Aldo Capitini: l’educazione come liberazione

e4942fae21140d30ae87b740006daf75.jpgdal MANIFESTO del 21 febbraio DONATELLO SANTARONE Il profeta della non violenza che sale in cattedra Aldo Capitini «Il pensiero disarmato», un saggio che ricostruisce la sua parabola di studioso A scuola di valori Un attivismo segnato da una forte tensione religiosa che si riflette nelle sue teorie pedagogicheNella faticosa opera di ricostruzione di un pensiero critico e di un’azione politica di sinistra, un posto non secondario dovrà essere assegnato all’inquieto e profetico liberalsocialismo di Aldo Capitini. Personalità profondamente «religiosa», ma in modo sempre antidogmatico e polemico con la gerarchia ecclesiastica (la sua sensibilità per i perseguitati lo portò negli anni Trenta a definirsi «ebreo onorario» e nel dopoguerra a chiedere al vescovo di Perugia di essere cancellato dagli elenchi dei battezzati), coerente antifascista e attivo propugnatore, sul piano teorico e pratico, della lotta nonviolenta. La componente profetico-religiosa del socialismo di Capitini si sostanzia nel farsi carico, leopardianamente, e in un orizzonte storico di liberazione umana, anche di quelle dimensioni dell’esistenza spesso trascurate nell’azione politica: la malattia, la vecchiaia, la morte.Per Capitini, «oppresso – ha scritto Norberto Bobbio – è un salariato, ma oppresso … è anche il condannato alla pena capitale, il nato cieco, il morto». Fu di Capitini l’idea di promuovere nel 1961 la prima Marcia per la pace da Perugia ad Assisi. Espressione proprio di una nonviolenza tesa a trasformare dell’esistente che lo porterà a sostenere le lotte di Danilo Dolci in Sicilia, le denunce antimilitariste di Don Milani e altre innumerevoli azioni contro la guerra e per il disarmo. Una lotta nonviolenta, però, mai pensata come bel gesto eroico di un individuo isolato, ma come processo difficile e molecolare di lotta di cui – scrive Capitini riflettendo sul rapporto tra marxismo e nonviolenza – è stato protagonista centrale proprio il movimento operaio con le sue posizioni contro le guerre imperialiste, con le manifestazioni di massa, gli scioperi, l’occupazione delle terre, la disobbedienza civile. Michelstaedter, Momigliano, Calogero, Codignola, Tartaglia furono alcuni degli interlocutori e maestri di Capitini. Ma la sua passione per la filosofia, la letteratura, la religione, la politica fu costantemente intrecciata a quella per la pedagogia (disciplina che insegnò per lunghi anni nelle università di Cagliari e Perugia). L’agire educativo permeò l’intera sua esistenza, forte della convinzione che l’uomo nuovo nonviolento non nasce in maniera naturale ma necessita di un lungo percorso di apprendimento fatto di conoscenze e di comportamenti. È proprio a questa dimensione che il giovane ricercatore Marco Catarci dedica il volume Il pensiero disarmato. La pedagogia della nonviolenza di Aldo Capitini (Edizioni Gruppo Abele, pp. 317, euro 18), un documentatissimo lavoro che ricostruisce l’intera parabola teorica e pratica di Capitini, approfondendone però in maniera intelligente e attuale la dimensione pedagogica. Il tutto intramezzato da interviste a quanti hanno conosciuto o si sono confrontati con i temi capitiniani: Goffredo Fofi, Pietro Pinna, Alberto Granese, Luciano Capitini, Lidia Menapace e altri. Un punto su cui Catarci insiste è quello relativo alla concezione capitiniana dell’educazione come liberazione, in forte consonanza con un altro teorico della pedagocia del Novecento, il brasiliano Paulo Freire, anch’egli oggetto di interesse e studio da parte dell’autore. In questo Capitini non si accontenta della pur straordinaria tradizione dell’attivismo pedagogico, che con il filosofo statunitense John Dewey aveva esaltato l’esperienza del soggetto che apprende in un contesto di progressiva e autonoma conquista di una cittadinanza democratica. Capitini avverte tuttavia il pericolo di un’esperienza che amministra se stessa senza determinare quelle trasformazioni fondamentali del soggetto in direzione della pace e della nonviolenza e per il superamento delle ingiustizie sociali. «L’educazione – scrive nel 1953 – è la concreta occasione a vivere il superamento del mondo e della sua ripetizione, incontrando il di più». Questo «di più» è per Capitini quell’«aggiunta» di valori «forti» che soli danno un senso ai processi educativi. Valori propedeutici a una piena realizzazione del «bene», della «verità» e del «perfezionamento» di sé e degli altri. Valori d’altronde contemplati dalla carta costituzionale e che prevedono una scuola laica, pubblica, gratuita, democratica nei contenuti e nella didattica. Il suo impegno per la riforma della scuola media unica del 1962 fa sua questa prospettiva costituzionale. Suoi interlocutori negli anni Cinquanta e Sessanta su questi temi furono Lamberto Borghi, Don Milani, Aldo Visalberghi, Danilo Dolci. Molto opportunamente, Marco Catarci pubblica in appendice alcuni scritti finora inediti di Capitini del 1952 e che costituiscono una sorta di feconda eredità per quanti oggi lavorano nei sistemi educativi: «Perché l’educazione detta attiva se vale come opposizione e liquidazione dell’educazione autoritaria ed esteriormente disciplinare, rischierebbe di rimanere sollecitazione e svolgimento delle energie umane in un modo semplicemente amministrativo, in direzione orizzontale, e di difesa di ciò che si è, della vita e del benessere, se non scendesse un senso del valore, una tensione al rinnovamento dell’uomo, l’apertura ad una liberazione che è ben diversa dalla ripetizione o mera continuazione di ciò che è attualmente l’umanità, la società, la realtà».

Aldo Capitini: l’educazione come liberazioneultima modifica: 2008-02-22T11:40:24+01:00da mangano1
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