(intervista) Giacomo Marramao,Le passioni del presente

b58d77d3258963e8b92ee0673e100e19.jpgRepubblica 23.2.08Le passioni del presente. Intervista a Giacomo Marramao sulla nuova raccolta di saggi – di Antonio GnoliLa tristezza della nostra epoca. Lo sguardo rivolto al passato appare opaco e quello verso il futuro è incerto. Come procedere in “una terra di mezzo” segnata dal rumore dell´attualitàLa questione religiosa? Intrecciata al moderno non è una novità. Non è un caso che la Chiesa Cattolica faccia valere sopra ogni cosa logiche di schieramentoViviamo in un mondo attraversato da numerose crisi: economiche, politiche, morali, identitarie. Viviamo su un territorio vasto, apparentemente omogeneo, in realtà complesso e oftalmicamente schiacciato sul presente. Lo sguardo rivolto al passato appare opaco. Quello verso il futuro risulta incerto. Manchiamo di profondità e di prospettiva. Per qualche anno ci siamo adagiati nel postmoderno, nell´eleganza ironica della superficie, del debole è bello, dell´annullamento del tempo: nel qui e ora dei sentimenti e dei pensieri. Non è detto che ciò sia necessariamente frustrante, avvilente, confuso. È come se una natura antropologica abituata ad agire e riflettere secondo collaudate esperienze spazio-temporali (il bisogno di rifarsi al passato, di sviluppare aspettative per il futuro, di definire i confini) abbia deposto strumenti tradizionali e collaudati e si trovi improvvisamente sola, nuda, inesperta in una grande terra di mezzo. Ecco, se si vuole, su quella terra di mezzo, in quell´intervallo tra ciò che si è chiuso e ciò che non si è ancora aperto, che è cresciuta la riflessione di Giacomo Marramao. Si legge con piacere la raccolta di articoli, saggi, lectures, interventi che egli ha svolto nel corso degli ultimi anni. Ne viene fuori un libretto denso e puntuto dal titolo La passione del presente (Bollati Boringhieri, pagg. 291, euro 10).Il presente ha ancora passioni che vale la pena vivere?«Subiamo una fase di “passioni tristi”, ma questo non ci impedisce di immaginare che il presente non possa essere vissuto anche emotivamente con nuove aperture di senso».Che cosa è il presente nel tempo della nostra crisi?«Innanzitutto è uno stato di cose che non può essere rappresentato, ma al tempo stesso è anche una condizione che ci investe, rumorosamente o silenziosamente, attraversandoci».Perché il presente non si può rappresentare?«Per il semplice fatto che si dà, si dona. Presente è anche il regalo. Non c´è distanza tra noi e il presente. Non è il passato e neppure il futuro. È ciò in cui siamo immersi, ma non incardinati. E in questo presente nel quale per forza di cose ci troviamo, ma senza convinzione, è sempre più difficile prendere decisioni».Michel Foucault anni fa se ne uscì con una formula piuttosto curiosa. Parlò di una “ontologia del presente”. Sembra quasi una contraddizione in termini.«Foucault sviluppò il concetto nell´ambito di una lezione del 1983 tenuta al Collège de France. Con il consueto acume anticipava il bisogno di ridefinire la temporalità, a partire dalla crisi di progresso e tradizione. Oggi mi pare discutibile l´accostamento che egli fece tra presente e attualità. Assunto in un´accezione filosoficamente rigorosa il presente è sempre “inattuale”».Ma se siamo immersi nel presente siamo anche immersi nell´attualità. Non le pare?«Apparentemente è così. Ma vi è nel presente qualcosa, che chiamo piega inattuale, che il rumore dell´attualità, con le sue emergenze e innovazioni costanti, nasconde».”Piega” è una parola cara al filosofo Deleuze.«È il risvolto che non appare nella faccia pubblica del presente in quanto attualità».Come si può uscire dalla prigionia dell´attualità?«Hegel, Marx e Nietzsche, per fare tre esempi del pensiero della modernità, ci sono riusciti. Nel senso che ciascuno con le proprie lenti ha colto una genealogia del presente, liberandolo dal rumore dell´attualità».Si spieghi meglio.«Per Hegel tutto quello che è accaduto è il risultato di uno sviluppo della ragione occidentale, dalla filosofia greca al suo tempo. Marx colse nel presente capitalistico l´avanzare verso la globalità di una forma di dominio che era già incapsulata fin dalle sue origini in quel modo di produzione. Nietzsche vide nel nichilismo che pervade il nostro presente ipermoderno una sorta di peccato originale del pensiero occidentale, inteso come rinuncia alla vita e al divenire».Più volte nei suoi studi lei si è richiamato al concetto di moderno. Perché è così importante?«Potremmo riassumere con una formula: modernità è uguale a curiositas scientifica più libertà soggettiva, disintegrazione del cosmo chiuso più rottura del monopolio dell´interpretazione. Aggiungo che queste formule sebbene corrette oggi sono insufficienti. Il moderno non ha solo reso soggettiva la libertà, ma ha al tempo stesso fornito il potere a tecnologie e procedure razionali prima impensabili. Il moderno ha inventato il cosmopolitismo e lo Stato».Ma gli Stati sono oggi molto meno forti che in passato. C´è o no una crisi dell´ordine statuale?«Indiscutibilmente c´è. Ma occorre intendersi sulla portata e sulla irreversibilità di questa crisi. Oggi stiamo vivendo una fase di passaggio dall´era della modernità il cui cardine era la nazione a un´era della modernità in cui il perno è diventato il mondo stesso. Ma questo non deve indurci a credere che le logiche territoriali e locali siano destinate a sparire o a svolgere un ruolo subalterno».Diciamo che si iscrivono in nuove forme di conflitto.«Scaturiscono dall´attuale interregno tra il non-più del vecchio ordine interstatale e il non-ancora di un nuovo ordine sovranazionale. In questa situazione la struttura del mondo globalizzato assume i tratti ambivalenti dell´uniformità e della diaspora».Siamo globalizzati ma non lo siamo fino in fondo?«Viviamo in un mondo che è insieme unipolare e multicentrico. Dentro questa contraddizione assistiamo alla crisi del modello proposto da Hobbes, per cui lo Stato è l´effettivo garante della pace, quello in grado di risolvere il conflitto».Non basta la legalità della forza?«Non è più sufficiente. Perché i caratteri dominanti del conflitto vanno oggi ricercati non solo nella sfera redistributiva, come accadeva nell´era industriale, ma soprattutto nella dimensione identitaria».Di qui il pericolo di nuovi fondamentalismi?«Un liberale come John Rawls aveva istituito l´analogia, che avrebbe potuto fare la gioia di Carl Schmitt, tra gli odierni fondamentalismi e le guerre di religione precedenti la pace di Westfalia».A questo proposito si può parlare di un vero e proprio ritorno delle religioni?«La questione religiosa ha occupato da sempre la scena pubblica. Non si tratta né di una novità né di un ritorno. Religione e mondo moderno sono strettamente intrecciati».Habermas ha parlato di un post-secolarismo, nel quale la religione ha un ruolo che le era sconosciuto nella modernità.«Stimo le posizioni di Habermas, ma ho l´impressione che egli si sia lasciato fortemente condizionare dalla categoria di “post-secolare”, coniata da Klaus Eder e ripresa da Papa Ratzinger. Egli vede il peso della Chiesa cattolica nella sfera pubblica come un bilanciamento all´invadenza delle biotecnologie. Farei due osservazioni. La prima è che l´influenza della Chiesa è un´eccezione italiana, molto meno sentita all´estero. La seconda è che è difficile sottrarsi alla sensazione che, in tal modo, Habermas finisce per conferire alla posizione dei credenti un “valore aggiunto” rispetto ai laici».Non ritiene che proprio l´evento dell´11 settembre abbia di fatto conferito alle religioni un ruolo che prima non avevano?«L´11 settembre ha evidenziato un mutamento di funzione delle religioni nel mondo globalizzato: da comunità di fede esse tendono a trasformarsi in medium di identificazione simbolica e surrogato di appartenenza. Ma nel momento in cui divengono blocchi identitari, finiscono inevitabilmente per tracciare una netta linea di demarcazione tra “noi” e “gli altri”, proprio allo stesso modo delle ideologie. E forse non è un caso che la Chiesa cattolica faccia valere sopra ogni altra cosa le logiche di schieramento, accogliendo fra le sue braccia gli atei devoti e respingendo con sdegno cattolici meno allineati. Mi sorprende che non venga quasi mai ricordato nelle poco edificanti dispute degli ultimi tempi che il solo punto di intersezione tra un´attitudine veramente “laica” e una autenticamente “religiosa” è rappresentato dall´esperienza vissuta del dubbio radicale. È sufficiente leggersi i testi della grande tradizione mistica o le pagine toccanti dei diari di Madre Teresa di Calcutta».

(intervista) Giacomo Marramao,Le passioni del presenteultima modifica: 2008-02-27T00:41:38+01:00da mangano1
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