Monica Bardi, L’acquario dei cattivi

49d7924adfeb6b763a845f8ec7383f8a.jpgda L’indice dei libri del mesesegnalato da Massimo Maugeri in Letteratitudine ++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++Per parlare di terrorismo italiano, di un piccolo nucleo di brigatisti meridionali, Antonella del Giudice usa la stessa prospettiva decentrata scelta da Philip Roth in Pastorale americana, in cui il sogno statunitense si rifletteva impietosamente nell’immagine di Merry, ragazza obesa e balbuziente, ex terrorista e barbona, persa nel mondo e seguace di sette esoteriche. Eppure il fenomeno italiano, nell’intreccio tra società e cultura, stili di vita e ideologia, ha i caratteri peculiari che sono stati individuati (grazie al recente interesse per quegli anni, diffuso fra storici e giornalisti) e che mostrano profonde differenze rispetto a quelli del terrorismo americano, legato alla contestazione degli anni settanta e alla guerra nel Vietnam, ma isolato anche nell’esplosione violenta e sanguinosa del movimento dei Weathermen.La prospettiva decentrata scelta dall’autrice dell’Ultima papessa (Avagliano, 2005), ora al suo secondo romanzo, risponde a quell’esigenza di stacco temporale utile a ogni bilancio e anche, forse, al tentativo di non aderire a quella “superficie rassicurante e piuttosto autoconsolatoria” dei racconti sugli anni di piombo, di cui parla Filippo La Porta nell’introduzione a un bel saggio di Demetrio Paolin, Una tragedia negata, pubblicato recentemente dalla casa editrice Il Maestrale. Analizzando una ventina di libri sugli anni settanta (i romanzi di Baliani, Culicchia, Doninelli, De Luca, Lambiase, Moresco, Villalta, i racconti in prima persona di ex terroristi come Braghetti, Morucci e Peci, le inchieste di Stajano), Paolin svolge in modo conseguente la sua tesi sulla costante rimozione della tragedia; tale negazione si esprime, a suo parere, “proibendo alcune voci, trasformando gli scenari tragici in interni di casa borghese, anestetizzando la violenza agita ed eclissando la figura del nemico”. Il romanzo di Antonella del Giudice si sottrae a questo meccanismo di rimozione proprio operando quello spostamento temporale di cui dicevamo: i membri di un nucleo armato si ritrovano dopo trent’anni, fisicamente manomessi da obesità, malattie, carcere o interventi plastici e con i loro destini disegnati da casi diversi (uno è magistrato di una qualche visibilità).Per tutti, sommersi e salvati (c’è anche l’ombra di un cadavere e quindi il sospetto, gettato su tutti e legato alla sua morte), vale come contenitore ideale l’acquario, una villetta a schiera, perfetta per una villeggiatura impiegatizia al mare oppure per una base operativa: “Un ambiente come questo è ideale per noi: mobili svedesi a buon mercato, poltroncine di midollino, cuscini ocra stinti, soprammobili casuali, un lampadario a gocce colorate ricettato da uno scarto di arredamento cittadino, un obsoleto televisore a valvole, l’antenna a cerchio, plastificato rosso, lo schermo contro il muro come un occhio in castigo”. Nell’incalzarsi di voci all’interno di un luogo chiuso (che fa pensare a una possibile trasposizione teatrale del romanzo), gli anni settanta vengono ripercorsi attraverso la ricostruzione perfetta di un sistema di valori, di relazioni strettissime e di un linguaggio interno. L’autrice riesce, nell’intrecciarsi dei dialoghi, a stare in equilibrio, tenendo lontana da un lato l’apologia dei migliori di una generazione e dall’altro il compiacimento degli integrati nel mondo.La domanda che rimane aperta è proprio quella posta da Paolin: è possibile vivere rimuovendo la tragedia? Ma la risposta va ricercata nella ricomposizione (sia pure posticcia) del nucleo originario, nel confronto fra uguali: sovrapporsi di voci in cui tutti sono obbligati a svelarsi, a gettare la maschera, a spiegare come è stato possibile, dopo la militanza e la violenza, stare nel mondo e arrivare integri a quell’appuntamento. Per tutti il senso va trovato insieme; solo il corpo del gruppo può attribuire colpe e fissare responsabilità. Questo il senso politico di un gesto offensivo sulla cui necessità tutti trovano un accordo, come viene spiegato in uno di quegli inserti in corsivo che costituiscono il sottotesto del romanzo, il flusso dei pensieri, il tentativo di riportare l’ordine nel caos dell’acquario, la luce nel buio: “–Ti tengo – sussurriamo l’uno all’altro. E ancora, a vicenda, a fil di fiato, come a proteggere il sonno d’un bambino, con tono di preghiera e panico: – Chi sei? Sei tu? – Ci rinneghiamo, divincolandoci come pesci renitenti all’amo che ci uncina per le branchie: non siamo, non fummo, non ne sappiamo nulla, non ci riguarda. Catalogarci per negazioni è la nostra estrema difesa per un’ultima offensiva”.o rm

Monica Bardi, L’acquario dei cattiviultima modifica: 2008-07-01T16:50:14+02:00da mangano1
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