Antonio Sparzani, Ballata del fiore azzurro

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dal blog NAZIONE INDIANA

Via, via, vieni via di qui,
niente più ti lega a questi luoghi,
neanche questi fiori azzurri…
via, via, neanche questo tempo grigio
pieno di musiche
e di uomini che ti sono piaciuti

(Paolo Conte, Via con me, 1981)

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Di fiori azzurri ce ne son diversi in natura, ognuno con la sua sfumatura di celeste, d’azzurro, o d’indaco, fino al blu intenso, fino a sfumare nel violetto. Vengono in mente il fiordaliso, (cliccate sul campo qua sopra, fiordalisi e papaveri), il nontiscordardimé (la myosotis alpestris), o altri fiori di prato di cui non so il nome, fino alle ombre blu della genziana e di certi anemoni.

Ma nella mia testa uno dei primi ricordi di mitico fiore azzurro spunta fuori da una poesia che da ragazzetto avevo sentito decine di volte recitare da Arnoldo Foà, in uno di quei quarantacinque giri che allora usavano, di poesie dette da grandi attori: era questa una scelta di poesie di Federico Garcia Lorca, di cui allora nulla sapevo tranne quelle liriche che affascinavano me come credo molti di quella generazione, dal Lamento per la morte di Ignacio Sànchez Mejìas, a La sposa infedele. L’editore Guanda pubblicò nel 1960 un bellissimo volume con testo a fronte: una ricca scelta di poesie, curate e tradotte da Carlo Bo. Fortunatamente nel volume c’erano quelle del disco e così potevo ascoltare col testo davanti, il massimo della vita.
Bella e il vento, così Bo traduceva Preciosa y el aire: metafora dell’inseguimento amoroso, chiara quante altre mai, ma che alla mia immaginazione di adolescente manteneva tuttavia qualcosa di misterioso.

Su luna de pergamino
Preciosa tocando viene,
Al verla se ha levantado
el viento que nunca duerme.
San Cristobalon desnudo,
lleno de lenguas celestes,
mira a la niña tocando
una dulce gaita ausente.
– Niña, deja que te levante
tu vestido para verte.
Abre en mis dedos antiguos
la rosa azul de tu vientre.

La “rosa azzurra del tuo ventre” rimaneva nella mia fantasia di allora, una metafora, un fiore, alludeva a qualcosa che apparteneva a un mondo ancora del tutto sconosciuto, appena intravisto o intuito, più mitico che sensuale.

La ricorrenza del fiore azzurro non s’è fermata nella mia vita e s’è anzi ripetuta un buon numero di volte. È di cinque anni dopo un altro punto alto delle mie letture, e cioè I fiori blu di Raymond Queneau, che considero, nella mia del tutto soggettiva classifica interna, uno dei grandissimi della modernità. Il romanzo, continuo parallelo percorso di due straordinari personaggi, Cidrolin e il Duca d’Auge, ognuno dei quali sogna l’altro, fino a quando le parallele si incontrano, si apre con un “esame della situazione storica”, eccolo nella traduzione di Italo Calvino

“Il venticinque settembre milleduecentosessantaquattro, sul far del giorno, il Duca d’Auge salì in cima al torrione del suo castello per considerare un momentino la situazione storica. La trovò poco chiara. [le duc d’Auge se pointa sur le sommet du donjon de son château pour y considérer, un tantinet soit peu, la situation historique. Elle était plutôt floue.]. Resti del passato alla rinfusa si trascinavano ancora qua e là. Sulle rive del vicino rivo erano accampati un Unno o due; poco distante un Gallo, forse Edueno, immergeva audacemente i piedi nella fresca corrente. Si disegnavano all’orizzonte le sagome sfatte di qualche diritto Romano, gran Saraceno, vecchio Franco, ignoto Vandalo. I normanni bevevan calvados.”
Dopo mille surreali quotidiane avventure, alla fine del romanzo, ecco che il Duca, incontrato finalmente il suo doppio e infine liberatosene, ispeziona di nuovo la situazione storica:
“All’indomani le acque s’erano ritirate nei letti e ricettacoli consueti e il sole era già alto sull’orizzonte, quando il Duca si svegliò. Si avvicinò ai merli per considerare un momentino la situazione storica. Uno strato di fango ricopriva ancora la terra, ma qua e là piccoli fiori blu stavano già sbocciando.”

Di cosa siano metafora questi piccoli fiori non è così chiaro come per Lorca. Calvino, che è stato il grande traduttore italiano del libro, ne accenna nella sua “nota del traduttore” a fine volume, raccontando di averne personalmente chiesto a Queneau : “Ricordo anche che gli domandai del titolo Les fleurs bleues, che richiede soltanto una traduzione letterale (la scelta di «blu» anziché «azzurri» m’era parsa più scattante e queneauiana) ma che resta misterioso come significato in rapporto al libro. Mi spiegò il significato francese dell’espressione, che indica ironicamente le persone romantiche, idealiste, nostalgiche d’una purezza perduta, ma non mi diede altri lumi sul valore di questa immagine nell’insieme della vicenda del Duca d’Auge e di Cidrolin, questione sulla quale i commentatori di Queneau ancor oggi continuano a discutere.”

Ma in quei piccoli fiori dal colore del cielo ci sono metafore, o, per meglio dire, ricordi, citazioni, di altro. Una fonte ineludibile, che anche Calvino ricorda, è il romanzo principale di Novalis[1], Enrico di Ofterdingen, che narra degli errabondi cammini del personaggio medioevale Enrico alla ricerca del fiore azzurro. Ecco l’incipit:

“I genitori erano già a letto e dormivano, 1′orologio batteva i suoi monotoni rintocchi, sulle finestre strepitanti sibilava il vento; la stanza veniva a tratti rischiarata dal bagliore lunare. Il giovane era inquieto sul suo giaciglio e si ricordava dello straniero e dei suoi racconti. «Non sono stati i tesori a risvegliare in me una brama così indicibile» disse tra sé. «Ogni avidità è lontana da me: tuttavia, ardo dal desiderio di vedere il fiore azzurro. Mi viene sempre in mente e non posso cantare d’altro o pensare ad altro. Una sensazione simile non l’avevo mai provata: è come se ne avessi sognato una volta, o mi fossi assopito in un altro mondo. Infatti, nel mondo in cui vivo abitualmente, chi si preoccuperebbe dei fiori? E del resto non ho mai sentito parlare di una passione così strana per un fiore….»”
Ed ecco il passaggio centrale in originale:
“Der Jüngling lag unruhig auf seinem Lager, und gedachte des Fremden und seiner Erzählungen. «Nicht die Schätze sind es, die ein so unaussprechliches Verlangen in mir geweckt haben», sagte er zu sich selbst; «fern ab liegt mir alle Habsucht: aber die blaue Blume sehn’ ich mich zu erblicken. Sie liegt mir unaufhörlich im Sinn, und ich kann nichts anderes dichten und denken.”[2]

Qui il fiore azzurro assume valenze simboliche molto generali. È, così si dice, il “simbolo dei simboli”, il viaggio di Enrico è il viaggio dell’iniziazione alla Menschenwerdung, al diventare uomo, il fiore azzurro è il simbolo dell’esperienza umana per eccellenza, la presenza della simbologia alchemica è molto forte. Al qual proposito ecco la coda della ballata:

Carl Gustav Jung, nel secondo capitolo di Psicologia e alchimia, riporta molto sinteticamente, commentandoli, un certo numero di sogni (sognati da “un giovane di cultura scientifica”), contenenti “immagini di natura archetipica che si presentano in sogno e che descrivono il processo di centratura ovvero di formazione di un nuovo centro della personalità” (ediz. Bollati Boringhieri 1998, p. 45); ecco la descrizione e parte del commento del sogno n. 17 (ibid. p. 83):

“Dopo un lungo vagabondare, il sognatore trova sulla strada un fiore azzurro. Il vagabondare è un vagare per strade senza meta, e per questa ragione è anche una ricerca e una trasformazione: ed ecco che lungo la strada, involontariamente, il sognatore s’imbatte in un fiore azzurro, accidentale figlio della natura, ricordo amabile di un’epoca lirica e romantica, nato in una stagione in cui la visione scientifica del mondo non si era ancora dolorosamente scissa dal mondo dell’esperienza reale, o meglio, quando questa scissione era appena agli inizi e lo sguardo era rivolto all’indietro, a quello che già si presentava come passato.
Il fiore è di fatto come un accenno amichevole, un numen dell’inconscio, che mostra a chi è stato privato della via sicura e dell’appartenenza a ciò che per gli uomini significa salvezza, il luogo e il momento in cui egli può incontrare fratelli e amici in spirito, e trovare quel germe che vorrebbe veder sviluppato anche in se stesso. Ma per il momento il sognatore non ha nemmeno una lontana intuizione dell’oro solare che connette il fiore innocente ai riprovevoli misteri dell’alchimia e alla blasfema idea pagana della solificatio [l’iniziando viene incoronato in quanto Elio – Sole, n.d.r.]. Il «fiore d’oro dell’alchimia» è infatti a volte anche un fiore «azzurro», il «fiore di zaffiro dell’ermafrodito».”

Questo accenno di Jung a “una stagione in cui la visione scientifica del mondo non si era ancora dolorosamente scissa dal mondo dell’esperienza reale”, scritto nei primi anni quaranta del secolo scorso, è interessante assai e mi offre su un piatto d’argento l’occasione di un commento. Forse sembra una strana affermazione, eppure esprime la prima sgradevole sensazione che sperimenta un profano avvicinandosi alla scienza contemporanea.

Occorre purtroppo considerare questo elementare ragionamento: quando si vuol arrivare a descrivere fenomeni lontani dalla immediata percezione si usano appunto strumenti lontani dalla umana intuizione; intuizione che si forma nella nostra primissima infanzia su esperienze macroscopiche, i bambinelli non giocano con elettroni e quarki. È insensato per uno scienziato immaginarsi un elettrone (che è molto lontano da una immediata percezione) come un pianetino che gira intorno al nucleo-sole, perché in questo modo viene fuori un modello che fa acqua da tutte le parti; anche se naturalmente è una tentazione irresistibile, cosa si vuol mai che sia un elettrone, un pezzettino di materia, piccolo quanto si vuole, che dovrà pur muoversi in qualche modo, no? No. Per la fisica del Novecento maturo no.
La breccia verso la fisica quantistica s’aprì definitivamente quando Werner Heisenberg nel 1925 decretò che il concetto di orbita era insensato perché non misurabile e che solo di ciò che è misurabile si può parlare. Chi vuole può ricordarsi che nei primissimi anni venti era uscito il Tractatus di Wittgenstein, con la sua conclusiva e tagliente proposizione numero 7.

Jung nasce nel 1875, la generazione di Rilke, di Thomas Mann e di Ravel, quattro anni più vecchio di Einstein, troppo presto per gli sbarellamenti della fisica contemporanea (troppo arditi anche per Einstein, che mai li accettò), che, come dice Jung, “scinde la visione scientifica dall’esperienza reale”.
L’accordo finale della ballata sarà allora questa provocazione assai azzardata, sulla quale meditare: c’era forse una bella consonanza, in pieno Ottocento, tra anima romantica e visione positivistica del mondo. Il meccanicismo era talmente umano!

[1] Novalis è lo pseudonimo (dal latino “campo che si dissoda per la prima volta”) che si scelse
Georg Friedrich Philipp Freiherr [= barone] von Hardenberg (Oberwiederstedt, 1772 – Weißenfels, 1801), uno dei grandi ispiratori e iniziatori del movimento romantico in Europa.

[2] riporto l’originale perché è una delle prime volte in cui viene lanciato il verbo sich sehnen, tendere a (Sehne è la corda tesa, e anche il tendine), bramare, desiderare ardentemente, tipico del primo spirito romantico, dal quale il sostantivo Sehnsucht, desiderio ardente, ma anche tensione, anelito, struggimento, nostalgia, vero marchio di un’epoca.

Antonio Sparzani, Ballata del fiore azzurroultima modifica: 2008-05-30T17:45:00+02:00da mangano1
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