Barbara Spinelli,Sergio Romano Legalità e altro

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arbara spinelli

Legittimità e legalità

la stampa 29 giugno

Se, come ha scritto Carlo Federico Grosso su questo giornale, «il barometro
della legalità in Italia segna tempesta», vuol dire che qualcosa di grave sta
succedendo, nel governo e nella coscienza dei cittadini: qualcosa che guasta
il rapporto che ambedue hanno con il diritto e la giustizia, che li rende
indifferenti alle continue capricciose riscritture di leggi e competenze.
Qualcosa che inquina non solo il nostro rapporto con la democrazia ma
anche la domanda, diffusa, di stabilità e sicurezza delle istituzioni. Piano
piano ci stiamo abituando all’idea, ingannevole, che un governo durevole con
vasta maggioranza sia sinonimo di stabilità. Che un esecutivo capace di
decidere (o decisionista) sia possibile solo indebolendo istituzioni e fonti di
diritto altrettanto centrali per lo Stato (Csm, magistratura).

Ma soprattutto, ci stiamo abituando a un’idea scivolosa: che sopra la legalità
e separata da essa possa sussistere una categoria superiore: la legittimità.
La legittimità non trarrebbe la sua forza da leggi preesistenti, che
prescindono da sconquassi contingenti. Essa poggerebbe su una sorta di
consacrazione extralegale, che consente di accentrare in una persona o in
un unico corpo i poteri di far legge. Grosso evoca le tappe di Berlusconi su
questa strada. La prima consiste nel dire che «quando incombono grandi
emergenze, rispettare la legge diventa opinabile» (discorso sui rifiuti a
Napoli). La seconda, più grave, consiste nel dire che «quando un Governo ha
ricevuto un mandato forte dagli elettori e governa direttamente in nome del
popolo, ha diritto di gestire il potere senza intralci o impedimenti», lasciando
«poco spazio ai controlli in corso d’opera».

L’idea che sussista una legittimità preminente sulla legalità non è tuttavia una
novità e neppure è tirannide classica. È una malattia della democrazia, una
sua estremizzazione: è quel che le accade quando il peso del potere
(esecutivo o legislativo) non è corretto da contrappesi egualmente autonomi,
forti (da un sistema di check and balance). È un’escrescenza democratica
basata su convinzioni sbadate: che il liberalismo sia un prodotto della
democrazia e non una sua premessa (un prius, dice Sartori). Che la rule of
law nasca con la democrazia anziché precederla. L’unzione del capo può
discendere da Dio, da antiche dinastie. Può anche esser democratica e in tal
caso chi unge è il popolo liberato dal tiranno, è la «volontà generale»
teorizzata nella Rivoluzione francese (non è molto diverso nell’Antico
Testamento: la legittimità d’Israele unge tutto un popolo
nell’esodo-liberazione).
Lo Stato democratico unto dalla volontà popolare rischia l’assolutismo non
meno dei re antichi: Carl Schmitt descrivendo Weimar lo chiamava Stato
legislativo parlamentare e lo riteneva rovinoso perché contrapposto allo Stato
giurisdizionale e al suo «durevole, generale» imperio della legge. In una
democrazia siffatta il popolo è un’entità non eterogenea ma omogenea,
monolitica, e in quanto tale conferisce al principe il diritto esclusivo di
legiferare. La maggioranza parlamentare pretende di coincidere con tale
popolo indifferenziato ed è in suo nome che il legislatore reclama il
monopolio sulla legalità.
Minoranze, opposizioni, autorità di garanzia e regolamentazione sono
d’intralcio coi loro «controlli in corso d’opera», e la democrazia sfocia
nell’autoritarismo. Quel che per strada si perde è la liberale separazione dei
poteri: la persuasione di Montesquieu secondo cui «perché non si possa
abusare del potere, bisogna che il potere freni il potere». Se Luigi XIV diceva
«lo Stato sono io», Berlusconi democraticamente dice: io, unto dal démos,
sono la Legge. Berlusconi è figlio della Rivoluzione francese, non del
liberalismo e di Montesquieu. I motivi che spingono a estremizzare la
democrazia possono essere molti. Schmitt ricorda che chi monopolizza la
legalità e mette in concorrenza il legittimo col legale invoca generalmente
«concetti indeterminati» come sicurezza e ordine pubblico, pericoli nazionali
e stati di necessità, emergenze, interessi vitali e infine guerre.

Anche lo «spirito di conciliazione» tra governo e opposizione viene invocato
in tempi di torbidi, usando la chimera del popolo uniforme e buono per
corrompere la democrazia esasperandola. La corrompe a tal punto che lo
scopo spesso viene mancato. Infrangere rule of law e separazione dei poteri
non dà più sicurezza, ma riduce il senso del dovere degli italiani. Non dà più
pace civile, perché acuisce le tensioni e perché l’immunità per le alte cariche
non rende queste ultime più autorevoli. All’origine di simili distorsioni c’è il
convincimento che il mandato popolare sia tutto, e chi l’incarna sia legibus
solutus: sciolto da leggi, immune da sanzioni. Che sia esso stesso la legge, la
legge del più forte.

Che il mandato conferisca non solo speciali diritti ma un premio
supplementare di legittimità al legislatore e all’esecutivo. «In una democrazia
legge è la volontà del popolo così come questo si presenta, cioè
praticamente la volontà della momentanea maggioranza dei cittadini che
hanno diritto di voto: lex est, quod populus iubet» (è legge quel che ordina il
popolo – Schmitt, Legalità e legittimità, 1932): «Il 51 per cento dei voti popolari
dà la maggioranza in Parlamento; il 51 per cento dei voti parlamentari dà il
diritto e la legalità; il 51 per cento di fiducia del parlamento al governo dà il
governo parlamentare legale».

Tale è la democrazia senza imperio della legge: un male ricorrente da secoli,
cui le sinistre non sono affatto estranee. La linea di separazione non è infatti
fra destra e sinistra, né fra democratici e antidemocratici, ma fra democrazia
liberale e estremismo democratico: per la prima la questione centrale è come
si esercitano i poteri per evitarne gli abusi, mentre per l’estremismo
democratico la cosa cruciale è chi li esercita. Quando non è contaminata
dallo Stato giurisdizionale, la democrazia scivola nella tirannide e
riconoscerlo è difficile non solo a destra. Figlia del democraticismo giacobino,
la sinistra non sempre è attrezzata per il dilemma legalità-legittimità, e per far
proprio quel che scrisse Bobbio nell’84: «Lo Stato liberale è il presupposto
non solo storico ma giuridico dello Stato democratico».

La preminenza data alla legittimità delle maggioranze è una tentazione
costante, così come costante è l’appello alle emergenze nazionali.
L’ininterrotta guerra al terrorismo ha spinto Bush a sprezzare le convenzioni
di Ginevra su tortura e prigionieri di guerra. Ma lo stesso avvenne per motivi
nobili con De Gaulle, che due volte mise in primo piano la legittimità. Prima
nel 1940, quando da Londra denunciò – in nome della Resistenza – la legalità
di Pétain. Poi nel 1958, quando impose una nuova Costituzione per
sormontare l’immobilizzante partitocrazia della Quarta Repubblica. Il passato
antifascista lo aiutò a tacitare chi lo accusò, nel ’58, di golpismo.

L’esempio di De Gaulle è importante perché dimostra la natura anfibia (nobile
o pericolosa) del concetto di legittimità. Ci si riferisce a essa anche per il
diritto alla resistenza. Anche Antigone contrappone la propria legittimità al
legalismo del re Creonte. Non è per pignoleria che occorre approfondire il
dilemma legalità-legittimità. Proprio perché l’Italia ha bisogno di una
discontinuità che finalmente dia allo Stato l’autorevolezza che non ha, urgono
concetti non manomessi, chiari. Proprio perché i torbidi esistono, urge al
tempo stesso aver memoria e accortezza nell’azione.

La memoria conferma che le più grandi catastrofi storiche son spesso
costruite su cose mal pensate. L’accortezza insegna che le rotture possono
esser benefiche (fu il caso di De Gaulle) ma a una condizione: che rompendo
non si curi il male con dosi ancora più massicce del male di ieri
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sergio romano

La lettera del giorno |Martedi’ 1 Luglio 2008
I TRE POTERI DELLO STATO E QUELLO DEI PROCURATORI
La nuova battaglia campale intrapresa dal capo del governo contro i giudici
«sovversivi», e la controffensiva di questi ultimi per mezzo di esternazioni,
appelli al presidente della Repubblica e prese di posizione sindacali, fa
pensare a uno scontro molto politico fra due poteri dello Stato: esecutivo
contro giudiziario. Ma è poi vero che i giudici, comunemente denominati
«terzo potere», sono effettivamente tali? O il loro non è piuttosto un ordine
(come a suo tempo, proprio sul Corriere, sosteneva il presidente della Corte
Costituzionale Vincenzo Caianiello)? Sbaglio allora nel ritenere, da antico
lettore di Montesquieu, che un potere dello Stato per essere tale debba
essere sanzionato da un voto popolare, mentre a un ordine spetta di
esercitare semplicemente una funzione amministrativa? Perché se è così, le
esternazioni politiche di tanti magistrati dovremmo giudicarle francamente
inquietanti.

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Montesquieu, saggista politico e attento ai pericoli rappresentati dal
dispotismo e dalla perdita delle libertà politiche da parte dei cittadini, ha
affermato la necessità di una rigida distinzione tra i poteri legislativo,
esecutivo e giudiziario. Per quale motivo negli ultimi tempi il potere legislativo
(o politico) dovrebbe venire meno a ciò che diceva Montesquieu nel lontano
1748 e che ha regolato per diversi secoli la vita sociale nelle democrazie?

Paolo Maniscalco e Giberto Gnisci,

Cari lettori,
Montesquieu è un affascinante pensatore politico, molto citato nelle
discussioni sulla forma dello Stato, non soltanto in Italia. Ma la tripartizione e
la separazione dei poteri, con cui viene generalmente identificato, non hanno
nulla a che vedere con la maggior parte degli Stati europei dove, a differenza
di quanto accade negli Stati Uniti, l’esecutivo e il legislativo non sono
indipendenti l’uno dall’altro. L’esecutivo governa sulla base di un mandato
conferito dal Parlamento che può essere revocato all’occorrenza con un voto
di sfiducia. Le costituzioni delle democrazie parlamentari hanno escogitato
formule diverse per garantire all’esecutivo una certa stabilità. E vi sono Paesi,
come l’Italia, in cui il potere tende a concentrarsi nelle segreterie dei partiti,
piuttosto che nelle Camere. Ma il governo dipende sempre in ultima analisi
dalla volontà degli elettori. Si potrebbe sostenere quindi che esista un solo
vero potere: quello del popolo, esercitato per delega dal Parlamento. E la
magistratura? Ricordo bene il caso Caianiello. Risale al marzo del 2002
quando l’ex procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli accusò il
ministro degli Interni Claudio Scajola di avere tolto le scorte «proprio a quei
magistrati che sostengono l’accusa contro il presidente del Consiglio». Si
parlò allora di «conflitto fra poteri dello Stato ». Intervistato dal Corriere del 7
marzo, Vincenzo Caianiello, ex presidente della Corte costituzionale ed ex
ministro della Giustizia, sostenne che l’espressione era impropria «perché
tutti hanno dimenticato che secondo il dettato costituzionale la magistratura è
un ordine, non un potere. Come l’ordine dei medici, o quello dei giornalisti.
Invece col tempo la magistratura si è trasformata in un corpo compatto, in un
potere insomma ». Il dettato costituzionale di cui parlava Caianiello è l’articolo
104 dove la magistratura è definita «un ordine autonomo indipendente da
ogni altro potere».
Credo che Caianiello avesse ragione e che la magistratura, priva di qualsiasi
legittimità popolare, diretta o indiretta, sia semplicemente un ordine. I
magistrati possono invocare l’art. 101 secondo cui «i giudici sono soggetti
soltanto alle legge». Ma qui sorgono due problemi. In primo luogo la legge
non è un insieme di norme univoche. È un «padrone» di cui il «servitore »
può interpretare gli ordini secondo la propria sensibilità e le proprie
convinzioni. Il magistrato che assolve il dipendente dell’aeroporto di
Malpensa, accusato di avere aperto i bagagli dei passeggeri, pronuncia una
sentenza contestabile che altri magistrati potrebbero rivedere in appello.
In secondo luogo, l’articolo 101 parla dei giudici, non dei magistrati inquirenti.
Preferiamo che i procuratori, a differenza di quanto accade in altri Paese, non
dipendano dal Guardasigilli. Ma è giusto equipararli ai giudici? La distinzione
fra le loro funzioni si è maggiormente accentuata con la riforma del codice di
procedura penale, alla fine degli anni Ottanta, e l’introduzione nel processo
italiano del sistema accusatorio. Da allora il pubblico ministero ha assunto un
nuovo profilo. Può servirsi della polizia (un organo tradizionalmente soggetto
al potere esecutivo) e utilizzare di fatto l’obbligatorietà dell’azione penale per
scegliere le azioni che gli sembrano maggiormente degne di essere
perseguite. Piaccia o no, è diventato col passare del tempo sempre più
diverso dal suo collega di carriera che è chiamato a scegliere, come terzo, fra
le tesi dell’accusa e quelle della difesa. Per concludere, la distinzione fra
ordine e potere, in una democrazia parlamentare, mi sembra provocare
dibattiti astratti e inconcludenti. Non avrei alcuna difficoltà a parlare di «potere
giudiziario» se i procuratori venissero separatati dai loro colleghi giudicanti
per formare una categoria separata e distinta.

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Barbara Spinelli,Sergio Romano Legalità e altroultima modifica: 2008-07-01T17:23:29+02:00da mangano1
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