra meta monumentale, la Sainte-Chapelle – e tutto questo grazie all’incontro fortunoso con il timido vigile Trouscaillon, che non si rivelerà essere altri se non il presunto satiro che le ha acquistato in mattinata, al Marché aux puces, un paio di seducenti bloudjinnzes! Ma, accanto alla localizzazione, e dunque a un processo di messa a fuoco, di esplicitazione delle singole icone nazionali come motivi organizzatori del racconto, si verifica un procedimento di continua delocalizzazione, di rifacimento discorsivo degli ancoramenti spaziali minimi della vicenda: il lettore è condotto a perdersi, a smarrire la certezza dei percorsi stabiliti – il rispetto per le icone stesse, per la propagazione ufficiale della memoria – per seguire il moto spiazzante della coscienza-Zazie, la quale a sua volta, secondo Barthes, tende a rivestire un ruolo utopistico: le sue domande su Parigi restano inevase, come pure la sua quest moderna per il métro, bloccato dallo sciopero. Allora, il suo risulta essere meno un tourbillon che un détour, un continuo aggirare gli ostacoli, le resistenze dell’opinione comune per affermare la legittimità del proprio modo di collazionare idee sul mondo; un esercizio insopprimibile, una forma quasi automaieutica di risposta alle sollecitazioni della quotidianità. È a partire da queste considerazioni che richiamo allora quella che è la seconda auctoritas a presiedere questa breve analisi: l’osservazione ravvicinata, da parte di Michel de Certeau, delle pratiche di spazio raccontate nel suo fondamentale L’invention du quotidien, del 1980.Si tratta di vedere come la letteratura, secondo una recente formulazione di Gabriella Turnaturi, possa fungere da teoria sociale prefigurante, offrire anticipazioni rispetto allo sviluppo di osservazioni socio-antropologiche future. Nel caso specifico, la Parigi di Queneau non andrà apparentata a un futuro dromocentrico, come nel quadro dell’antropologia negativa, delle immagini di “villes-panique” congegnate da un Virilio: vi sono sì, nel romanzo, accenni al potere futuro delle macchine, delle lavatrici come del cinema, della televisione e dell’elettronica che sostituiranno le maestre in carne e ossa, privando così Zazie di una prospettiva professionale – in realtà, della soddisfazione di poter sfogare il proprio sadismo su generazioni di futuri allievi, di poter avere sempre «des gosses à emmerder». Ma si tratta di rimandi lontani, avvertiti come un’eco estenuata nella parlata comune, riflessi di un immaginario esotico. Al contrario, con de Certeau siamo di fronte a uno spazio ancora umanistico, si direbbe “pedonale”, dove il comportamento del singolo viene letto in relazione alla sua sopravvivenza quotidiana (sarà ancora Perec a sintetizzare, in una celebre sententia la vita come il tentativo di passare da uno spazio all’altro facendosi il minor male possibile).Se l’antropologia del quotidiano intrapresa nel libro del gesuita francese non mostra alcun motivo effettivo di contatto con l’opera di Queneau né tantomeno con la sua eroina adolescente, leggere il romanzo “alla luce” di de Certeau può nondimeno fornire elementi utili a configurare idee sulla relazione scrittura-potere che il personaggio di Zazie pare convalidare. In modo specifico, Zazie sembra impersonare in maniera esemplare il tipo di opposizione alle pratiche di potere che viene definito con il termine di “tattica”, contrapposto a sua volta alle mosse costitutive del potere, a un sapere organizzato che risponde al nome di “strategia”. La definizione precisa di “tattica” è la seguente: «l’azione calcolata che determina l’assenza di un luogo proprio […]. Si sviluppa di mossa in mossa. Approfitta delle ‘occasioni’ dalle quali dipende, senza alcuna base da cui accumulare vantaggi, espandere il proprio spazio e prevedere sortite […]. Questo non luogo le permette indubbiamente una mobilità, soggetta però all’alea del tempo, per cogliere al volo le possibilità che offre un istante. Deve approfittare, grazie a una continua vigilanza, delle falle che le contingenze particolari aprono nel sistema di sorveglianza del potere sovrano, attraverso incursioni e azioni di sorpresa, che le consentono di agire là dove uno meno se l’aspetta». Nell’ambito del romanzo contemporaneo, difficile pensare ad altre figure che possano incarnare in maniera così limpida e performativa, programmatica, l’aspetto tattico: nella società degli adulti, Zazie riempie le caselle di senso lasciate vuote dal discorso comune per mezzo di una comunicazione tagliente, spiazzante, dell’esibita volontà di attuazione del suo modus a dimensione di ragazzina. Quello che per de Certeau si rivela vero sul piano dell’agire spaziale – di quanto qualifica come “retorica abitante” – per Barthes aderisce a un piano di spiegazione linguistica di Zazie, il suo appartenere, lo ricordo, a un regime utopico, a una serie di premesse prive di luogo proprio, a una costante dinamizzazione del presente che non trova una responsione materiale alle attese. Sempre Barthes parla di una presenza significativa, tra le retoriche del romanzo, dell’antifrasi, manifestata sin dal titolo stesso: in realtà, per il perdurare di un odioso sciopero, la protagonista è destinata a non vederlo affatto, il métro. Al suo posto, nel senso stesso istituito dall’ambito di negazione, di rovesciamento connesso agli usi dell’ironia, scorre una serie irrefrenabile di eventi, in piena anarchia educativa – un coacervo di mondi e figure, di abbuffate e di travestimenti che non risponde a una Bildung preordinata, ma a un rimescolio casuale delle carte della vita quotidiana. Priva com’è di una realizzazione alle sue promesse di sviluppo, l’opera di Queneau esula da una sua classificazione in quanto romanzo a tesi sociologico, e rigettando un luogo proprio per la protagonista si sbarazza dell’approfondimento in senso realistico che sorregge un’intera tradizione narrativa ancora novecentesca. Riprendendo de Certeau, l’abolizione di una permanenza strategica del personaggio, oltre a ribadire la sua debolezza intrinseca, la sua necessità di farsi grande tra i grandi per mezzo di stratagemmi, di astuzie, postula anche una descrizione della città come racconto nel senso etimologico che lo studioso riprende: diegesi, attraversamento, manipolazione dello spazio che disloca l’ordine originario previsto dalla mappa, che deforma le aspettative regolate urbanisticamente – in altre parole, istituisce un profondo rovesciamento di gerarchie e di posizioni fisse. Che è quanto Queneau sembra appunto privilegiare in un romanzo la cui assenza programmatica di profondità, ha osservato Andrea Pasquino, è garantita dal fuoco di fila dell’ironia. Così, il quotidiano e le oscillazioni dell’identità del singolo come del significato della parola ‘famiglia’ vengono affidati a un occhio sempre mobile, a una proiezione che dissolve nel riso continuo – nella creazione di scenari paradossali – la tentazione della fissità, di un giudizio definito una volta per tutte sul mondo rappresentato. Questo è quanto ho cercato di delineare come “costruzione antropologica” di Queneau, il suo significato letterario, ma forse altri, sorretti dallo scrutinio di Barthes, mi smentirebbero, localizzando la sostanza del romanzo nelle sue fondamenta linguistiche; forse ancora lo stesso Queneau, servendosi della sua creatura libertaria, incoercibile, proclamerebbe – e qui chiedo venia alla seria categoria degli antropologi – «Anthropologie mon cul!»

Giulio Iacoli, Rileggendo Zazie nel metroultima modifica: 2008-02-21T00:10:26+01:00da mangano1
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