Lele Rozza, Del rancore,del cinismo e della comunità

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da LeleRozzanblog, 5 maggio 2008

ALDO BONOMI IL RANCORE, feltrinelli
CARLO CARBONI, La societò cinica, feltrinelli

Due facce di una stessa medaglia: il racconto di una societa’ smarrita.
Con due intenti diversi e da due punti di vista diversi, sia “Rancore” che
“Societa’ cinica” tratteggiano un affresco abbastanza inquietante: una societa’
composta da persone stressate, preoccupate ed in difficolta’, ma soprattutto
timorose per il proprio futuro.
Il tema e’ la globalizzazione che ha tolto il terreno sotto i piedi agli interpreti
della vita contemporanea.
Nella meta’ degli anni 90 facevo il libraio (e lo studente sfaccendato) e
ricordo un testo che mi colpi’ per visionarieta’: “Il capitale lettere” in cui ci si
poneva il problema di una societa’ ipertecnica senza umanesimo. Sono
passati 10 anni e l’umanesimo diventa una delle esigenze della societa’
odierna.
Viviamo infatti una condizione di appagamento toale dei cosiddetti bisogni
primari, al punto che non la pellagra ma l’obesita’ e’ uno dei mali del secolo,
eppure il benessere non e’ percepito come sufficiente, come se mancassero
gli strumenti per decodificare la realta’. Mancano i produttori di senso.
Ciacuno di noi si muove in uno scenario in tutto e per tutto assimilabile alla
foresta, come se fossimo cacciatori raccoglitori con i suv e l’aria condizionata.
Del tutto spaesati e senza certezze, costantemente sotto attacco: stranieri,
mercati globali, mutui subprime, incertezza sul lavoro, senza pero’ tutto il
fondamentale riferimento simbolico mistico di appartenenza tipico delle tribu’,
e soprattutto con una catena relazionale cortissima, nessuna comunita’ di
riferimento.
Ho gia’ scritto del bel libro di Luc Ferry che individuava nella famiglia un
possibile antidoto a questa costante ansia, e leggeva la crescita della scelta
di costruirne una basata sull’amore come una esigenza per combattere
questo spaesamento.
Potrebbe essere intesa come una lettura consolatoria o semplificatrice,
certamente analizza un problema reale, certamente si sforza di fornire una
analisi credibile.
Abbiamo bisogno di trovare senso a quello che stiamo facendo, abbiamo
bisogno di radici, dobbiamo trovare un antidoto all’ansia verso l’ignoto
nell’era dei voli low cost e della tariffa flat.
Bonomi indaga il significato di un voto, Carboni il significato di un
atteggiamento, in entrambi i casi lo sfondo e’ la societa’ “del rischio”
magistralmente tratteggiata da U.Beck.
In “Rancore” troviamo le splendide definizioni “naufraghi del fordismo”, tutti
coloro che, terminato il sistema fabbrica, non hanno piu’ avuto riferimenti
simbolici e concettuali sui cui costruire il proprio vivere, e “forzati della
competizione”, tutti coloro che vittime di ritmi di vita veloci e fortemente
competitivi inseguono dei non obiettivi, limitati al breve periodo senza il
respiro necessario a giustificare, a fondo, il proprio agire. Le comunita’ (o
quello che ne resta) si sentono agite, e quindi resistono (o reagiscono). Sono
saltate le forme di coesione sociale e di narrazione comune, e’ necessario
ricostruire il patto sociale che riconsegni a ciascuno il proprio ruolo.
Paul Saffo dalle colonne di Nova 24 del 24 aprile ci parla di cono
dell’incertezza e di cono dell’possibilita’. Sedotti dalle infinite possibilita’
concesse dalla vita moderna rischiamo di trovarci in pieno dentro il cono
dell’incertezza, del tutto spaesati r senza radici solide a cui fare riferimento.
Carboni introduce una dicotomia affascinante, opponendo al labour power,
tipico della simbologia fordista, il brain power, potere della conoscenza, che
al momento non ha riferimmenti simbolici, e’ fortemente immateriale e
decisamente in divenire. E questa dinamica si sviluppa in un ambito di
decomposizione sociale. In modo quasi feroce Carboni ci prospetta una
immagine di societa’ passiva che subisce il cambiamento di valori, con una
enorme difficolta’ ad interpretare il rapporto tra individuale e collettivo, con il
soggetto fortemente depotenziato e spaesato ed un collettivo sempre piu’
distante e nemico.
Le reti si accorciano e si riduce l’ambito di operativita’ rassicurante, una volta
rappresentato dalla comunita’. La fiducia diventa merce preziosa e
scarsissima.
Parlo dei due libri in parallelo perche esistono alcune tesi di fondo. La
politica, per entrambi, risulta in forte deficit di rappresentazione e di
rappresentativita’, e sempre piu’, sul mercato della sloganistica, vince la
deriva securitaria e forcaiola che vince con i costanti richiami alla casa e alla
sicurezza come elementi interpretativi ineludibili e risolutivi i mali del mondo.
Una sorta di rincorsa all’esclusione, si alzano gli steccati necessari a tenere
fuori un nemico che prima di tutto e’ simbolico.
Va ripensato e ricostruito un centro, un centro che sia fisico, la piazza, un
centro che sia simbolico, la produzione valoriale, un luogo a cui potersi
riferire. Affermazioni che trovo in un terzo ed interessante testo: “Il senso delle
periferie” di Davide Bazzini e Matteo Puttilli, in cui a partire dall’urbanistica si
cerca di dare alcune risposte.

Davide BAZZINI, matteo PUTTILLI,Il senso delle periferie

Un concetto importante, una declinazione del capitale lettere e’ il capitale
sociale, ovvero l’insieme di relazioni che vengono utilizzate dall’individuo per
produrre e riprodurre quelle norme inclusive di legame sociale, al fine di
mantenere ed incrementare il senso di identita’ e il senso di appartenenza ad
una realta’: una realta’ che diventa locale, localizzata. Il capitale sociale
rappresenta le connessioni di rete. L’avvalersi di questo connessioni produce
scambi e rapporti di reciprocita’ che costruiscono un importante supporto alla
creazione di se’, al fine di costruire un progetto di scelta.
Progetto e scelta diventano elementi fondamentali e sostanziali, la capacita’
di progettare e la forza di scegliere stanno a valle di una rete solida che
consenta di contenere l’individuo.
Relazioni sociali e fiducia diventano il mezzo, il fine di una politica
responsabile e’ quello di mettere in atto azioni per stimolare questi elementi.
Dice Baumann: “la comunita’ incarna il tipo di mondo che non possiamo
avere, ma nel quale desidereremmo tanto vivere e che speriamo un giorno di
poter conquistare” , e ricorda Roberto Esposito (in “Liberta’ comune”
Micromega 4/94) che comunita’ deriva dal latino Communitas che a sua volta
deriva da Munus, dono, oppure obbligo nei confronti dell’altro. Una comunita’
dunque non e’ determinata da questioni di appartenenza, ma dalla volonta’ di
offrire parte di se in favore dell’altro, per un obiettivo comune. Situazione
estremamente distante dalla realta’ che vivamo tutti i giorni che ma che sta
prendendo una forma definita e strutturata sul web, luogo dove si assiste ad
una ricostruzione di legami sociali particolarmente interessanti
La questione identitaria, rappresentata da certo vetero fascismo e leghismo si
pone come strumento per riconoscersi per opposizione, e’ riconoscibile cio’
che non e’ diverso (quindi lo straniero deve essere cacciato in quanto fonte di
tutti i mali) ed ecco che si palesa in modo evidente il simbolo, fortissimo del
capro espiatorio, che assomma su di se tutti i mali e che una volta sacrificato,
purifica la comunita’. E’ evidente che questa lettura e’ semplicistica ed
insufficiente, ma e’ necessaria una posizione che sostenga una alternativa,
mentre le rincorse verso la deriva sicuritaria altro non fanno che alimentare
questo sentimento di odio sempre meno sottaciuto e sempre piu’ evidente.
E’ necessario re investire nei luoghi reali o vortuali che siano dove si possa
coltivare comunita’, dove si possa coltivare produzione di senso, dove sia
possibile trovare quella requie che consenta di accogliere il mondo
cosmopolita che siamo chiamati a godere nei prossimi anni.

Luc Ferry, Dello sradicamento

Fa parte della bellissima collana azzurra di garzanti, libri di ottima fattura a
costi molto abbordabili
La paura,ci dice Ferry, e’ un concetto che accompagna sempre piu’ tutta la
nostra vita e il nostro agire, leggendo in filigrana lo status sociale dell’uomo
europeo, egli si sente sempre piu’ sotto attacco, sia dalle forze esterne
(terroristi, cinesi che minano il mercato, stranieri che tolgono il lavoro e
minano la sicurezza) sia dalle forze interne: (lavoro precario, politica che non
da risposte).
Il senso di angoscia e senso di espropriazione rendono l’uomo
contemporaneo teso ed impaurito. I motivi di questa ansia sono oltremodo
evidenti, la globalizzazione ha tolto di mezzo molte sicurezze, la fine del
fordismo ha fatto il resto, lasciando gli individui orfani dei grandi produttori di
significato a cui accodarsi: la fabbrica, le ideologie, le religioni. Ecco che
quindi e’ la famiglia che diventa il “luogo del politico”. Fa sorridere la
potenziale riproposizione de “il personale e’ politico” di cui in questi mesi si
festeggia l’anniversario, in realta’ la vicenda e’ diversa.
Lo sradicamento (di cui parlo’ bene Simone Weil) e’ il sentimento diffuso.
Sradicamento dalla storia. Il sentimento che si pare cogliere e’ l’assenza di
un racconto dentro cui inserirsi.
Pensatori piu’ bravi di me hanno gia’ evidenziato come la fabbrica fordista e
in antitesi il falansterio e la comune, come luoghi alternativi, rappresentavano
il racconto dentro cui gli individui si inserivano.
Ciascuno stava dentro un divenire strutturato, dentro il quale si facevano
scelte, ma che vedeva una strada tracciata. A partire da una strada tracciata
sono possibili tutte le deviazioni possibili, ma era costante il ri-conoscersi
dentro questi racconti. Anche il Ribelle di Junger, il Lupo della steppa
raccontato da Herman Hesse, si riconoscevano, in una scelta estrema, si
riconoscevano per differenza, per presa di distanza da un racconto dentro cui
erano inseriti. L’estremo rifiuto e’ un gesto drammatico, anche tragico, ma un
gesto che parte da un riconoscimento e culmina in un altro ri-conoscere se
stessi in un’altra narrazione, a partire da un racconto certo e consolidato, da
cui si decide di uscire.
La societa’, per quanto oppressiva, ipocrita ed odiosa, la fabbrica per quanto
alienante e dolorosa rappresentavano un orizzonte di senso un luogo dello
spirito dove ciascun individuo trovava il suo ruolo, sia dentro che fuori, ma in
rapporto con questa costruzione.
Le fabbriche sono state smantellate, parcellizzando infinitamente la realta’
lavorativa, la societa’ si e’ aperta, e’ cambiata, per reazione dall’oppressione
ricordata da Freud e Winnicott si e’ passati al nulla, alla totale
irriconoscibilita’. Molti di noi non sono ascrivibili a categorie, perche’ il lavoro
e’ un lavoro non strutturato, perche’ le scelte abitative si devono adattare ai
costi e non tengono necessariamente conto dei legami, perche’ la societa’
sfugge di mano per l’immigrazione, per la volatilita’ dei rapporti, per l’evidente
difficolta’ a coltivare rapporti umani nella frenesia imposta dai ritmi moderni.
L’individuo finisce per trovarsi in un costante “nessun luogo” con nessuna
prospettiva certa, senza un ruolo codificato da interpretare.
Questo ingenera uno stress fortissimo. La necessita’ di inventarsi
costantemente un ruolo e’ drammatica e dolorosa, la ricerca di un rifugio e’
naturale.
In modo a mio parere condivisibile Ferry vede questo luogo rassicurante
nella famiglia. Una famiglia profondamente rifondata, al punto che l’indicatore
di sanita’ sono i frequenti divorzi. Frequenti divorzi che certificano che la
famiglia (intesa come luogo dello spirito e non come istituzione) e’ vissuta in
modo completo, una famiglia che vive di amore e che quando amore non c’e’
piu’ chiude l’esperienza. Una famiglia dunque solida, non piu’ basata
sull’ipocrisia e sull’obbligo di sopportazione da parte del femminile (tanto per
fare un esempio).
Altro elemento indicatore forte sono i figli, preziosi al punto da diventare il
fulcro del ruolo dell’adulto genitore, al punto che e’ normale pensare al
sommo sacrificio del genitore per il figlio. Cosa ormai ovvia ma per nulla
scontata, l’autore riporta molti casi in cui la sopravvivenza dei bambini era
tutt’altro che scontata e tutt’altro che ricercata.
Famiglia come rifugio di una soggettivita’ deprivata in cerca di certezze e di
requie.
Famiglia che perde tutte le caratteristiche oppressive tipiche della visione
fordista e diventa un appiglio nel mare in tempesta del mondo globalizzato.
Famiglia che erroneamente interpretata finisce per diventare una specie di
minestra riscaldata per quanti da un pulpito confessionale o dagli scranni del
parlamento inneggiano ai sacri valori, senza cogliere la rivoluzione
copernicana ormai ampiamente avvenuta.
A mio modo di vedere questa analisi e’ un buon punto da cui partire, e’
un’interessante base su cui ricominciare a pensare ad una prospettiva
politica che cerchi di scendere dallo scranno del pulpito televisivo e cominci
ad analizzare una societa’ di cui non sa piu’ nulla.

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Lele Rozza, Del rancore,del cinismo e della comunitàultima modifica: 2008-07-07T16:36:17+02:00da mangano1
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