Maria Vittoria Vittori, Su Paola Masino

ca5a47f85377fbf155e758fbef2dce95.jpgda LIBERAZIONE, 20 maggio 2008Maria Vittoria VittoriPaola Masino «Io sono nata l’anno del terremoto di Messina – 1908«Io sono nata l’anno del terremoto di Messina – 1908. Il terremoto è avvenuto in gennaio, io sono nata in maggio. (…) Sono grata al mio dèmone di avermi espressa in quell’anno di convulsione naturale; convulsione di elementi e non di uomini». Così scriveva Paola Masino durante un’estate a Forte dei Marmi nel 1935: e già da questa orgogliosa e insieme ironica autopresentazione è possibile intravedere la personalità di quella che è stata la scrittrice più originale, e più rimossa, del nostro Novecento. Con Simone de Beauvoir, che più di una volta – nella Parigi dei primi anni Trenta e nella Venezia del dopoguerra – ha incrociato la sua strada, condivide l’anno di nascita ma anche la vocazione per le domande più che per le risposte e un innato anticonformismo. Paola è la bambina che nelle passeggiate sull’Appia Antica – i suoi genitori d’origine toscana si erano trasferiti a Roma subito dopo il matrimonio – detta al padre le sue emozionate impressioni; è l’allieva liceale che non si presenta agli esami di riparazione ma in compenso si presenta a Pirandello, nel foyer del Teatro Argentina, per affidargli in lettura un’opera teatrale intitolata Le tre Marie ; è la giovane donna che, innamorata di Massimo Bontempelli – separato e con trent’anni di più – se ne va a vivere con lui a Parigi. Trova lavoro nella redazione della rivista politica “L’Europe nouvelle” dove, racconta, «mi aspettavano come si aspetta la nuova puntata di un romanzo avvincente». Piace la sfida, a Paola, nella vita e nella letteratura: vivere di poco e mettersi collane di foglie ai ricevimenti ufficiali; dare battaglia ai pregiudizi e alle ovvietà, armata di quella pungente intelligenza che è il suo contrassegno. E dal momento che è intorno al corpo e all’intelletto delle donne che ovvietà e pregiudizi si addensano – anche ora, figuriamoci nell’Italietta fascista – è lì che Paola decide di intervenire. Certo non potevano piacere al pubblico di quell’Italietta, conformisticamente modellato sul culto della decorosa famigliola borghese, le sue storie che s’accostano agli interni familiari infiltrandovi l’interrogazione, lo squilibrio, lo sgomento. Monte Ignoso , il primo romanzo pubblicato nel 1931, nasce da una concezione della maternità assolutamente fuori dagli schemi. I figli non sono soltanto piezz’ e core, ma strumenti privilegiati di riflessione: riflessione legata al corpo e dunque ancora più profonda. Pongono problemi di natura filosofica ed esistenziale talmente complessi che poche, e pochi, hanno il coraggio e il lessico necessari per affrontarli. Emma, la protagonista del romanzo, trova le parole e l’audacia per rivendicare il suo ruolo di fronte a dio: «Non distruggermi, dio onnipotente: io sono quello che tu non potrai mai essere: madre». Un racconto come Fame , imperniato su una paternità anomala, così sofferta nella carne e nello spirito da non negarsi al desiderio di autodistruzione espresso dai figli, provocò la chiusura, su ordine di Mussolini, della popolarissima rivista “Grandi Firme” diretta da Zavattini. La maternità e la paternità guardate dalla spiazzante prospettiva dei bambini sono al centro del romanzo Periferia (1933). Lo sguardo impietoso di queste creature venute su da sole, cresciute per strada restituisce agli adulti cicatrici, mancanze e nevrosi nascoste dal trucco di scena. Inconcepibile: «Come è possibile – si chiede disgustato il critico camerata Leandro Gellona – far vivere all’anno XI dei bambini italiani contemporanei senza che, almeno di riflesso, sentano l’influenza dell’O.N.B. (Opera Nazionale Balilla)?».Ma il romanzo a cui Paola affida tutta se stessa – tra i racconti e gli articoli per le riviste, gli spostamenti nelle diverse città italiane, sempre insieme a Bontempelli, tra il clima di diffidenza e di ostilità che si addensa intorno a loro fino a determinare una sorta di confino a Venezia – è Nascita e morte della massaia (1945). Il ruolo di brava padrona di casa va stretto a Paola, che pure lo assolve brillantemente; il suo cruccio è quello di non poter usufruire di un tempo e di uno spazio mentali tutti per sé. «Non sarò mai, no, non sarò una massaia felice. Sarò il Lucifero delle massaie», scrive nel 1938 alla sorella Valeria. Pur in mezzo alla guerra, tra concreti rischi di morte – un Pavolini incrudelito reclamava la fucilazione per Massimo e la deportazione per lei – e i pressanti problemi della sopravvivenza, Paola non smette di pensare alla sua massaia. Prende così forma questa creatura, strappata a forza dal baule in cui consumava la sua infanzia maledetta e immaginosa, per essere abbigliata, truccata e allevata con infinite premure e smisurato sadismo ad essere l’archetipo della Perfetta Massaia. Borghesemente sistemata nella “magione avita” con marito gentiluomo e servitù rispettosa, l’ingrata creatura non smette di coltivare una sorda ribellione. Negandosi alla maternità, prima di tutto. E poi rifiutando ostinatamente di annegare il rovello della sua intelligenza nel mar morto della quotidianità. Una ribellione potente anima questa crucciata eroina del libero pensiero condannata alla ripetizione di scialbi rituali casalinghi. «Dov’è la zona in cui sgombero e morte si equivalgono, amore e cucina si fronteggiano?», s’interroga disperata. Lo scacco finale arriva in forma di beffa: la massaia, ormai priva di pensiero cosciente e divenuta perfetta macchina domestica – un incrocio tra la donna poltrona di Savinio e una macchina celibe di Duchamp – continua a desiderare con tutte le sue forze di rientrare nel baule, a costo di morire; e finalmente muore, da vera eroina, con coraggio e dignità, ma è costretta – potenza dei rituali casalinghi – a resuscitare per lustrare la sua tomba: ed è così che l’eroismo precipita in farsa. Non ci stupisce che un romanzo come questo sia stato definito disfattista e cinico dalla censura di regime; continuiamo invece a stupirci per le sue situazioni e per il suo linguaggio. Di fronte a certa letteratura che economizza avaramente sulle immagini e sulle parole, e dunque massaia, la Masino spavaldamente elogia e pratica una scrittura dello spreco: molto poco giudiziosa e tanto ingegnosa, che ha il coraggio di dibattere con parola di donna i temi più scabrosi: la vita, la maternità, l’eroismo, la morte e per giunta di ironizzarvi. A questo romanzo non seguono altri; nei primi anni Cinquanta, più volte attaccata dalla stampa, insieme a Bontempelli, per il loro avvicinamento al partito comunista (si legga al riguardo il sarcastico racconto “Visita allo zoo” in Colloquio di notte ), Paola si dedica a scrivere di moda, di cinema, di architettura, di questioni sociali e civili, sempre con la sua affilata intelligenza, ma con fiducia appannata nelle possibilità della parola. Mai in sintonia con il proprio tempo storico, se da giovane era stata in bruciante anticipo sui suoi coetanei, dopo la morte di Bontempelli nel 1960 e il tramonto di quel mondo culturale in cui si era formata, coltiva con orgoglio la propria diversità e osserva i contemporanei come se fosse affacciata «a un balcone del secolo scorso». Talvolta avverte con disperazione d’essere diventata quello che mai avrebbe immaginato di diventare: una donna normale. Ma i suoi racconti, i suoi romanzi e soprattutto la formidabile storia di quella massaia, mai più ripubblicata dopo l’edizione del 1982, reclamano di essere letti, di essere discussi, di essere collocati nella nostra contemporaneità. Perché tutto sono, tranne che normali.«

Maria Vittoria Vittori, Su Paola Masinoultima modifica: 2008-05-20T13:03:16+02:00da mangano1
Reposta per primo quest’articolo