Roberta Ascarelli, I serpenti di Rilke

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da il MANIFESTO 28 GIUGNO 2008

ROBERTA ASCARELLI
I SERPENTI di Rilke – I FRUTTI ACERBI DEGLI ANNI PRAGHESI

Raccolti da Guanda, i Racconti giovanili del futuro poeta, che ancora si firmava René, procedono appesantiti da effetti truculenti e inutilmente wertheriani, offrendoci un distillato vagamente «culinario» del decadentismo mitteleuropeo

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iC’è qualcosa di avventuroso e di impudico nel lavoro d’archivio, soprattutto se non sono editti, conti e proclami ad attirare sguardi e matite bene appuntite, ma le carte di un grande poeta. Spesso si arriva tardi e bisogna contentarsi di un biglietto rivelatore sfuggito ad agguerriti predecessori, felici di seguire anche solo la grafia, la ridda delle cancellature, la carta strappata, quella a buon prezzo o la eleganza di fogli signorili.
Fortunato e diligente, lo studioso di Rainer Maria Rilke, August Stahl ha avuto la rara fortuna di portare alla luce un numero rispettabile di inediti. «Con un lavoro certosino» – afferma senza rimpianti – è riuscito a ricostruire tra i manoscritti conservati a Gernsbach nel Rilke-Archiv un libro che non c’è, la raccolta di novelle titolata Was toben die Heiden, ovvero La follia dei pagani, un volume progettato e promesso nel 1896 che non verrà mai pubblicato, come altre spoglie che fanno parte della tessitura fitta e insoddisfacente della produzione di quegli anni, quando l’autore, ancora praghese, frequentava l’università, si travestiva da esteta e si cimentava in tentativi che non facevano pronosticare gran che di buono: era, in fondo, un giovane di provincia che voleva disperatamente farsi poeta.
Con il piacere della simmetria
Da questi anni di apprendistato, quando ancora il poeta si firmava René, giungono gran parte dei racconti proposti da August Stahl e da Hella Sieber-Rilke che ne hanno fatto un libro ora edito in Italia da Guanda con il titolo Serpenti d’argento. Racconti giovanili, per la bella traduzione di Nicoletta Dacrema che, per nulla intimidita dalla grandezza del poeta maturo, lo asseconda con docile intelligenza nelle contorsioni dello sperimentalismo giovanile e nella routinaria citazione di temi del fine secolo austriaco e dell’Ottocento francese. Accanto ai «ritrovamenti» accuratamente ordinati, Stahl colloca altri racconti scritti attorno alla metà degli anni Novanta e scelti con il piacere della simmetria. Troviamo inediti scoperti da poco dalla studiosa milanese Moira Paleari e pubblicati nel 2000, e le pagine che l’autore accoglie non senza riluttanza nel volume di scritti giovanili. Testi, questi, già noti al lettore italiano che li ha incontrati in svariati tomi, a partire dai Racconti giovanili, curati da Giorgio Zampa nel 1950 per Bompiani (ad esempio in Wladimir il pittore e di nuvole e altri racconti, schizzi e considerazioni degli anni 1893-1904, del 1987; Danze macabre: racconti giovanili del 1991, I racconti, 1993, L’uccisore del drago e altri racconti della giovinezza, 1996; La felicità bianca e altri racconti, 1997).
Il caso editoriale rappresentato da questi volumi diventa interessante se si considera che offrono una prova piuttosto acerba del futuro grande poeta: la prosa affannata da effetti a volte fin troppo marcati, un uso ingenuo della ripetizione, la sintassi che potrebbe temere le correzioni di un maestro a sostenere temi sentimentali e lievemente trasgressivi; peraltro costruiti, spesso, con una certa ingenuità e con la prevalenza di atmosfere fosche, dall’effetto sicuro. Per la maggior parte si tratta di novelle scritte nella Praga dove Rilke era vissuto e dalla quale era fuggito, come gran parte dei poeti boemi, dopo un periodo oscuro al quale Peter Demetz ha dedicato, nel 1953, uno studio fondamentale, René Rilkes Prager Jahre (Gli anni praghesi di René Rilke).
Forse Martin Heidegger era troppo severo quando affermava che «la parte valida dell’opera di Rilke si riduce, dopo una paziente raccolta, ai due smilzi volumi delle Elegie duinesi e dei Sonetti a Orfeo»; di certo, però, sono molte le cadute di stile che Rilke sconta prima di diventare maestro di immagini e di trasfigurazioni: doveva essere stato grande, anche per lui, «lo sforzo del seme» di cui parla il disgraziato protagonista di una delle sue novelle appena successiva, Re Bohusch, costretto a lottare «contro le dure zolle insensibili per conquistare la sua estate».
Rilke non era stato certo un genio precoce come, per esempio, Hugo von Hofmannsthal che, a sedici anni, scriveva versi di perfetta fattura. Solo lentamente si era formato nei viaggi, negli incontri e nello stupore, lontano da Praga, dalla manipolatoria indifferenza materna e dall’oppressivo nazionalismo piccolo borghese della comunità tedesca. Introducendo la prima edizione italiana dei Racconti giovanili, Giorgio Zampa poteva scrivere senza timidezza: «il terzo astro della costellazione poetica tedesca del secolo, in un ambiente provinciale, lo sguardo volto a modelli mediocri o superati, passa da un tentativo all’altro, in una ricerca che solo un miracolo di volontà avrebbe potuto menare a buon fine».
Una eredità compromessa
Giunto alla sua maturità di narratore con I quaderni di Malte Laurids Brigge, Rilke mostrò verso le prime opere in prosa una disaffezione quasi totale. Al redattore della sua casa editrice aveva scritto nel 1921: «mi fa davvero male vedere il ‘giovane Rilke’ così ‘scoperto’… Se solo tutto ciò fosse andato perduto per sempre! Questo lavori possono contribuire soltanto a falsare il vero e costituiscono un punto di partenza sbagliato per la parabola ascendente dell’opera».
Il suo desiderio sarebbe stato – come conferma Paul Leppin, compagno di avventure praghesi – quello di eliminare dal mercato i primi libri, così da consegnare ai posteri la sua eredità liberata da quelle origini spesso tanto esili far tremare il loro autore. «Non voglio sapere nulla del tempo che viene prima di te nei miei giorni, né degli uomini che li popolano» scriveva nel 1897 a Lou Andreas-Salomé che lo stava avvicinando a Nietzsche, alla Germania e alle arti figurative.
Allo stesso modo, ripudiò le poesie di Offerta ai lari e di Vita e canti, i primi volumi di novelle e le Due storie praghesi, che pure hanno sempre trovato lettori benevoli, licenziando le quali, già nel febbraio del 1899, aveva affermato: «Questo libro non è altro che passato… Oggi non l’avrei scritto così, vale a dire che non lo avrei scritto affatto». In spregio a tanta presa di distanza Rilke lasciò comunque che la sua casa editrice pubblicasse, negli anni Venti, una scelta di novelle e le accompagnò con una poesia ironica per lettori indiscreti e per critici ingordi: «Voi portaste le esegesi/ A cui il nuovo lume è generato. Vorrei dire: non sono stato io./ Dunque chi è stato?».
Come scrive a Stefan Zweig, sono opere buone per «i curiosi e gli acquirenti», un pubblico non disprezzabile al quale offrire premonizioni della maturità e testimonianze del suo duro lavoro. Quel che voleva fosse evidente, comunque, è la distanza di questi racconti – debitori alle mode e ai modi della prima avanguardia – dalla maestrìa visionaria della maturità. E non aveva dubbi sul fatto che quei disprezzati testi giovanili dimostrassero più di qualsiasi altra sua opera un progresso entusiasmante.
Ma come avrebbe reagito Rilke se, accanto a queste prose, avesse visto stampate anche le pagine che aveva preferito lasciare nel cassetto? Per di più non soltanto nella sua lingua, ma anche in traduzione, e dunque non solo a uso dei germanisti, ma di tutti coloro che amano la letteratura del fine secolo austriaca o la Praga magica fantasticata da Angelo Maria Ripellino. In particolare in Italia, saranno in molti ad avere accolto con partecipazione quella rinnovata offerta di opere a firma di Rilke, che è andata a integrare i volumi di Poesie curati da Giuliano Baioni nel 1994: sono le raffinate edizioni di Passigli, di Pendragon, di Baldini & Castoldi, di Acquaviva delle fonti, di Feltrinelli; e si va dalla poesia alla prosa, agli scritti teorici, alle lettere – libri belli e non facili che hanno una loro onorevole collocazione tra i capolavori dell’ultimo secolo.
Tra cumuli di dettagli
L’appassionato lettore di Rilke potrà cercare nei testi ripudiati interpretazioni originali, scintille di genialità e anticipazioni, arricciare a volte il naso per soluzioni troppo facili o gustare l’uso particolare del realismo che rappresenta l’aspetto più interessante di questi testi. Gli riuscirà di capire meglio, forse, quanto scriveva Demetz, ossia che «Rilke a Praga si difese dietro una massiccia produzione volutamente naturalistica». Lontano da quelli che sarebbero stati i percorsi della sua scrittura, si districava tra cumuli di particolari che, inseguendo una resa quasi fotografica, finivano per costruire una trama indipendente dal racconto, dalla vicenda e anche dalla percezione abituale delle cose concrete. Del resto, Rilke non si limitava a godere della propria sensibilità, affetta da aspetti morbosi e sdolcinature, ma sapeva lasciare, qui come nelle liriche dei Neue Gedichte, spazio agli oggetti osservati che assumono una loro inquieta e depistante autonomia.
Ma chi è meno affezionato alla sua scrittura cosa troverà nei racconti di Serpenti d’argento? «Il fiume in piena dell’amore» diceva con una punta di esagerazione Hünich, il primo curatore dei testi giovanili di Rilke, per etichettare queste storie semplici e tragiche, spesso appesantite da effetti truculenti e inutilmente wertheriani, raccontate con emozione ben dosata, nelle quali amore, morte, turbamento religioso, tristezze infantili dominano incontrastate a regalarci squarci di esperienza e un distillato un po’ «culinario» del decadentismo mitteleuropeo.

Ci sono vicende di artista che ricalcano i grovigli di Schnitzler e del giovane Mann, e ci sono invece i miseri, le donne deluse e tradite, le marionette, i poveri mendichi, i personaggi marginali nella metropoli che erano stati centrali nella ricerca naturalistica. Appaiono i bambini, molti bambini: quell’infanzia turbata che attraversa le pagine di Zweig e Salten e che qui si salva dal nichilismo e dalla corruzione di tempi insicuri solo in una ostinata solitudine o nella morte.
L’infanzia, dunque, come fonte, ancora torbida, di poesia: questo insegna Rilke nel 1903 a Franz Xaver Kappus: «Tentate di riattivare le sensazioni sommerse del vostro passato; la vostra personalità si confermerà, la vostra solitudine si amplierà e diverrà una dimora avvolta in un lume di crepuscolo oltre cui passa lontano il rumore degli altri». Sono le soggettività minacciate nella vita invidiata, la tristezza che incombe, i sogni infantili destinati a incagliarsi in un Natale o in un vestito da sposa. Hanno ancora hanno lo sguardo verso l’esterno i suoi personaggi: cercano dal mondo consolazione e salvezza e non confidano nel potere salvifico del dolore. E Rilke si sofferma morboso su una emancipazione che non ha ancora incontrato il mito e che si perde nella banalità del quotidiano; narra questa pochezza e questa disillusione con un linguaggio che tende ad appropriarsi delle immagini e della melodia, ancora con evidente fatica, tartassando metafore e sintassi, ma a volte con risultati appassionanti. E poi c’è la tristezza, le intuizioni arrovellate, il desiderio di «non sprecare il dolore» ma di trovarvi – scriverà nella Nona elegia duinese – «luogo, insediamento, suolo/deposito, dimora». I suoi personaggi, ancora acerbi, sprecano molto: non il dolore ma la vita, non la solitudine, ma le possibilità di amare e di essere amati.

Roberta Ascarelli, I serpenti di Rilkeultima modifica: 2008-06-30T17:19:13+02:00da mangano1
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