Francesco Lamendola, Sacro e quotidiano in BIAGIO MARIN

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Le dimensioni del sacro e del ricordo s’intrecciano al quotidiano nella poesia di Biagio Marin

di Francesco Lamendola – 27/06/2008

Fonte: Arianna Editrice

Làsseme el sogno:
pan de pura farina,
la fiama viva in cusina,
l’ogio d’uliva pronto a ogni bisogno.

Làsseme un fior de siel, de puisia,
el viso zentilin de la Madona,
e la caressa de gno nona
cussi lisiera su la testa mia

Anche i nuòli vagabundi,
che il sielo se li beve:
e me co’ eli con un sorso breve
nostro alelugia e nostro deprofundi.

Traduzione di Giovanni battista Pighi e Edda Serra (da: Biagio Marin, Nel silenzio più teso, Rizzoli, Milano, 1980, 1981, pp. 60-61):

Lasciami il sogno:
pane di pura farina,
la fiamma viva in cucina
l’olio d’oliva pronto a ogni bisogno.

Lasciami un fiore di cielo, di poesia,
il viso gentilino della Madonna,
e la carezza di mia nonna
così leggera sulla testa mia.

Anche i nuvoli vagabondi,
che il cielo se li beve,
e me con essi, con un sorso breve,
nostro alleluia e nostro deprofundis.

Con questi versi limpidi, di una bellezza semplice e struggente, si apre la raccolta Pan de pura farina, di uno dei più grandi poeti del Novecento: Biagio Marin (1891-1985).
Pochi lo conoscono in Italia, e pochissimi all’estero. Il motivo è che egli, in tutta la sua lunga vita, si è sempre mantenuto fedele alla lingua della sua terra: il dialetto dell’isola di Grado, posta nelle lagune del basso Friuli, a breve distanza dalla romana Aquileia. E, nell’epoca dei grandi numeri, come può raggiungere risonanza mondiale un poeta che scrive i suoi versi in un idioma arcaico, parlato e compreso da pochissime migliaia di persone? Se Biagio Marin avesse scelto l’italiano; se un Biagio Marin fosse nato in Francia o in Gran Bretagna, oggi tutti conoscerebbero il suo nome e avrebbero letto almeno qualche sua pagina.
Ma il poeta gradese non avrebbe mai potuto fare una scelta linguistica diversa. Egli ha voluto essere, ed è stato, non solo il cantore, ma il custode delle antichissime tradizioni della sua gente: gente marinara, abituata a vedere il mondo nell’incerto confine tra cielo e mare; ora corrucciati e carichi di pioggia, ora dolcemente distesi al sole estivo, nella pace della natura. Dalla prima raccolta I canti de l’isola, del 1951, fino all’ultima, La vose de la sera (1985), sempre egli è stato fedele al suo dialetto, sempre ne ha fatto una bandiera di fierezza contro i meccanismi alienanti della massificazione e dell’omologazione culturale. Tra l’una e l’altra, si snoda una serie di perle poetiche cantate con voce sommessa, sul filo del ricordo e dell’elegia, per celebrare le gioie, i dolori e la gratitudine verso la vita; e, soprattutto, per custodire la memoria della sua terra, per erigerle un monumento che il tempo non possa cancellare come fa la marea con i castelli di sabbia costruiti dai bambini sulla spiaggia del mare: Dopo la longa istae (1951), Elegie istriane (1963), El mar de l’eterno (1967), Al sol calào (1974), Pan de pura farina (1976), Stele cagiúe (1977), In memoria (1978), Nel silenzio più teso (1980).
In un paesaggio che è, ad un tempo, magico e quotidiano, arcano nelle sue pieghe misteriose e trasparente nella sua concreta, disarmata limpidezza, Biagio Marin ha combattuto e vinto la battaglia montaliana contro l’oblio della memoria, contro il pozzo oscuro della dimenticanza, restituendo al sole e alla vita i ricordi più cari, i profumi dell’infanzia, lo sguardo stupito che si apre sul mondo come per la prima volta. Ne è un esempio, nella poesia Làsseme el sogno, quel gesto dolcissimo della nonna che carezza lievemente la testa del nipotino, e che sembra fare da pendant a quell’altro, soave sorriso femminile: quello di una Madonnina dipinta o, forse, scolpita, molto probabilmente proveniente dal vicino Santuario dell’isola di Barbana, del quale i Gradesi (come tutti gli abitanti delle lagune) sono devotissimi frequentatori.
E poi quegli oggetti umili, della vita di ogni giorno, ma utili e necessari, come l’olio d’oliva; quella fiamma viva che arde in cucina, simbolo del mistero e dello splendore della famiglia, dei suoi affetti, della sua coesione; e – non ultima – la dimensione del sogno. Il poeta ha bisogno di sognare, come gli uomini ne hanno della farina per impastare il pane. Poesia è quel fiore di cielo, che si apre come uno squarcio d’infinita bellezza nel cuore della vita di ogni giorno; poesia sono quei nuvoli vagabondi che il cielo si beve, con un sorso breve, insieme al poeta che li contempla: immagine in cui non sai se ammirare di più la felicità inventiva e leggera nell’uso della parola, che si carica di mille echi e di mille aurorali risonanze, oppure la capacità quasi pittorica di trasfondere un paesaggio esteriore in uno interiore, un gentile acquerello in uno stato d’animo, in una dimensione dello spirito pacificata e senza tempo.
Non potremmo dire anche “senza rimpianti”, perché il rimpianto c’è, ed è sotteso a tutto il discorso poetico di Biagio Marin. Il tempo che fugge, l’infanzia che si allontana con i volti e i gesti delle persone care; un mondo intero che si avvia a scomparire: un piccolo grande mondo isolano che si avvia al suo destino inevitabile di perdita delle radici e della propria memoria.

Ha scritto Augusto C. Marocco, a proposito del rapporto fra Marin e la sua gente e della sua concezione della poesia, come strumento della parola rivolta al mondo da una minuscola, dimenticata comunità, nel suo libro Grado. Guida per vedere e conoscere (Edizioni Lint, Trieste, 1988, pp. 77-80):

…Ma dall’opera di Biagio Marin ci viene un insegnamento grande, che egli ha destinato in particolare alla gente di Grado chiamandola a reagire di fronte alla sua anima spalancata senza riserve. Tante volte è capitato che lamentasse il silenzio, l’inespressività mentre la sua esistenza consisteva nel donare a tutti la parola anche a costo di sofferti esempi di vita. La parola, va detto e precisato, non buttata lì e offesa come carta straccia quasi fosse una buccia per qualunque contenuto, ma eletta ad impegno in tutto il suo valore morale e ontologico, come la parola nei testi sacri e nella poesia che, come lui fermamente credeva, viene dal divino. L’uomo che non h questa parola, che non la sente nella propria coscienza e non risponde all’imperio spirituale che promana, ha anche perso l’identità primigenia. Una parola creduta che non sopporta mediazioni o traduzione ed è sempre sé stessa, con lo stesso suono e lo stesso significato nel cervello, nel cuore e in tutti i sensi, quando è pronunciata e quando è scritta. E il linguaggio cui dà origine, quale che sia, è allora veramente una conquista ai limiti dell’immortalità, degna degli esseri umani posti al vertice della creazione.
Se dunque Marin accettò per l’espressione più elevata un dialetto parlato da pochissime persone con il grave rischio di non essere letto da nessuno, ciò avvenne perché ebbe il merito raro di capire la sua vera parola, anche se era tra le più scarne ed emarginate, impregnata da secoli di isolazione, da lui bambino udita come una musica privata dai vecchi pescatori nell’osteria del suo papà, anema e cuor da màmolo, gran cantaór de storie, com’egli lo nomina memore dei racconti paterni. In effetti come avrebbe potuto distogliersene un giovane di genuina cultura, sentendosi gravato dalla responsabilità di testimoniare l’esistenza di quel mondo che allora pareva destinato a scomparire di lì a poco? (…) Come avrebbe potuto misconoscere e abbandonare la comunità degli avi rendendosi conto che Grado aveva estremo bisogno di fermare il tempo nella parola per continuare ad essere e sapendo che soltanto lui, in un paese silente tutto chiuso a guisa di paguro in madreperlacea casa, era stato toccato dalla sorte nelle qualità d’intelletto, di forza e vitalità necessarie per potervi riuscire? Forse, oggi, uno si troverebbe invogliato a impiegare queste qualità, eccezionali quando son messe insieme, per diventare un grande manager, un grosso uomo politico, per far carriera insomma; a quel tempo, invece, e poi in tutta la sua vita, Biagio Marin le impiegò per lo “strano” paese in cui era nato, dedicando totalmente sé sesso all’isola di Grado, tanto da potersi dire che solo per essa, per la poesia, è vissuto nel profondo dell’anima, pur essendo esistito e avendo lottato da par suo, non essendo isolato e non volendo esserlo, in tutte le vicende sociali del suo tempo e rispondendo sempre con orgoglio di persona. Fu il suo un coerente sacrificio quasi sacerdotale, consumato dal poeta per la sua terra, per il suo popolo, per la manciata di compaesani uniti dalla stessa lingua materna. E non si creda che gli sia arriso un successo letterario e mondano a ripagare la sua scelta monacale; anzi, dovete combattere fin quasi alla vecchiaia affinché la cultura ufficiale si accorgesse come meritava della sua opera e la consacrasse nella storia (premi e riconoscimenti, pur grandissimi, li ebbe pressoché tutti in tarda età). Ed egli ambiva al riconoscimento che gli era dovuto perché sapeva che insieme a lui sarebbe stato riconosciuto anche il suo mondo e così avrebbe potuto dire di aver raggiunto l’obiettivo vero di tutta la sua vita, cioè quello di concretare l’intento della sua risoluzione giovanile mantenendo fede alla responsabilità che si era assunto davanti a sé ed alla propria gente. Ma il nobile traguardo che si era prefissato comportava anche, e soprattutto, la solidarietà del suo popolo, la comprensione e la simpatia nell’offerta del poeta, la partecipazione dei suoi cittadini ed un comune riscatto, un prendersi in sostanza per mano senza incomprensioni. E ciò, purtroppo, non è avvenuto; o, almeno, non sempre e non in tutto. Sicuramente, non come si sarebbe dovuto. Un destino ineluttabile anche in questo, benché nel proprio intimo ciascun gradese , sia ieri che oggi, senta con chiarezza che la mente e il cuore di Biagio Marin sono esistiti per la mente e il cuore di tutti, e che il suo canto è il canti gradese per l’eternità. Diviene ora più semplice comprendere anche la natura dei difficili rapporti del poeta e la sua gente, gli slanci e il risentimento, l’amore grande e le delusioni. Egli ha sempre atteso con ansia che al suo dono, e a quanto gli costava, corrispondesse il suo popolo: sapeva che senza questa corrispondenza tutto quanto sarebbe stato invano. E ciò fu detto da lui apertamente, non a caso, nell’anno 1965 quando a 74 anni gli fu conferito il Premio Bagutta. Nella sala del Municipio temporaneamente allogato per inagibilità presso la Scuola femminile S. Scaramuzza durante la solenne cerimonia in suo onore, disse Biagio Marin: «Perché, io mi rendevo conto della difficoltà enorme per i non gradesi di accettare il mio linguaggio, di fare quello sforzo, che pure è necessario, per passare al di là dello sbarramento di un linguaggio musicato, antico, e per certi versi difficile anche ai miei concittadini. Ma io dicevo: se almeno il mio paese mi giustificasse, io sarei giustificato».
Chissà se altrove, i un altro paese o in un altro tempo, esiste una piccola comunità di uomini così amata, così fortunata ad aver avuto nella sua storia un tale figlio, come l’ha avuto l’isola di Grado. Certo, in sintesi più spregiudicata potremmo anche dire che il paese natale sia stato per Marin l’occasione, se non il pretesto, per dare forma all’Amore senza confini che da lui prorompeva. Ma in tal caso dovremmo rimarcare con forza che questo paese fu proprio il suo, quello vero, compreso il linguaggio e cioè in tutto, non un altro ideale o un’immagine idealizzata della terra natale. E ciò, a nostro avviso, sta a confermare che egli nella vita e nel canto è stato e si è sentito integrato a tutto tondo nella sua comunità storica e on ne fece in alcun caso l’oggetto di un pur rarefatto uso, neppure per un solo momento, neppure a fin di bene. Realmente egli voleva qualcosa dalla sua comunità, ma per la comunità stessa; e per la sua comunità voleva qualcosa dal mondo, dispiegando melodie assolute di ardua comprensione ai più ma di indubbia e limpidissima, inequivocabile provenienza, quella del microcosmo inconfondibile, emarginato, di una natura e di una lunga vicenda umana in agonia da riscattare, quel picolo nío (piccolo nido) da non lasciar svanire sconosciuto al consorzio umano.

E sebbene il dialetto gradese sia una varietà “antica” del veneziano, un po’ come lo era quello di tanti paesi e cittadine dell’Istria e della costa dalmata, l’isola di Grado è, nondimeno, in un angolino della terra friulana; e del fiero carattere friulano si sente una eco sia nei versi di Biagio Marin, sia nei tempestosi rapporti del poeta con i suoi compaesani.
Sfogliando un album fotografico del poeta, quel che si nota di primo acchito è quella sua caratteristica espressione imbronciata, ma non inacidita; sdegnosa, ma non sprezzante; risentita, ma per troppo amore verso la sua gente che non vuole capire, non vuole ricordare, non vuole sapere. Friulana è la chiusura testarda, sfiduciata, pessimistica, verso il mondo esterno; e friulana è anche la ruvida dolcezza e l’altrettanto testarda volontà di dialogo, di confronto, di parola.
Friulano, poi, supremamente friulano, è l’amore per la casa, il mal dal madón («il male del mattone», tipico di un popolo di emigranti), sentita non tanto come la oraziana o ariostesca (ed epicurea) parva domus in cui staccarsi dal mondo; ma, al contrario, come quel cordone ombelicale senza il quale non vi può essere alcun autentico rapporto col mondo: perché, esattamente come con la lingua, l’amatissima mari lenghe (la lingua che è madre!), non si può parlare al mondo se ci si scorda del proprio idioma natio, quello appreso succhiando il latte materno. Ed ecco perciò la casa di Biagio Marin, quella modesta villetta con la facciata rivolta al mare: quel mare che per i turisti è solo vacanza e svago, mentre per i gradesi è, o piuttosto era, duro cimento quotidiano per strappargli, a volte con pericolo, e sempre con fatica, il necessario per vivere. Ecco il glicine che forma una volta sulla piccola terrazza; ecco il vecchio pioppo (il talpon) che spande la sua ombra sul giardino: presenti, l’uno e l’altro, in tante versi del poeta. Ed ecco, all’interno, i libri, i ritratti – di Beethove, di Scipio Slataper -, e le scusse, le conchiglie, che recano un’eco della marea e paiono quasi ridestare, nei lunghi e grigi mesi invernali, il gioioso vocio della spiaggia.
Sotto questo punto di vista, il raffronto che viene subito alla monte è quello con il grande teologo e poeta David Maria Turoldo, del quale abbiamo già avuto occasione di occuparci (cfr. F. Lamendola, Un film al giorno: «Gli ultimi» di Vito Pandolfi e David Maria Turoldo, 1963, sempre consultabile sul sito di Arianna Editrice). Perché anche nella poesia di Marin, come in quella di Turoldo (e, in parte, anche nella «poesia onesta» di Umberto Saba), vi è una profonda dimensione trascendente, religiosa, che tuttavia non mortifica la realtà terrena e non fa velo alle piccole, semplici cose di ogni giorno.
Tale dimensione religiosa, anzi sacrale, traspare dalle maglie stesse del quotidiano: non si pone come realtà autonoma e distinta da quella profana, perché l’intera vita, con i suoi gesti e i suoi pensieri, ne è intimamente impregnata. Si può dire, pertanto, che nella poesia di Biagio Marin la sfera del profano è inclusa in quella del sacro: perché tutta la vita è sacra, con il prodigio dei suoi colori, dei suoi profumi, dei suoi sapori; come sono sacre alla padrona del giardino quelle rose che ella ha invitato il poeta ad ammirare, ma poi si ribella sdegnata all’idea di reciderne per lui anche solo un paio, perché ciò turberebbe l’armonia del creato, che è lode perenne al creatore:

L’ha verto el so cancelo,
la m’ha mostrao el zardin:
un merlo lento e un fringuelo
i lodeva el matin.

Tanti roseri,
fulci de rose, e ela la parona:
le rose la le deva a la Modona
in dono, vulintieri.

Volevo ‘vêne un pêr
per me de quele rose,
d’êsse distacae smaniose,
visto che feva istae sul gran roser.

Ma la parona del zardin,
la m’ha dito assassin,
e che le rose
le gera sove e so sorose.

Traduzione di G. B. Pighi e . Serra, Op. cit., pp. 88-89):

Ha aperto il cancello,
m’ha mostrato il giardino:
un merlo lento e un fringuello
lodavano il mattino.

Tanti rosai
folti di rose, e lei, la padrona,
le rose le dava alla Madonna
in dono, volentieri.

Volevo averne un paio
per me, di quelle rose
d’essere colte smaniose,
visto che faceva estate sul gran rosaio.

Ma la padrona del giardino
m’ha detto assassino
e che le rose
erano sue e sue sorelle.

Recidere le rose per offrirle alla Madonna è, dunque, un atto sacro, e perciò perfettamente giusto e naturale; mentre reciderle per proprio uso, ossia per puro capriccio, è una forma di assassinio: le rose sono vive e sono sorelle di colei che le coltiva con amore.
Crediamo che sia difficile dire di più, e di meglio, in pochi versi così brevi.
Questa, da parte di Biagio Marin, è forse la più grande lezione ai suoi lettorii. Lezione di sobrietà, di misura, quasi di pudore, nell’epoca della parola gridata e strombazzata; lezione di raccoglimento, di interiorità, di ascolto integrale.
Nel silenzio, molte sono le voci che possono giungere, benefiche, fino al centro del nostro essere.

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Francesco Lamendola, Sacro e quotidiano in BIAGIO MARINultima modifica: 2008-06-28T19:53:53+02:00da mangano1
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