Mario Domina, L’anima,la maschera e i demiurghi della rete

12c92e1118a505c72ba3f48d10f526cd.jpgda la Botte di Diogene – blog filosofico NARCISISMI.2 – L’anima, la maschera e i demiurghi della rete1. C’è un capitolo del libro di Galimberti, L’ospite inquietante di cui abbiamo già ampiamente discusso, che vorrei riprendere per allargare lo spettro della riflessione. Si tratta del capitolo 5, intitolato “La pubblicizzazione dell’intimo”, dove il filosofo sostiene che nella nostra epoca sia praticamente caduta l’antica barriera che separava l’interiorità dall’esteriorità, legittimando a tutti gli effetti la spudoratezza, da intendersi ora come messa in mostra dell’anima più che del corpo, con una perfetta corrispondenza tra esposizione di sé e voyeurismo. La continua “trivellazione delle vite private”, diventata ormai l’essenza del mondo televisivo, è l’emblema di questa neopornografia diffusa, più grave dell’antica pornografia per almeno due ragioni: prima di tutto perché denudare l’anima è un atto ben più osceno del denudare il corpo; in secondo luogo perché – aggiungo io – anche la distinzione tra vendita e indisponibilità di se stessi (corpo o anima che sia) è venuta ormai a cadere, cedendo all’omologazione mercificata imperante. Tutto è di tutti – ma ancor peggio tutto può essere venduto, persino l’ultimo neurone o frammento d’anima. Se poi qualcosa viene nascosto vuol dire che si ha qualcosa da nascondere, qualcosa di cui vergognarsi – e ciò è male. La caduta del pudore porta così con sé il più becero conformismo, se è vero che l’intimità e l’interiorità sono i nuclei profondi dell’essere individuale, ciò che lo fanno essere unico e irripetibile, e che la continua esposizione di sé, il concedersi a tutti indiscriminatamente – senza alcuna scelta e distinzione – non può che produrre un appiattimento generalizzato e un’omologazione dei modi di essere, i cui risultati sono già sotto gli occhi di tutti. A furia di trivellazioni l’anima finisce per dissolversi, proprio perché seppure il pudore sia un confine mobile socialmente determinato, quando i veli cadono tutti uno dopo l’altro, c’è il rischio che venga a mostrarsi infine il nulla che ci stava dietro. Succede un po’ come a Narciso, che alla fine, dopo essere stato fagocitato dalla sua stessa immagine e insensibilità, si lascia morire; o come a Eco, che si consuma fino a dissolversi nel filo di una voce. Oltretutto, corpi e anime denudati sono un po’ tutti uguali, e per ciò stesso poco desiderabili.Detto questo, vorrei approfondire alcuni punti ed allargare il territorio di questa riflessione che nel testo di Galimberti mi pare troppo confinata all’ambito sociologico.2. Partiamo dal concetto di pornografia. La pornèia greca era l’esercizio della prostituzione, ma, cosa molto interessante, il verbo porneuo che regge il sostantivo, veniva traslato anche nel significato di pratica dell’idolatria. Il termine ha dunque a che fare fin dall’origine con la produzione/falsificazione di immagini: l’eidolon, traducibile con “figura” o “simulacro” (senza dimenticare che eidon prima ancora che “idea” significa “aspetto”, “forma”), indica a sua volta una trasposizione: adorare l’oggetto in luogo del suo significato più profondo, l’immagine in luogo del dio, ecc. Ecco perché i monoteismi più rigidi (ebraismo e islamismo) sono così iconoclasti (”Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra”, Esodo 20, 3-4).“Pornografia” ha proprio a che fare con la rappresentazione iconica dell’attività sessuale (collegata a quella del meretricio, forse per la sua estrema “pubblicità”). Anche qui, l’immagine in luogo dell’oggetto – ma, anche, l’immagine che conduce all’oggetto e lo sollecita. Eccitare – scopo principe della pornografia – viene da ex-citare, “muover fuori”. Di nuovo si tratta di traslazioni e di trasposizioni: tutto ciò che ruota attorno alla rappresentazione pornografica ha a che fare fin dal suo significato originario con l’ambiguità dell’immagine – un oggetto che non è un oggetto, un fantasma che però ha un’immane potenza. Francis Bacon (il filosofo, non il pittore) utilizza nel Novum organum il termine idola per criticare tutte quelle strutture pregresse che impediscono la vera conoscenza – e tra i quattro tipi che individua vi sono gli idola specus, gli idoli della caverna, quelli cioè che hanno a che fare con la visione distorta della verità, la sua deformazione/traslazione nei luoghi oscuri della nostra mente. Bacone sapeva bene che gli idoli, ovvero i simulacri, sono dispositivi potenti, che è difficile spazzar via.Questi nessi dei significati che sembrano apparentemente portarci lontano, ci conducono in realtà alla vera questione che sta dietro al concetto di pudore, e cioè a quella del rapporto tra esterno ed interno, apparire e interiorità, corpo e anima – il vero dramma di Narciso. E naturalmente qui le cose si complicano parecchio.3. Un aspetto del pensiero di Rousseau che non sempre viene sottolineato, è proprio quello del rapporto tra maschera e nucleo profondo dell’Io. Jean Starobinski lo ha fatto in un testo memorabile intitolato proprio Rousseau: la trasparenza e l’ostacolo, che non posso qui che citare di sfuggita. Va detto innanzitutto che già il termine “persona” designa questo rapporto con la maschera fin nel suo significato etimologico: il latino persona viene dall’etrusco phersu, che vuol dire appunto “maschera”. Ma tornando a Rousseau, uno degli aspetti più drammatici, se così si può dire, del suo pensiero riguarda proprio la distorsione che il segno e la convenzione operano all’interno della comunicazione umana: il “ritorno alle origini” o alla dimensione “naturale”, indica nella mitologia roussoiana la trasparenza comunicativa, la comprensione immediata dell’altro. Ma non è questa paradossalmente una dimensione “pornografica”? Se il segno e la convenzione – cioè le maschere sociali – sono ciò che ostacolano la comunicazione e la comprensione tra gli individui, nello stesso tempo sono anche ciò che li “vestono” (o “travestono”, a seconda dei punti di vista): come dire che una “nuda persona” non è mai data, essendo la nudità alla fine la scomparsa di ogni identità sociale e culturale. Ciò vuol dire che, come vado da tempo ripetendo, l’essenza degli individui si sostanzia nel loro essere sociale, culturale, linguistico, solo qui essendo possibile una reale differenziazione dei singoli, al di là della invariante monotonia del dato biologico. C’è però da dire che gli ambiti in cui tali portati culturali e antropologici si rendono visibili, sono nello stesso tempo la superficie (l’apparire del corpo, la gestualità, il modo di costruire la propria immagine – l’idolo e il simulacro che noi siamo) e l’interno (il linguaggio, il pensiero, la sfera emozionale e passionale, ecc. – quel che è definibile come “spirito”). Non si tratta in verità nemmeno di un luogo bipartito, come un Giano bifronte, la scorza dietro cui c’è il nocciolo, se è vero che le parole sono anche pietre e che i gesti sono essenzialmente linguaggio. Io sono sempre e niente di più di quello che appaio, e appare sempre quel che io sono – certo posso anche decidere di mostrare ora più ora meno, di dissimulare, ma a ben vedere l’interruttore che apre o chiude il mio stesso apparire non è tutto in mio potere – anzi sempre più le leve del comando stanno altrove.4. Il punto allora non è l’essere o l’apparire, l’interno o l’esterno, l’intimità o la superficie, l’interiorità o l’esteriorità – che sono solo stratagemmi convenzionali (e riduttivi, secondo i classici schemi binario-oppositivo-dialettico-duali). E’ semmai la riduzione della complessità dei singoli, la loro omologazione/riduzione: se io sono tante cose, posso (se voglio) sfaccettare parecchio il mio apparire, fino all’estremità pericolosa della schizofrenia; ma se io sono sempre la stessa cosa, la stessa minestra, il trucco dell’apparire si esaurisce ben presto, la varietà di belletti non essendo poi così infinita. Detto in altro modo: solo l’articolazione del mio essere nella direzione dell’onnilateralità (cioè dello sviluppo delle mie potenzialità) farà di me un essere-molteplice-che-appare in tutta la sua ricchezza e tensione. Laddove viceversa il marchio di fabbrica dell’omologazione – con tutte le firme annesse e connesse, che sono solo farina del sacco altrui, senza nulla di veramente originale firmato da me – mi renderà una maschera magari luccicante e desiderabile, ma immobile e noiosa. A questo punto la questione si sposta, semmai, sul fronte del palco. L’illusione di essere eternamente in scena e guardati da mille occhi (alcuni dei quali piuttosto corposi e polizieschi) sta senz’altro producendo in noi modifiche antropologiche importanti.5. La “scena” sociale si è allargata e complicata. Premesso che una delle componenti essenziali della sfera umana è proprio quella della mimesi, cioè della duplicazione/riproduzione, del riflettersi in altro – oggi che la tecnica è essenzialmente tecnica dell’infinita riproduzione (delle immagini e, alcuni sperano, anche della durata dei corpi), non poteva che darsi una scena che fa di tutti, insieme, la platea e il palcoscenico, lo spettatore e il protagonista. Da questo punto di vista la vecchia televisione – per quanto sia la quintessenza della neopornografia e lo strumento essenziale della fine del pudore – è in realtà un ferro vecchio, qualcosa che ben presto scomparirà o verrà relegato in aree sociali degradate e periferiche. Perché è in realtà uno strumento troppo passivo e poco interattivo. Dunque, sarà la rete la vera protagonista della nuova scena sociale? E’ ancora presto per dirlo, ma certo gli ingredienti ci sono: comunità virtuale, interazione, gioco, dissimulazione, esposizione, ecc. ecc. – con tutti i pro e i contro… E’ certo però che la rete è il proliferare dei segni e della comunicazione, dei linguaggi, delle immagini – della scrittura e della lettura come non mai – a fronte di un’atrofizzazione dei corpi. Un conto è esporre in una community la propria icona o le proprie idee, altro è praticarle in una comunità territorialmente determinata.Ma a pensarci bene non è che ci sia poi tutta questa differenza… Non è che nei luoghi di lavoro o nelle palestre o nei centri commerciali o nelle piazze ci si mostra poi in tutta la propria complessità e totalità (ammesso che si abbia qualcosa da mostrare). Sono sempre vedute parziali, angoli e frammenti identitari, porzioni di sé – che l’altro deve a sua volta interpretare e decodificare al fine di costruire un’immagine dell’individuo emittente – e viceversa. Ma già tutta questa dinamica era stata indagata, ancor meglio della psicologia, da Luigi Pirandello, che di maschere se ne intendeva. Ora, anche in rete si fa lo stesso: si mostrano lati e spicchi di sé. Il problema, dunque, è daccapo quello della produzione del proprio essere e della propria (molteplice) identità, molto più che del mostrarne pubblicamente l’aspetto.6. Un altro capitolo andrebbe poi dedicato al rapporto tra rete e controllo sociale. La rete si mostra da questo punto di vista quanto mai bifida (lei sì, un Giano bifronte!): splendida occasione di democrazia e costruzione orizzontale delle relazioni – nonché di condivisione del sapere – e però, nello stesso tempo, proprio la sovraesposizione necessaria dei suoi attori la fanno diventare anche un pericoloso strumento per nuove forme di controllo sociale. Ogni mio dato, immagine, opinione, “confessione” riversato in rete potrà, domani, essere usato contro di me. Qualsiasi datore di lavoro, banca, giudice, struttura di potere – ma anche il mio vicino di casa – potrà cercare con un semplice clic su google il mio “profilo” (interessante l’uso di questo termine!), e scoprire parecchie cose di me, per poi simularle, interpretarle o deformarle. La pubblicizzazione dell’intimo può così rivelarsi una pericolosissima arma a doppio taglio.7. Ci siamo forse spinti un po’ troppo lontano col ragionamento, spesso divagando e complicando. Ma non c’è nulla di più complicato, credo, dei temi qui appena accennati. Eravamo partiti col dire che è caduto l’antico pudore e che si va producendo una diffusa e perniciosa neopornografia dell’anima, con il risultato di uno svuotamento: a furia di scavare e di mostrare agli altri quel che si è si rischia di non trovarvi più nulla – presi come si è dal mostrare più che dal formarsi, o reciprocamente dal guardare più che dall’interrogarsi (o in alcun i casi dal ritrarsi). Ecco, vorrei spendere una parola in favore del gesto del “ritrarsi” – che non vuol dire nascondersi o diventare degli asociali, ma semplicemente ritagliarsi e rivendicare degli spazi per sé finalizzati alla crescita e alla formazione (e all’autoformazione). Spegnere ogni tanto i riflettori e dedicarsi alla meditazione (pratica quantomai oscena, secondo la logica corrente). Lo ripeto ancora: non ci sarà mai nulla da mostrare e da socializzare se non si è, nel frattempo, diventati qualcosa, se non si è costruito un sé che, per quanto provvisorio, sia originale, unico e irripetibile. I materiali sono sempre quelli, ma la “costruzione” sarà ogni volta diversa, dipenderà dalla scelta – industriale o artigianale, catena o cesello – che si è fatta. Lo slogan potrebbe allora essere: diventa il demiurgo di te stesso!8. Nota conclusiva. Le fotografie che illustrano questo post fanno parte dell’album su Flickr di Ruggero Palazzo (Ruggio), che ringrazio calorosamente per la collaborazione (cliccandoci sopra si può vedere di ciascuna la fonte originale, il contesto e i commenti). A parte l’intensità che le contraddistingue, mi ha colpito di alcune di esse il loro perfetto collocarsi lungo il crinale della dicotomia che ho sopra rilevato: l’interno e l’esterno, il mostrare e il nascondere, il velare e lo svelare, l’apparire di ciò che (forse) è, ma che forse non è.Ho trovato in particolare molto interessanti le tecniche e le prospettive utilizzate dal suo autore, che fanno ancor più risaltare quei temi: lo specchio, il vetro, l’acqua, l’occhio – tutte superfici riflettenti che rinviano alla trasparenza, ma anche al tema del doppio. E poi i veli:“Nascondersi dietro un velo di paure e di segreti.Vergogna di farsi vedere, di emergere ed esporsi…”“E’ come avere 2 lati, 2 personalità ma non più contrastanti come una volta.Essere il buono e il cattivo allo stesso tempo. Due persone che pur essendo diverse tra loro convivono e pensano univocamente; e la cosa fa paura.Paura di se stessi, paura di quel che si può essere, dire o anche solo pensare”.Il termine greco per dire “verità” è alétheia, letteralmente il togliersi (a-) dalla zona nascosta e dimenticata, il sottrarsi all’oblio, l’uscire dall’ombra per venire alla luce, lo svelarsi appunto. Ma la verità non è immediatamente per tutti, così come non è a tutti che ci si apre, offrendo il proprio tesoro: le profondità dell’essere, e ancor più dell’essere umano, vanno faticosamente attinte e conquistate, sia dall’io che si offre che dall’altro cui ci si offre. Le apparenze, i segni e i simulacri – le immagini e le maschere – di cui i soggetti si circondano, sono le mappe più o meno criptiche che portano al tesoro. Ma che cosa conterrà lo scrigno?

Mario Domina, L’anima,la maschera e i demiurghi della reteultima modifica: 2008-05-12T14:26:20+02:00da mangano1
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