Rossana Rossanda, Lettera a D.

b2ddc6ea8486f9bec2b098a7abc3b5f5.jpgfonte: www.ilmanifesto.it/ Link: http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/26-Aprile-2008/art45.html 26.04.08 (Lettera a D. Storia di un amore. Sellerio Editore, pagg. 88, 9 euro. Traduzione di Maruzza Loria)++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++Verso la fine del 2006 usciva a Parigi Lettre à D. di André Gorz. Sottotitolo: «Récit», racconto o rendiconto. D. era la sua compagna, Dorine. Ci sorprese di Gorz, che veniva da Les Temps Modernes di Sartre, del quale avevamo conosciuto sempre libri e saggi filosofici o politici, ma questa era una lettera d’amore. Di più, un lungo domandare perdono a lei, tanto più forte. Dopo cinquantotto anni di vita passati assieme, era sempre così «bella e aggraziata e desiderabile» che egli «di recente (era) tornato a innamorarsene». Da quando si erano incontrati a Losanna nel 1947, ancora frastornati dalla guerra, non si erano più lasciati, lei la sua sola donna, lui il suo solo uomo. Lui un allampanato ebreo austriaco – cioè niente, aveva detto qualcuno – lei un’affascinante ragazza inglese, la pelle trasparente e la capigliatura rosso miele. Che cosa avrebbe potuto vedere in lui quello splendore? Invece lo splendore lo aveva visto e si erano consegnati l’uno all’altra. Per la vita, aveva deciso lei; lui dubitava di tutto, e in specie di ogni istituzionalizzazione, ma lei aveva tagliato corto: un progetto di vita è cosa che si sceglie e sarebbe stato, e sarebbero stati, quel che ne avrebbero fatto. Quasi Sartre. Che avevano in comune due esseri così differenti? Una ferita originaria. Quella di coloro al cui venire alla luce la madre non aveva sorriso. Una non infanzia. Il non avere un proprio posto. Tutti e due avevano lasciato l’approssimativa famiglia e il loro paese per farsi uno spazio da soli, senza radici, in un altrove. Lei era a Losanna per fare teatro, lui lavoricchiava per scrivere. Lei sorridente e ferma nelle sue idee, avvezza a gettare in ironia e nei nonsense quel che faceva male, lui impegnato a non esistere. Scrivendo. Mettere il reale in parole e concetti era un modo di esorcizzarlo, autorizzarsi a non essere che il tassello d’una teoria. Avevano vissuto assieme in estrema povertà, perché a loro del denaro nulla importava e dei consumi ancora meno, non per ascetismo ma per superbia, approdando finalmente in una stanza al centro di Parigi e al primo salario fisso. Era una rivista internazionale della stampa, poi sarebbe stato L’Express, e nel 1964, con Jean Daniel, Serge Lafaurie, K.S.Karol, Le Nouvel Observateur.Lui scriveva giorno e notte, ma lei trovava la documentazione, la raccoglieva e ordinava, diventarono una coppia celebre del giornalismo senza peli sulla lingua, quello che coglie il problema, fa nomi, date e cifre e non offre mai il fianco a una querela. Era lei a individuare i temi, a valutarli e lui scriveva. «Vuoi scrivere e allora scrivi», informandolo blandamente che doveva anche dormire e che non apriva bocca da tre giorni. Segnalava poi quel che non andava e, peggio, «aveva ragione». Lui, sempre invece in dubbio su se stesso, si esponeva sotto diverse identità, in modo da averne almeno tre «e dunque nessuna». Era nato Gerhard Horst, era diventato Gérard Horst per lo stato civile francese, era André Gorz in Les Temps modernes e nei libri, i Michel Bosquet nel Nouvel Observateur e in alcuni libri-inchiesta. Lei, Doreen, era diventata Dorine. Lui non voleva saperne del tedesco, fra loro la lingua fu l’inglese – insomma il più possibile amabili «senza patria», curiosi del mondo, che percorrevano in stanze d’affitto e nutrendosi di panini sulle panchine, lei imperturbabile signora, lui spennacchiato, gli occhi attenti e la voce bassa e implacabile. Poi successe che la bellissima, appena scampata al cancro con il quale la natura si sbarazza di noi donne appena finisce l’età feconda, s’era trovata addosso una malattia degenerativa delle ossa – atroci dolori e immobilità, e, dopo molte ricerche scopriva di essere stata avvelenata, durante un’analisi clinica, da un mezzo di contrasto. Scoprivano sulla loro pelle i disastri dell’illusione medica. Non ne sarebbe mai potuta guarire. E lui lasciò in anticipo il Nouvel Observateur. Con l’indennità e la pensione e il gruzzolo che avevano raccolto come formichine, si fecero una casetta fuori città, dove costava poco, l’aveva disegnata lei, ma avevano appena cominciato a viverci che sorse accanto una centrale nucleare. Se ne andarono in un paesino non proprio a due passi, in una vecchia casa di campagna con un gran prato incolto attorno. Spartana. Lasciavano Parigi e quel grande settimanale senza rimpianti, né propri né altrui. Erano gli «ET» di sempre. Ancora pochi viaggi, e là sarebbero rimasti, lui prendendosi cura di lei, sempre meno mobile, per ventitre anni. In capo ai quali egli le dedicava quello scritto amoroso. Che era anche una riflessione su di sé, tutto intero, perché aveva scritto era nei sessanta anni passati insieme. Ma soprattutto sulla sua immaturità di maschio, sulla condiscendenza con la quale aveva accettato una creatura che ormai riteneva intellettualmente superiore, più adulta, rabbrividendo di quel che ne aveva scritto nel suo primo libro, e dopo ben sette anni di vita comune, mentendo e mentendosi. Rileggendo Le Traître (1958) ne era arrossito di vergogna – aveva parlato di sé, gli pareva, spietatamente, in verità ammiccando al lettore come un occhio «al di sopra» di quel che era stato. E di lei? Come di una ragazza che senza di lui sarebbe stata sperduta, senza più riferimenti – lei così bella e piena di amici, così attesa da un uomo che la voleva assolutamente, così vitale e aperta alle cose. Le chiedeva perdono. Non succede così spesso che un uomo lo faccia. Né che lei avesse letto, allora, senza batter ciglio, sorridendo – lei che sapeva. Adesso erano molto vecchi, lei ancora così bella ma giunta quasi alla fine. E lui – scrive – ormai perseguitato da un sogno: un uomo segue un feretro, quell’uomo è lui, Gérard, e nel feretro c’è lei, e si svegliava in tumulto. Non voglio seguire il tuo funerale, assistere alla tua cremazione, ricevere le tue ceneri. Siamo uno per l’altro e uno attraverso l’altro. Se si potesse vivere due volte, ci sceglieremmo di nuovo. Una bellissima lettera d’amore coniugale. Ma quelle parole precipitarono in tutto il loro peso nell’ottobre dell’anno seguente – non lo aveva scritto, André a D., che le parole sono una cosa e il vivente un’altra? – in un concitato lunedì quando ci comunicarono che s’erano uccisi assieme il sabato. Lasciando tutto in ordine, alcune lettere, un cartello sulla porta per la donna che li aiutava in casa- avvertite la polizia. Due giorni dopo usciva su Le Monde un annuncio, che nessun firmava e dovevano aver steso assieme: Gérard Horst, detto André Gorz, s’era tolto la vita assieme a Dorine, l’appuntamento per la incinerazione era all’ora tale del giorno tale. All’ora tale del giorno tale ci trovammo in sei nell’anonimo frigorifero alla periferia del borgo medievale di Troyes, quello di Chrestien de Troyes e dell’antica biblioteca. Loro non erano vissuti a Troyes, ma in un villaggetto a venti chilometri, che non aveva un crematorio, Vosnon. Ci presentammo, la signora sindaco di Vosnon, Serge Lafaurie del Nouvel Observateur, la donna che aveva trovato sulla porta il cartello, due stupiti signori dell’associazione di carità protestante che non li avevano mai visti e cui lasciavano i loro pochi averi. Le due bare erano accanto, lui le dava la destra, e su quella di lei era scritto il nome con il quale era nata, Doreen Kahn. La sfiorai con la mano, stupido gesto se non è fatto ai vivi e non lo avevo fatto. Non ero andata a trovarli. Adesso erano in quelle due casse lucide e dotate di maniglie. Impossibile pensare a Gorz come prima di aver letto la Lettera a D. In fin dei conti, chi può dare l’interpretazione autentica di una esistenza se non chi l’ha vissuta? Di quei due che si sono voluti uno, Doreen resta il punto fermo, apparentemente dedicata ad aiutare l’uomo che amava, in realtà quella che teneva assieme tutto. Tutti e due avevano subito quella ferita originaria, ma lei ne era uscita sicura, e lui in dubbio se avesse diritto di esistere. Dove se poteva trovar ragione se non nell’etica come sistema di relazioni, nella relazione come principio dell’etica? Di questo stava scrivendo quando si erano conosciuti, Fondements pour une morale (ce lo mandò anni dopo con una dedica scherzosa, che lo definiva un «lavoro sull’impossibile (almeno provvisoriamente)». Anni dopo perché Sartre, il primo cui l’aveva fatto leggere, lo aveva gelato: chi avrebbe pubblicato quelle seicento pagine massicce (ed erano inizialmente di più)? Gli stessi interrogativi sarebbero passati, più leggibili, in Le Traître. Scriveva dell’impossibilità di stare in un mondo da parte di uno che ne era stato rifiutato e rifiutava, uno in terza persona, nulla se non mera possibilità, se disancorato da una terra, corpo, lingua, rapporto con l’altro. «Noi. Loro. Gli altri. Tu. Io». Io per ultimo, io come risultato. E «tu» era chiamata Kay, ormai a due metri di distanza, e lui non era capace di riconoscerla, l’aveva rimpicciolita, e spudoratamente scriveva che dei due era lei che non sarebbe stata capace di reggere senza l’altro. Adesso che aveva piantato duecento alberi di frutta fra una corsa e l’altra a fare la spesa, e scriveva a mezzo mondo senza vedere quasi nessuno – Sartre e Simone erano morti da un pezzo, e Ivan Illich lontano a Cuernavaca – lo sapeva così bene che da solo non ce l’avrebbe fatta che si erano accordati di andarsene insieme. Dopo quel 1958 – uno che ha scritto un libro, si sente qualcosa, c’è un oggetto che ne testimonia – restava Marx e almeno un decennio nel quale aveva puntato su un «comunismo critico». Non vi si sofferma nella Lettera, Doreen aveva seguito scettica. Anche Sartre del resto. Erano gli anni nei quali fin in certi comunismi qualcosa pareva rinascere, e spuntava un nuovo proletariato. Scriveva e scriveva (Stratégie ouvrière et néocapitalisme, 1964) e fece con noi, con Serge Mallet e Jean Marie Vincent, alcuni numeri favolosi dei Temps Modernes. L’ultimo e forse solo suo scritto realmente militante e commosso fu per il Che. Poi palpitò con il 1968 senza mescolarsi ai ragazzi, con il bisogno di rivoluzione ma non con la Cause du peuple che aveva tentato Sartre. Il «Je» lo assillava, il soggetto principe dei comunismi con o senza partito, più interessati ad esso che al capitalismo – vera falla del Novecento, e non è finita. Lo era stato anche in Lukacs negli anni venti. Dove sta la soggettività di classe? Il proletariato dov’è? E se vi fosse una proletarizzazione – su questo non ebbe mai dubbi – senza soggetto proletario, senza proletariato in senso proprio, come il sorriso senza gatto di Alice nel paese della meraviglie? La scoperta degli anni ’70 sarebbero stati per Gorz alcuni inglesi, un socialismo in presenza del capitale, un socialismo del tempo liberato, perché Marx aveva sbagliato nel credere – scrive più volte – che con lo sviluppo delle forze produttive, «dentro» il lavoro, l’operaio si sarebbe emancipato, sapendo e capendo tutto: no, il capitale lo avrebbe sbaragliato prima, catturato in corsa, si avrebbe salvato se stesso con lo sviluppo delle forze produttive tagliando fuori quel che doveva essere il suo becchino. Scriveva Adieux au prolétariat nel 1980, dieci anni prima che gli addii glieli facessero i comunisti, e in direzione opposta. Non pensava che, caduto un progetto di società, si andasse verso tempi felici, ci sarebbe stata una tremenda perdita di senso. Sulla miseria delle «metamorfosi del lavoro» non avrebbe mai dubitato, malgrado lo sforzo di delineare ancora una ricchezza del «possibile». Occorreva un altro paradigma di liberazione. E se su questo avesse avuto ragione, come su tutto, Dorine? È l’interrogativo, per una volta senza prometeismi, della Lettera. Non fa un bilancio tappa per tappa, libro per libro. Quel che lo aveva salvato era stato l’incontro con Ivan Illich, determinando fin dagli anni ’70 quello su cui più avrebbe lavorato. La denuncia dell’illusione sviluppista, della quale il marxismo era stato un volto, e la cui Nemesi medica aveva così brutalmente investito lui e Doreen. Tutti i suoi ultimi libri vertono attorno a questo. Non abbiamo smesso di volerci bene, ma abbiamo smesso di discutere. Quando le due scatole di legno sono arrivate al crematorio di Troyes eravamo una cinquantina, amici di Vosnon, amici di Parigi, amiche di Doreen, francesi, qualche tedesco. L’editore Galilèe. Un gruppetto dei Temps Moderns prima della direzione di Claude Lanzmann. Nessuno dei leader ecologisti. Nessuno del sindacato. Ci sono volute due ore per mandare in fumo D. e poi due per Gérard. Le ceneri sono state portate da chi era rimasto nel loro giardino e disperse per la prima pioggia sotto gli alberi carichi delle mele di ottobre.

Rossana Rossanda, Lettera a D.ultima modifica: 2008-04-27T16:49:49+02:00da mangano1
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