Maurilio Riva, Nome di battaglia DIAVOLO

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“Noi sognavamo un mondo diverso, un mondo… un mondo di libertà, un mondo di giustizia, un mondo di pace e un mondo di fratellanza e di serenità. Ho ottantacinque anni, da allora ne sono passati sessanta, e, purtroppo, questo mondo non c’è. E allora: riflettete, ragionate con la vostra testa e continuate la nostra lotta.”

Germano Nicolini, Comandante Diavolo

“Nome di battaglia: Diavolo”1 è un libro che ricostruisce l’epopea giudiziaria di Germano Nicolini, comunista e partigiano, ingiustamente accusato dell’assassinio di Don Umberto Pessina, parroco di S.Martino di Correggio, Reggio Emilia.ad31884a96fe88a6f58939d228ced0eb.jpg

Dal giorno dell’arresto e dell’accusa di omicidio al giorno dell’assoluzione con formula piena, per non aver commesso il fatto, passano 47 anni.

La sua storia tornò sulle pagine dei giornali nel 1990 con l’articolo su “Il Resto del Carlino” di Otello Montanari, senatore del PCI, dall’ermetico titolo: “Rigore sugli atti di Eros e Nizzoli” . Montanari scrive: “Sono trascorsi 45 anni e bisogna valutare attentamente quelle vicende. É un’esigenza della democrazia, della Resistenza, della non violenza … Chi sa parli …”.

É una notizia esplosiva, dirompente e necessaria, eppure le sue parole vengono lette come un attacco diretto al cuore della Resistenza.

Otello Montanari non viene rieletto nel congresso provinciale dell’Anpi in corso e pubblicamente redarguito: “Non è una classe politica messa sotto accusa dalla storia ma l’intera lotta di liberazione”. Qualcuno gli chiede a muso duro di dare le dimissioni da Presidente dell’Istituto Cervi e perfino Giancarlo Pajetta si dichiara indignato per questo “ennesimo attacco alla lotta partigiana contro il fascismo” .

Tutto ciò avviene nell’anno della Bolognina e del cambiamento di  nome del PCI, giusto per contestualizzare. Pajetta è fra i dirigenti nazionali favorevoli e si trova lì mentre si sta svolgendo una riunione dei “comunisti del no” per provare a convincerli.

Di cosa si sta parlando? Di un delitto politico, e di ciò che ne seguì, avvenuto il 18 giugno 1946 a meno di due ore dello scadere degli effetti dell’Amnistia Togliatti e a un anno e un mese dalla fine della lotta di liberazione.

In questa vicenda sono stati costruiti alcuni scandali ripetuti e continuati:  

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    1. Lo scandalo del castello di accuse infami e di prove inattendibili, un complotto pilotato scientificamente dagli inquirenti a tavolino, che portò all’incriminazione e alla percuzione giudiziaria di un innocente, nonostante decine di testimonianze in suo favore e autoaccuse da parte di altri partigiani comunisti. Magistrati, curia anticomunista e capo dei carabinieri preferirono un innocente da condannare che viene accusato con prove inconsistenti e manipolate in corso d’opera perché più utile per la propaganda di quegli anni. Alla sproporzionata menzogna giudiziaria pose rimedio nel 1994 la Corte d’Appello di Perugia, durante il processo di revisione, assolvendo ampiamente gli imputati e restituendo loro la dignità di innocenti.
    2. Il PCI locale era a conoscenza dei fatti fin da subito e consentì la persecuzione di un innocente lasciando che venisse condannato. Permise che “Diavolo” pagasse questo prezzo e che i maggiori dirigenti provinciali e nazionali emiliani si adoperassero per cancellare ogni frammento di verità. Prima abbandonò Nicolini, in seguito lo osteggiò nella ricerca della verità e infine lo contrastò nel tentativo di procurarsi  un posto di lavoro.

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    Nicolini viene condannato a 22 anni di carcere. Prima con una riduzione di pena e successivamente con la libertà condizionale, torna libero nel 1956. Nel corso dei 10 anni in cui è rimasto in carcere e per pagare le spese dei vari  processi ha visto dissolvere il discreto patrimonio della sua famiglia: “Dopo la morte di mio padre, ereditai 580mila lire di allora e decisi di trasferirmi a Milano, dove avevo una sorella. Facevo l’impiegato di banca e guadagnavo circa  5mila lire ogni mese. Fu mio cognato a dirmi che dopo gli anni di liceo era un peccato interrompere gli studi. Visto che ero bravo in matematica, mi propose di iscrivermi a ragioneria. Scelsi la scuola Cavalli-Conti e riuscii a terminare i corsi in un solo anno. Poi passai alla Bocconi”.

    Ha perciò bisogno di lavorare e qui si affacciano le prime avvisaglie del secondo tradimento che il partito reggiano attuerà nei suoi confronti. Perfino nel trovargli un posto di lavoro nella cooperazione sorgeranno ostacoli, ipocriti mutamenti di faccia e scuse vergognose.

    Non avevo messo in conto – ammetterà Nicolini – di venire emarginato nella stesssa vita interna di partito […]; nemmeno pensavo che un giorno avrei restituito la tessera, per ragioni di costume e non di linea politica”.

    Chi era Germano Nicolini? Nasce a Correggio nel 1919 da famiglia di contadini proprietari, dopo gli studi superiori è chiamato alle armi. Dal Settembre 1943 aderisce al movimento partigiano, divenendo il comandante del 3° battaglione Sap della 77a brigata “Fratelli Manfredi”, con i nomi di battaglia di “Demos”, “Giorgio” e infine “Diavolo”.

    Nicolini spiega così l’origine del suo nome di battaglia: “All’inizio della lotta clandestina – ottobre 1943 –  il mio nome di cospirazione era “Demos”, che cambiai nel luglio del 1944 con quello di “Giorgio” perché individuato dalla polizia nazifascista. Sennonché, alla fine di dicembre dello stesso anno, mi accadde un episodio tanto drammatico, quanto miracoloso: mentre in bicicletta percorrevo una strada di campagna, che essendo in zona partigiana giudicavo fosse sicura, una pattuglia tedesca sbucò da dietro un argine intimando l’alt a una donna, davanti a me un’ottantina di metri, anch’essa in bicicletta. D’un balzo, mi gettai nel fosso, correndo a rompicollo  verso un filare d’alberi in cui mi infilai zigzagando, con i tedeschi al mio inseguimento che sparavano all’impazzata. Mi facevano scudo gli alberi, credo però non fosse la mia ora ed eccomi involato. Le due sorelle Morini che dalle finestre di una casa vicina seguirono la drammatica scena, alla fine, esternarono il loro stupore con questa frase, in dialetto: “Ma l’è propria ‘l diével (É un diavolo)”. Era il 31 dicembre 1944 e da quel momento quel nome non me l’ha tolto più nessuno. Io ne vado onorato perché so che, nel dialetto reggiano, vuol dire “vivace” e non ha quel significato che invece è stato attribuito a questo nome quando mi hanno condannato a 20 anni di galera per un omicidio che non avevo commesso. In quel caso, è stato usato per dire che io ero la personificazione del male”.

    Con il trascorrere dei decenni molti ricordi vengono meno ma alcune cose, quelli che sono gli eventi fondamentali dell’esistenza di un uomo,  sono rimaste incise come se il cervello fosse una specie di nastro.

    Il mio contributo alla Resistenza nasce in primo luogo dal mio anti-tedeschismo viscerale. L’otto settembre 1943 io ero ufficiale dell’esercito in un  presidio di Roma  e fui fatto prigioniero dai tedeschi con tutto il mio battaglione. Questo è ciò che fece scattare la mia scelta di stare contro i tedeschi. Eravamo impegnati in  posti di blocco quando improvvisamente  fummo circondati da carri armati Tigre tedeschi. I nazisti promisero al mio comandante che ci avrebbero fatto ritornare a casa, se avessimo deposto le armi. I nostri ufficiali ci spiegarono che resistere in quelle condizioni, avendo solo dei carri leggeri che erano andati bene in Africa, ma non certo di fronte ai Tigre tedeschi, sarebbe stato un suicidio. Decidemmo di arrenderci. Dopo aver depositato le armi e dopo aver abbandonato i carri, ci incolonnarono comunicandoci che ci avrebbero accompagnato alla stazione Tiburtina. Quello che mi insospettì fu il fatto che la nostra colonna, ogni trenta/quaranta metri era controllata  da un tedesco con la mitraglia. Allora ho pensato: “ma questi qui non ci portano mica alla Tiburtina per spedirci a casa!”. Ho approfittato di uno scoscendimento, di un argine, ho tentato la fuga con altri quattro e ci siamo riusciti. Invece il battaglione lo hanno mandato in Polonia, in un campo di concentramento e lo hanno annientato per l’80%. Per questo io ho sentito il dovere di restare fedele all’esercito legittimo del mio paese. Poi i vertici dell’esercito avranno commesso errori, siamo d’accordo, ma la mia  è una scelta  nata da qui e si è basata in massima parte su valori patriottici e antitedeschi.

    Partecipò a diversi conflitti a fuoco, tra cui le battaglie di Fabbrico e di Fosdondo, subendo due ferite.

    I primi gruppi armati che si sono costituiti erano i Gap (gruppi di azione patriottica) formati da tre o quattro persone, in modo che se fossero stati catturati e sottoposti a tortura avrebbero potuto denunciare un numero limitato di partigiani. I contadini non ci conoscevano e per i primi sei mesi ci consideravano banditi. Qualcuno di loro ci ha sparato anche contro. Poi non avevamo armi. Qui, in pianura, le armi abbiamo dovuto conquistarcele. Quando ancora i partigiani non si erano manifestati come forza nemica e si poteva circolare con una certa serenità, rubavamo le armi ai tedeschi. Mi ricordo che derubammo un tedesco mentre era dal  barbiere. Ci limitavamo a prendere le armi, ma senza ucciderli.

    Non fu semplice neppure organizzare le case di latitanza. Normalmente trovavamo ospitalità nelle case degli antifascisti, ma molte volte abbiamo anche occupato case che erano le meno individuabili, ovvero quelle dei fascisti. Le case erano importanti perché al movimento partigiano servivano posti dove nascondersi. In montagna era un conto…ma in pianura, senza rifugi naturali… se i tedeschi ci circondavano come facevamo? Poi tra la fine di giugno e i primi di luglio 1944 cominciammo a diventare squadre (i Sap, squadre di azione patriottica) costituite da pochi uomini  e poi diventammo sempre più numerosi fino a costituire, nel novembre, veri e propri  distaccamenti che potevano fare combattimenti anche contro fascisti e tedeschi. All’epoca i tedeschi non giravano più tranquillamente. Noi eravamo gli uomini della notte in un territorio che dipendeva da loro solo di giorno”.

    Proposto di medaglia d’argento al valore partigiano, viene radiato dall’Esercito in seguito alla condanna perdendo ogni diritto compreso quello alla pensione di guerra già riconosciutogli.

    Diviene dirigente tecnico del movimento cooperativo, raggiungendo la carica di direttore generale dei magazzini della Coop Italia di Reggio Emilia. Nel 1994 è assolto da tutte le condanne e insignito della megaglia d’argento.

    Eletto sindaco di Correggio nel dicembre 1946, è un uomo generoso, attento ai bisogni degli altri. Segretario dell’Anpi capisce che si deve soccorrere i reduci e gli ex partigiani indigenti,  disoccupati e alla fame. Bussa alle porte di tutti i benestanti e nel giro di un mese apre una mensa che distribuisce un pasto gratuito al giorno. Subito viene chiamata “la mensa del partigiano e del reduce” ma Nicolini decide di consentirne l’accesso anche a gli ex aderenti bisognosi della Repubblica di Salò. Per il comandante partigiano Diavolo si tratta di un problema di coscienza: “Di fronte a tragedie simili occorreva bandire ogni spirito di discriminazione e di ritorsione, altrimenti ci si sarebbe messi sullo stesso piano di chi per vent’anni aveva posto la tessera politica a discrimine del diritto al lavoro e alla vita”.

    Così la mensa del partigiano diviene luogo di ristoro anche per il ex nemico. Esemplare nella condotta e nel rifiutare con fermezza ogni ricorso alla giustizia sommaria nei giorni infuocati dell’insurrezione  e in quelli non solo immediatamente successivi: “Mi ricordo che all’indomani del 25 aprile un gruppo di persone voleva dare l’assalto alle carceri non dove c’erano i tedeschi, ma i fascisti. Mi sentii in dovere di prendere una camionetta, di quelle aperte che avevamo requisito ai tedeschi, imbracciare una mitraglia e mettermi davanti alla porta delle carceri  per impedire l’assalto. Cercai di parlare alla gente e loro mi accusarono di essere un fascista, di essere rimasto un fascista, perché  inizialmente ero iscritto ai Guf e la gente lo sapeva. Ma se avessero dato l’assalto alle carceri sarebbe successo un massacro e non si sarebbero uccisi i veri colpevoli. In quel momento anche i miei compagni, soprattutto quelli che avevano perso dei familiari e mi avevano in stima, dubitarono di me. Eppure io ero stato chiaro con loro. Mi ricordo della sera prima della Liberazione: venne la staffetta, a dirci che i fascisti stavano scappando e all’indomani Correggio sarebbe stata liberata. Noi avremmo di sicuro fatto dei prigionieri. Allora mi rivolsi ai miei uomini e dissi: “voi mi avete eletto come responsabile, quindi attenzione, se volete confermarmi in questo ruolo, state a quello che vi dico io. Non toccate nessuno! Non intendo l’agire sulla persona in modo violento. Intendo proprio di non toccarlo, neanche con un dito. Perché c’è un valore da rispettare che è quello della giustizia, ci penseranno gli alleati”.

    Un partigiano, Diavolo, che ama spendere la sua vita per gli altri. Germano Nicolini è un uomo “eccentrico”, non inquadrabile in schemi di partito e in fedi dogmatiche.

    Molti si immaginano che tra i partigiani garibaldini si parlasse di socialismo e di comunismo. In realtà nessuno sapeva cosa fossero. Si poteva ascoltare Radio Londra, in qualche casa… sentivamo viene avanti l’Armata Rossa… Stalingrado è stata rioccupata dai russi… Tutte notizie confortanti, ma che non davano certo indicazioni di strategia politica per il futuro. Qui in pianura, al contrario della montagna, non sapevano niente di politica. Tutti noi siamo arrivati al giorno della Liberazione con una immaturità che non si può immaginare. Nella mia squadra erano tutti braccianti, contadini, mezzadri e qualche operaio, cosa volete che dicessimo? C’era qualcuno che, per la propria formazione personale, era più portato a capire le situazioni politiche, ma io di grandi discussioni non ne ho mai sentite. Il nostro problema era uno solo: combattere per liberarsi dai tedeschi e poter ottenere complessivamente un miglioramento della nostra vita”.

    Un insoburdinato, a suo modo, che pratica in pubblico e in privato la coerenza. Uomo che persino in battaglia dichiara la sua fiducia nell’essere umano: “Venivo da una famiglia di contadini cattolici il cui comportamento era ispirato da un idea molto semplice: i valori in cui si crede devono diventare pratica quotidiana. Credevano nella sacralità della vita, nel rispetto per il lavoratore, nell’essere vicino agli umili secondo i vangeli, nell’essere solidali. Io ho vissuto nella costanza di questo esempio. Poi avevo frequentato il corso ufficiali che mi aveva insegnato il rispetto delle regole, che ci sono delle norme fissate a cui bisogna attenersi. Quando arrivò il giorno della Liberazione, il mio atteggiamento fu solo una naturale conseguenza  dell’educazione che avevo ricevuto. Con il mio reparto occupai Correggio senza colpo ferire. Ormai i caporioni fascisti erano finiti, non erano altro che dei poveri disgraziati. Oggi questo è un argomento abbastanza condiviso e quindi può sembrare comodo dirlo da parte mia, ma l’esigenza di comprendere le ragioni di chi aveva combattuto dall’altra parte, il problema della riconciliazione, io lo ebbi presente da subito. Un prigioniero nemico si arresta, non si può uccidere. Il mio dovere è quello di rispettare la Convenzione di Ginevra – come avevo imparato al corso ufficiali – quindi di  consegnare il nemico al comando militare e tutto finisce lì. So che invece molti, dopo l’arresto, sono stati portati in montagna…ma non è stato il mio caso. Ho avuto il comando su Correggio per sette giorni e  in quei giorni avevamo nelle carceri 360 prigionieri tedeschi e  200 fascisti. Molti di questi fascisti erano giovani. Li abbiamo rilasciati dopo qualche giorno perché l’unica responsabilità che avevano era quella di aver creduto ingenuamente alla propaganda bellica: che Hitler aveva la bomba atomica, che aveva “l’arma segreta” che avrebbe cambiato le sorti della guerra a favore dei nazisti”.

    Nel 1995, i Modena City Ramblers nel loro album gli dedicano una bella canzone in dialetto emiliano, dal titolo emblematico, “Al Dievel2:

    In dla basa svein a Curès

    Andom a pianter di èlber

    dop cinquant’an e des de galera

    un om l’è ste tolt dal fang

    e tòti cal piantich’i posen servir

    a dèr a c’l om là al respir

    c’al posa campèr duseint an incàra

    ‘na volta lèber dal suspet 

    C’al veint e i usèe i posen purter

    luntàn al paroli ed la veritèe

    c’as sapia in gir che c’l om là l’è ste

    un dievel sol p’r i tedasc 

    E adès c’a sòmm in dal dumèla 
    e a s’va incàra a tac a sta storia  
    cuntela bein ai vostr anvòo 
    la vicenda del Comandante Diavolo. 
     
    Un om chi an vlùu a tut i cost cundanèr, 
    perché l’era un esèmp per chi èter. 
    A gh’è ches cl’ava pèrs quel in dal cor, 
    ma mai dal partigian al curàg.
     
     

    La canzone, riproposta nell’album “Appunti Partigiani”, viene corretta dallo stesso Nicolini in un punto del testo che non rendeva fede alla realtà. La storia di Germano Nicolini è stata ripresa nel 1996 dal Consorzio Suonatori Indipendenti (CSI) di Giovanni Lindo Ferretti in “Linea Gotica” che vende 50000 copie, nella quale è presente un altro personaggio simbolo della lotta antifascista: Giuseppe Dossetti (“Il monaco ubbidiente”), tra gli estensori della Costituzione Italiana nel dopoguerra. 

    •  

      Alba la presero in duemila il 10 ottobre 
      la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944 
      anche la disperazione impone dei doveri 
      e l’infelicità può essere preziosa 
      non si teme il proprio tempo è un problema di spazio 
      non si teme il proprio tempo è un problema di spazio 
      geniali dilettanti in selvaggia parata 
      ragioni personali una questione privata 
      la facoltà di non sentire 
      la possibilità di non guardare 
      il buon senso la logica i fatti le opinioni le raccomandazioni 
      occorre essere attenti per essere padroni di se stessi 
      occorre essere attenti 
      luogo della memoria pomeriggio di festa 
      giovane umanità antica fiera indigesta 
      cielo padano plumbeo denso incantato incredulo 
      un canto partigiano al Comandante Diavolo 
      non temere il proprio tempo è un problema di spazio 
      non temere il proprio tempo è un problema di spazio 
      geniali dilettanti in selvaggia parata 
      ragioni personali una questione privata 
      la facoltà di non sentire la possibilità di non guardare 
      il buon senso la logica i fatti le opinioni le raccomandazioni 
      occorre essere attenti per essere padroni di se stessi 
      occorre essere attenti 
      la mia piccola patria dietro la Linea gotica 
      sa scegliersi la parte la mia piccola patria 
      occorre essere attenti per essere padroni di se stessi

    •  

      occorre essere attenti 
      occorre essere attenti occorre essere attenti 
      e scegliersi la parte dietro la Linea gotica 
      Comandante Diavolo Monaco Obbediente 
      Giovane Staffetta Ribelle Combattente 
      la mia Piccola Patria dietro la linea gotica 
      sa scegliersi la parte
       

    Ora Frediano Sessi, in realtà nel 2000, pubblica questo bel libro con il taglio della cronaca e la tensione di un romanzo, basato su atti processuali e su fonti  scritte e orali, sulle testimonianze dei protagonisti. Particolarmente scrupolosi sono i dati sulla mancata epurazione, tanto da far dire a Paul Ginsborg3 che “l’unica effettiva epurazione fu quella condotta dai ministri democristiani contro i partigiani e gli antifascisti che erano entrati nell’amministrazone statale subito dopo l’insurrezione nazionale”. Ginsborg prosegue: “Nel 1960, si calcolò che 62 dei 64 prefetti in servizio erano stati funzionari sotto il fascismo. Lo stesso era per tutti i 135 questori e per i loro vice. Solo cinque di essi avevano partecipato in qualche modo alla Resistenza”.

    Interessanti e istruttive sono le pagine in cui Amendola a Modena nell’ottobre del 1945 e Togliatti nel settembre 1946 a Reggio Emilia, venuto apposta a discutere dei delitti che erano stati commessi provano a mettere in riga i riottosi seguaci della linea dura e di quello che George Orwell chiamava il doublethink, il doppio pensiero: “Sapere e non sapere, avere la coscienza di essere completamente veridico mentre si dicono menzogne accuratamente congegnate”.

    Paradigmatica è la storia di Arrigo Nizzoli. Dopo essere stato condannato dal Tribunale speciale e scontato quattro anni di reclusione, avendo bisogno di lavorare andò a pregare e a inginocchiarsi davanti all’Ingegnere Vischi per essere assunto.

    Nel 1945, quando Nizzoli diventa il segretario della federazione comunista reggiana, questo suo lontano gesto di debolezza gli appare una pagina che non avrebbe dovuto diffondersi, una macchia da cancellare. Così, nel clima incandescente del lungo dopoguerra, Vischi viene fatto uccidere e dopo di lui viene eliminato anche uno dei colpevoli della sua morte perchè non potesse più parlare.

    É indiscutibilmente una angheria costringere un uomo a elemosinare un posto di lavoro con il cappello in mano e la schiena incurvata ma assai ce ne corre fra lottare affinchè venga assicurato a tutti uno dei primi diritti di civiltà e ordire vendette mortali da eseguire nell’ombra.

    “Nome di battaglia: Diavolo” è un contributo  a riscoprire  una storia  di connivenze  sospette  che infangano la memoria della Resistenza poiché “ogni società ha uno specifico dovere verso il suo passato e che esso è fruttuoso non quando serve a nutrire il risentimento o la menzogna (tronfalismo) bensì quando il suo gusto amaro (doloroso) porta a trasformarci”. 

    = Frediano Sessi: Nome di battaglia: Diavolo, Marsilio Editore, 2000 

    2Il Diavolo

           Nella bassa vicino a Correggio / andiamo a piantare degli alberi /

           dopo cinquant’anni e dieci di galera / un uomo è stato tolto dal fango / e tutte

           quelle piante che possano servire / a dare a quell’uomo il respiro / che possa

           vivere ancora duecento anni / una volta libero dal sospetto 

           Che il vento e gli uccelli possano portare / lontano le parole della verità / che si

           sappia in giro che quell’uomo è stato / un diavolo solo per i tedeschi 

           E adesso che siamo nel 2000 / e si torna ancora su questa storia / 
           raccontatela bene ai vostri nipoti / la vicenda del comandante Diavolo. / 
          Un uomo che hanno voluto condannare a tutti i costi / perché era un esempio per  

           tutti gli altri / Può darsi che abbia perso qualcosa nel cuore / ma mai del  

           partigiano il coraggio.

         

    3 = Paul Ginsborg: Storia dell’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, 1989

    Maurilio Riva, Nome di battaglia DIAVOLOultima modifica: 2008-05-19T10:40:00+02:00da mangano1
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