Pierluigi Battista, Orwell e il grande Fratello

24937bb3d9fe7f78e878a724f6d11922.jpgTotalitarismi. Un pamphlet del saggista inglese e un’ opera musicale di Lorin Maazel rilanciano il dibattito sul capolavoro più equivocatoOrwell, il vero Grande FratelloLa denuncia di Hitchens e la lezione anticomunista oscurata di «1984»Pierluigi Battista, IL CORRIERE DELLA SERA, domenica 27 aprile Il capolavoro di George Orwell, 1984, è il romanzo più frainteso, equivocato, male interpretato, sottoposto a letture ingiuste e fuorvianti della storia letteraria del Novecento. Se il tempo ha sì decretato La vittoria di Orwell, come recita il titolo di un libro di Christopher Hitchens tradotto e pubblicato in questi giorni in Italia dall’ editore Scheiwiller, nondimeno 1984 attende ancora un risarcimento per le manipolazioni semantiche cui è stato incessantemente sottoposto: la restituzione del suo significato originario, il riconoscimento del suo valore esemplare di testo fondamentale per la critica dei totalitarismi moderni. Il misconoscimento di Orwell, come spiega Hitchens, non è il frutto di un accecamento collettivo, ma fa tutt’ uno con il fastidio per una corrente anomala e irregolare nella storia ideologica del Novecento, giacché presuppone la preventiva cancellazione di un pensiero di sinistra, minoritario e messo ai margini, che proprio nel nome dei valori della sinistra seppe essere e dirsi con coraggio tanto antifascista quanto anticomunista. Critico della boria di cui l’ imperialismo britannico era permeato, vicino alle traversie dei ceti popolari più colpiti dalla «distruzione creatrice» della modernità e del capitalismo, ciò nonostante Orwell sfidò la sordità degli intellettuali del suo tempo che potevano ma non volevano vedere il Gulag, i massacri degli anarchici e dei trotskisti per opera degli agenti del comunismo stalinista nella Barcellona della guerra civile spagnola, i meccanismi implacabili del terrore poliziesco che imperversava nella patria del socialismo realizzato. «La colpa di tutte le persone di sinistra dal 1933 in avanti», ha scritto Orwell nel Ventre della balena, «è di aver voluto essere antifasciste senza essere antitotalitarie». Questo è il tema di 1984.. E questa è la radice del suo rifiuto. La testimonianza che si poteva capire in tempo, riconoscere la natura totalitaria dell’ utopia comunista ben prima del crollo del muro di Berlino. Perciò, per annichilire o anestetizzare questo passato compromettente di indifferenza, si è fatto di Winston Smith una vittima della invadenza tecnologica e non piuttosto dello Stato di polizia onnipotente. Un burattino nelle mani di un Leviatano mediatico ribattezzato Grande Fratello e non della tirannia del partito unico che uccide l’ anima e il pensiero, riscrive impunemente il passato, tiene i sudditi al guinzaglio di una divinità ideologica. Una vittima del potere politico illimitato, non di una mera violazione della privacy. Questo rovesciamento della realtà orwelliana ha prevalso a lungo. Ancora nel 1984 un supplemento dell’ Unità pubblicava un’ intervista a Enrico Berlinguer in cui il segretario del Pci si diceva convinto che Orwell avesse voluto alludere a un capitalismo abnorme e ipertecnologizzato e non alla sua antitesi incarnata nel dispotismo comunista. Oggi lo stesso Lorin Maazel, che ha l’ immenso merito di aver fatto di 1984 un’ opera lirica la cui prima italiana verrà presentata il 2 maggio alla Scala di Milano, si dice convinto che il romanzo di Orwell «sembrava solo una metafora del totalitarismo sovietico ma ora è dilagata anche nel libero mondo occidentale». Ma perché nel «libero mondo occidentale» il romanzo di Orwell non ha mai subito limitazioni nella sua circolazione, mentre in Urss quel testo è stato vietatissimo fino all’ ultimo? Forse perché, a differenza di tanti esegeti occidentali, chi doveva capire aveva perfettamente colto il valore eversivo contenuto nelle pagine di Orwell. Hitchens riprende una testimonianza di Czeslaw Milosz, in cui il poeta polacco, scappato dalla prigione ideologica comunista, racconta: «Perfino coloro che conoscono Orwell per sentito dire si stupiscono che uno scrittore che non ha mai messo piede in Unione Sovietica abbia una visione tanto nitida di come vanno le cose». Gustaw Herling, autore con Un mondo a parte di uno dei classici della letteratura concentrazionaria in largo anticipo su Arcipelago Gulag, ha raccontato a Silvio Perrella quale fosse lo stupore dei suoi connazionali polacchi nel leggere 1984. «Ma questa è la mia vita», esclamavano come riconoscimento della geniale perspicacia di Orwell nel descrivere il «loro» totalitarismo. Chi doveva capire, aveva perfettamente capito. E perciò tra i difensori ideologici del «socialismo reale» non si tardò molto a rovesciare su Orwell un torrente di insulti, di invettive, di insinuazioni. Palmiro Togliatti, un po’ di anni prima della rilettura berlingueriana di 1984, ne liquidava l’ autore con un epiteto sprezzante: «poliziotto coloniale». Isaac Deutscher, impegnato nella costruzione di una frontiera morale di stampo manicheo che avrebbe dovuto separare per sempre gli «eretici» del comunismo, pur meritevoli di salvezza, dai «rinnegati» (cioè i famigerati «ex») condannati alla dannazione eterna, apostrofò 1984 come il delirio malato di uno scrittore agli sgoccioli della vita ossessionato dal «misticismo della crudeltà» e che rispecchiava nella sua utopia totalitaria il frutto di una mentalità prigioniera della paranoia: un incubo personale di Orwell, dunque, non un incubo della storia dolorosamente sperimentato in corpore vili da milioni di vittime. Persino Italo Calvino descriveva Orwell come «un libellista di second’ ordine» e rimproverò aspramente l’ amico Geno Pampaloni, colpevole di aver recensito favorevolmente 1984, dimostrando così inappellabilmente di non essersi «premunito dall’ infezione di uno dei mali più tristi e triti della nostra epoca: l’ anticomunismo». Ancora nel 1971, Raymond Williams, a suo tempo autore con Eric J. Hobsbawm, come ricorda Hitchens, di un pamphlet in cui si «lodava l’ invasione della Finlandia da parte dell’ Unione Sovietica all’ epoca del patto Hitler-Stalin», affermava che con la sua distruttiva visione del «socialismo reale» Orwell aveva «creato le condizioni per la sconfitta e la disperazione». Ecco perché, sepolta l’ utopia realizzata descritta con dettagliata precisione da Orwell, il recupero di 1984 attraverso una lettura ecumenica ed equivoca del Grande Fratello rischia di configurarsi come l’ annullamento del senso stesso della battaglia culturale orwelliana: l’ idea che il totalitarismo moderno avesse due volti, e non uno soltanto. Due colori, e non uno. L’ Unione Sovietica, e non solo la Germania nazista. Un’ idea che per decenni non è mai stata accettata dai sacerdoti dell’ ortodossia antifascista incapace, come diceva lo stesso Orwell, di essere coerentemente e coraggiosamente antitotalitaria. Una differenza radicale tra due atteggiamenti inconciliabili: proprio questo voleva dire, diffamato o ridotto al silenzio, George Orwell. * * * Appuntamenti Due presentazioni del libro e la «prima» alla Scala S’ intitola La vittoria di Orwell (Scheiwiller, pagine 247, 18) il libro che Christopher Hitchens ha dedicato al grande scrittore britannico, autore di capolavori come Fiorirà l’ aspidistra, Omaggio alla Catalogna, La fattoria degli animali, 1984. Il saggio di Hitchens, che sottolinea l’ attualità dei temi trattati da Orwell nelle sue opere, sarà presentato alla Fiera del libro di Torino l’ 8 maggio, alle ore 18.30, con la partecipazione di Piergiorgio Bellocchio, Alfonso Berardinelli, Giancarlo Bosetti e Marco Revelli. Un’ altra presentazione si terrà a Milano, il 15 maggio, alla Scala (ore 17): interverranno Pierluigi Battista, Alfonso Berardinelli, Salvatore Carrubba e Lorin Maazel. Sempre alla Scala va in scena dal 2 maggio la versione musicale del più famoso e controverso romanzo di Orwell, 1984, realizzata dallo stesso maestro Maazel, che la dirigerà personalmente sul podio.

Pierluigi Battista, Orwell e il grande Fratelloultima modifica: 2008-04-28T15:41:53+02:00da mangano1
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