Giulio Stocchi, Nel tramonto

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Nel tramonto a Licia, Giulia e Alessia

“Giulia, chiama l’ascensore”, e quel cosino biondo di due o tre anni si mette a strillare con tutto il fiato che ha in corpo “Ascensoooooreee!!!!” nella tromba delle scale, lungo le quali la lieta brigata dei miei cari amici sciama schiamazzando, e sono quasi le tre del mattino, fermandosi di pianerottolo in pianerottolo.
Ecco, mi dico, la contessa del piano di sotto avrà domani un altro buon motivo per lagnarsi, con tutto un malevolo sibilìo, del “sessantottino”, com’ero stato poco amabilmente soprannominato dai condomini dell’aristocratico palazzo in cui tuttora abito.
Intanto, se dio vuole, Gianni, presa in braccio la figlioletta e seguito dalla Licia cinguettante in una nuvola di capelli ramati, scompare inghiottito dal semovente marchingegno che per decisione unanime gli era stato riservato in quanto unico pater familas allora della compagnia.
E finalmente, tirando un sospiro di sollievo, io e Carole possiamo rientrare in casa dove ci aspetta un disastro di piatti, bicchieri, pentole, vassoi, coltelli, forchette, portacenere, tovaglioli, testimoni del festino testé concluso ma che, a quanto pare, come possiamo sentire dalle finestre che abbiamo aperto per scongiurare una sicura morte per fumo, ancora continua per strada, dissipandosi in un’ultima canzone che accompagna la banda di amici che si allontana.

Il “gruppone”, come l’aveva battezzata Gianni: Ettore, Umbertino, Riccarda, Enzo, Paola, Claudio, Adriano, Magda, Federico, Giuliana, Licia, Gianni, il Beppe, Carole… Nomi di allegria, che ingigantiscono nel ricordo, come nella nebbia i rintocchi della campana a mare, quando si rischia di smarrire la rotta.
A Milano si era appena spento il boato di Piazza Fontana, ma in quei primi anni settanta la città non aveva ancora smarrito se stessa e noi del resto conoscevamo gli scali – in Corso Magenta da me, in Via Archimede da Umbertino e Riccarda, in un buchetto a Chiaravalle da Ettore, in Via Borromei da Gianni e Licia e ancora Viale Papiniano, Via Tabacchi, Via Cagliero, Via Anfossi, Viale Beatrice d’Este… – che trasformavano la distesa di asfalti della metropoli in uno di quei portolani fantastici, come quelli degli atlanti immaginari che Gianni avrebbe redatto anni dopo per la Ricci.
E, insieme al vino, di fantasia ne correva molta alle nostre tavole, imbandite secondo la possibilità e l’immaginazione di ognuno: pollo alla messicana e polpette a casa mia, pizzocheri e polenta da Gianni, degli arrostini da leccarsi i baffi dalla Riccarda, e la Paola che era sempre pronta a mettere in forno certi enormi salmoni che serviva, a dir la verità, un po’ stracotti… Ma il cibo, naturalmente, era un pretesto, perché era di futuro ciò di cui soprattutto avevamo fame.
Forse perché, tutti più o meno sui ventisei ventisette anni, ci stavamo appena affacciando alle nostre professioni: medici, traduttori, interpreti, aspiranti poeti, candidati romanzieri, praticanti cineasti, apprendisti pittori, impiegati che progettavano evasioni e Umbertino che sognava di improvvisarsi vignaiolo nelle Langhe, mentre Gianni tornava sbuffando dallo scaffale e, con un lampo ironico dietro le spesse lenti, gli squadernava sotto il naso uno dei suoi dottissimi e altrettanto rari libri sulle difficoltà di quella nobile arte…
Ma soprattutto perché volevamo che nel nostro futuro il mondo si intonasse a quel clima di festa che sperimentavamo fra di noi e che la realtà che ci circondava si incaricava di smentire. E così io e Carole prendevamo a raccontare della polvere e degli stracci della patria palestinese a brandelli nei campi di Sabra e Chatila che avevamo visitato l’anno prima… con Adriano ci infilavamo nelle gallerie e nei cunicoli degli hombres de barro delle miniere in Bolivia dove aveva appena finito di girare un documentario… el pueblo unido, rifletteva la Licia riferendosi al Cile di Allende che ancora non era stato pugnalato a morte… creare due, tre, molti Vietnam: bisogna incalzarli anche qui, e il Beppe, in mancanza di un puro, si accendeva un toscano… beati voi che potete manifestare, sospirava Magda, che allora si faceva chiamare Berta, fuggita clandestina da Franco e dalla sua garrota… sì ma anche qui gli studenti li fan fuori, tra sé e sé Ettore… gli operai con gli studenti, declamavano spavaldi i Tre dell’Apocalisse, Enzo, Claudio e Paola, riecheggiando le parole della canzone della violenza di Lotta Continua di cui erano membri… occhio però alle fughe in avanti, all’estremismo, ammoniva La Vecchia Guardia, Gianni che era stato segretario della Federazione Giovanile Comunista a Omegna e Federico e Giuliana suoi un poco più anziani compagni… qui tutto sta per cambiare, aggiungevo io, citando il verso di un poeta sudafricano che mi era rimasto in testa… ma poi Umbertino, da bastian contrario qual era, sepolto sotto un corale e sonoro “Ma vaffanculo!”, interveniva con una battuta dissacrante delle sue, tipo quella, entrata negli annali, pronunciata a una cena di vecchi partigiani, quando, a un combattente che lamentava che durante la guerra avessero “lasciato molti compagni sull’Antola”, aveva replicato bel bello “Strano, ci sono stato ieri e non ho trovato nessuno…”
A questo punto Gianni che, forse per le sue arti diplomatiche o quell’aria circospetta e lievemente sarcastica che aveva, avevamo preso a chiamare “L’Infido Guadalupi”, cercava di cambiare discorso e ci guidava nei meandri della sua personale Biblioteca di Babele, ispirata al cieco di Buenos Aires, Borges, che era una vera e propria primizia, in Italia assai poco a quei tempi delibata e che, col suo lavoro, Gianni avrebbe promosso a cibo, raffinato sì, ma di largo consumo.
Ed ecco già allora sfilare sotto i nostri occhi incantati, seguendo le sue parole, i luoghi favolosi di cui oggi possiamo leggere nel suo Manuale o nei libri delle collane che ha curato: Egitti di fiaba, città sommerse, morgane dei deserti, turbini di neve, mura di cristallo, minareti improvvisi, sargassi animati, capitani perduti, velieri per sempre erranti… Poi, quasi che per quel tripudio di fantasia le parole non bastassero più, attaccava a cantare e tutti facevamo coro.
E qui si assisteva a uno straordinario fenomeno che Gianni, forse per mancanza di tempo, non ha avuto modo di registrare in uno dei suoi libri di prodigi: il risveglio della “Statua del Commendatore”.
Sì, perché, oltre a Lotta Continua, Claudio, detto anche “Il Convitato di Pietra”, aveva con Enzo qualcos’altro in comune: la Paola. O meglio, la Paola aveva abbandonato Claudio, suo marito, ed era andata a vivere con Enzo ma da allora lo sfortunato sposo, forte della militanza rivoluzionaria che li univa, seguiva dovunque i due amanti. Si sedeva in disparte, spesso sonnecchiando, sempre in silenzio, in una strategia esicastica che alla lunga avrebbe comunque dato i suoi frutti.
Ma quando si cominciava a cantare si trasformava, unendo la sua voce tenorile, che finalmente avevamo modo di udire, alle canzoni che via via i convitati intonavano: La bella la va al fosso, Gianni, Cecilia va alle carceri, la Riccarda, Dime donde vas morena, la Magda – strano: si vede che in quegli anni tutti andavano da qualche parte -, Si tu t’en vas – e dagliela!- la Carole e tante altre che infervoravano sempre più l’ex vittima della Gorgone Medusa, finché il Nostro, che ormai, più che a un uomo o a una statua, assomigliava a un Chanteur méchanisé, uno di quegli automi che deliziavano le corti del settecento, come spinto da un’invisibile molla, balzava in piedi e si esibiva in una solo intonando pro domo sua “O dolci baci, o languide carezze…”.
Quello era il segnale che la serata si stava avviando alla conclusione, scandita dal canto a gola spiegata dell’Internazionale che metteva d’accordo tutti: comunisti, gruppettari, mogli, mariti, amanti, poeti e quant’altro… Ci si salutava dandoci appuntamento per una delle manifestazioni che di solito si svolgevano al sabato partendo dall’Università in Via Festa del Perdono e promettendosi di vederci quanto prima a casa dell’uno o dell’altro. Così per anni.

Anni in cui Milano conservava ancora dei gioielli incastonati, addirittura inimmaginabili nella cartapesta omologata che ci circonda. Taverne come Il Torchietto, dove si esibiva un travestito leggendario, La Wanda, che faceva a gara con Gianni su chi ne conoscesse di più di canzoni popolari; e i caffeucci della ligera, la piccola malavita, dietro Marco d’Oggiono; o, a Città Studi, in fondo a una via lunga lunga, uno spiazzo e un’insegna al neon: Il Sciliano, che chiamavamo Berlinguer, copia sputata del leader del PCI, che per milleduecento lire ti serviva una pasta con le sarde che manteneva miracolosamente intatti tutti i sapori dell’isola, mentre il padrone ti raccontava l’epopea delle lotte bracciantili di quelle terre; e Valpetrosa, una scala di pietra ripidissima e salumi a profusione in una cantina del trecento con le pareti fatte di botti enormi…
Ma, soprattutto, i campi da bocce. I nostri preferiti erano due, entrambi sui Navigli. Uno, “L’Isola Fiorita”, si affacciava proprio sull’Alzaia, ed era tenuto da un signore rotondetto, guance rosse, grembiule bianco, da noi soprannominato “Il Piccolo Lard”, il quale ci scodellava nel piatto dei nodini inversamente proporzionali alla sua altezza, prima di spalancarci le porte del giardino delle nostre tenzoni.
L’altro, più appartato, due campetti, sempre fresco anche in piena estate per il gioco dei venti e la chioma degli alberi, si trovava in Via Magolfa. Il gerente era l’esatto contrario del “Piccolo Lard”: “Acciuga in Barile”, magro, magro, chiuso in un inscalfibile silenzio, che ci serviva, con un contorno di peperoni verdi e un sorriso stento, le delizie eponime del locale, “Salamini Caldi”.
Talvolta faceva la sua comparsa “Il Cuorinfranto”, Ettore, il quale, disdegnando i soldi del padre, si era rintanato a Chiaravalle dove si favoleggiava stesse scrivendo un romanzo, ma in realtà struggendosi per una maliarda che il marito se lo teneva ben stretto. Tuttavia ogni tanto solitudine e sospiri gli andavano stretti e quindi non rifuggiva dalle buone, o meglio, dalle belle compagnie. Come quella volta che era entrato ai “Salamini Caldi” con una creatura di sogno, Cristina Pariset, che fece quella sera mancare il punto a più di uno dei maschi, distratti dai suoi capelli e dai suoi fianchi.
“naciacciaerda”. “Come?”. “Una facciaccia di merda”, bofonchiava Enzo, cavandosi dalle labbra il gessetto con cui si apprestava a sancire sull’apposita lavagnetta il suo innegabile trionfo di asso del rigolo, di dio della bocciata. “Poi dice di essere innamorato, quello”, aggiungeva con un cenno di riprovazione verso Ettore che si stava allontanando con la sua bella e cercando la Paola con quei suoi occhi di acqua cupa in cui mi pareva dovessero affondare come in uno stagno i ciottoli dei versi di Nerval, Je suis le ténébreux le veuf l’inconsolé Le prince d’Aquitanie à la tour abolie, tale era la domanda d’amore che il suo sguardo esprimeva. Poi tornava silenzioso in campo, misurando la distanza del pallino, la disposizione delle bocce.
Umbertino, che il nomignolo se lo portava nel diminutivo che gli avevamo appiccicato in omaggio alla sua non proprio regolamentare statura, paradossale come sempre anche nell’attribuzione dei punti, faceva da arbitro, seguendo saltellando il rotolare delle sfere, come un folletto astrale le orbite dei mondi.
Uscivamo tutti insieme – “Claudio… Oh cazzo: abbiamo dimenticato Claudio…” e correvamo a scuotere e riprenderci “Il Convitato di Pietra” che se la dormiva beatamente sotto un oleandro – e di strada in strada, guidati come da un’invisibile bussola, si tornava di solito a casa di Guadalupi. Qui, le nostre gambe, già duramente provate dalle nostre estenuanti partite, dovevano affrontare la sfida dei tre piani senza ascensore che ci portavano alla magione del nostro ospite. Ricordo, una sera, una tortura supplementare, decretata, inflessibile, dalla Licia, la quale, avendo appena fatto lamare il parquet, faceva la spola su una striscia di giornali porgendo a ognuno a turno della paziente fila in attesa quegli infernali aggeggi che sono le pattine, che la nostra inesorabile e graziosissima Caronte ci consegnava per traghettarci alla sospirata riva del tavolo che ci attendeva.
Gianni, per compensarci, tirava fuori una bottiglia “di quel bun” e certi insaccati delle sue parti che non avevano niente da invidiare alle salame magnificate in una trasmissione televisiva, a quei tempi famosa, da Mario Soldati.
Toccava allora a me fare le avances con la Licia, della quale eravamo tutti segretamente un poco innamorati. E attaccavo tutta una tiritera –“Oh Liuoscia, bela Liuoscia”, salmodiavo in una strampalata parodia di russo, “vuoi tu cuantare duolce cuanzone per piccuolo Giulio?”- finché lei, che il russo lo conosceva alla perfezione essendo di quella lingua interprete, sfinita, scioglieva la sua voce di cristallo in una di quelle interminabili nenie che ci facevano volare di steppa in steppa…
Non si era ancora placato quel vento di cosacchi, e Gianni, col dito sulle labbra, ci accompagnava alla stanza delle bambine – sì, perché nel frattempo era nata Alessia – per farci ammirare il lavoro che aveva fatto durante tutto il giorno.
Era come entrare nel paese incantato al di là dello specchio. Il letto era un castello, con merli, bifore e balconi. Il soffitto un cielo di stelle e sulle pareti i vascelli, le vele al vento, prendevano la via del mare.

Giulio Stocchi, Nel tramontoultima modifica: 2008-05-18T18:25:00+02:00da mangano1
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