Ferdinando Scianna, La fotografia è la mia lingua madre

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da IL MANIFESTO, 16 luglio 2008
MANUELA DE LEONARDIS, Un incontro a Roma con il grande fotografo siciliano in occasione della sua personale alla galleria Bonomo

Scianna, la fotografia è la mia lingua madre

Grande affabulatore, Ferdinando Scianna (Bagheria 1943, vive a Milano). Seduto sulla pietra antica, nel cortile del palazzo – nel cuore del ghetto ebraico di Roma – tira fuori la pipa e si concede una piacevole chiacchierata, indifferente al movimento di gente che si crea tutt’intorno. Alla galleria Valentina Bonomo (fino all’11 settembre) a parlare – stavolta – sono gli oggetti. Cose che appartengono al percorso visivo del fotografo, una sorta di album personale, a partire dalle prime fotografie scattate a Bagheria nel 1960, fino agli scatti recentissimi delle opere di Mimmo Paladino all’Ara Pacis, unico personaggio che entra in maniera diretta nelle inquadrature. «La gente mi aspetta altrove, pensa a una fotografia più narrativa; invece, ho deciso di fare una piccola passeggiata tra quegli oggetti che incrociano il fotografo nella vita e nel corso del mestiere».
Fotografare per lei vuol dire reagire a determinate immagini?
Il fotografo è uno che guarda sperando di vedere. Ogni tanto, quando gli sembra di vedere, fa il gesto terribilmente semplice di scattare la fotografia.
Terribilmente semplice per lei…
Non per me, per tutti. Chiunque abbia in mano una macchina fotografica, se schiaccia il bottone dell’otturatore, fa una fotografia. Poi possiamo accordarci se sia una fotografia buona o significativa. Anche nella cucina non è detto che tutti quelli che mettono insieme degli ingredienti producano un piatto commestibile.
Visto che ha parlato di cucina, sa cucinare?
Sì. Mia moglie sostiene che mi avrebbe mollato da un pezzo se non avessi saputo cucinare, perché alle foto non è poi così interessata, mentre mangia tutti i giorni. Diciamo che faccio il fotografo negli intervalli di tempo. Di mestiere faccio il cuoco.
Qual è il suo piatto forte?
Mi porto dietro, come nelle mie fotografie e nel resto, il fatto che vengo dal sud. Poi però ho vissuto nel nord Italia e a Parigi. Posso fare un «tonno ammuttunatu», farcito di menta e aglio e cotto in una specie estratto di pomodoro, e mangiarlo con la polenta. Le due cose vanno benissimo insieme. Anche nella fotografia si uniscono tradizioni diverse.
Le foto esposte ripercorrono i suoi esordi per arrivare alle recenti immagini delle opere di Paladino all’Ara Pacis.
Sono due percorsi paralleli, uno riguarda i miei appunti di viaggio focalizzati sugli oggetti. Non ci sono persone. L’unico che si agita qui è Mimmo Paladino, mio carissimo amico, un grande artista, ma soprattutto una meraviglia di persona. Stiamo anche facendo un libro insieme.
In mostra c’è una foto a colori, il trittico scattato in Yemen nel 1999.
Faccio il fotografo da 43 anni, non da ieri mattina. Probabilmente ho fotografato più a colori che in bianco e nero, perché il mestiere implicava che i committenti chiedessero più il colore, però ho sempre avuto una certa diffidenza nei suoi confronti. Non del colore in sé, ma della mia capacità di gestirlo. Anche per ragioni di carattere storico-tecnico: quando ho iniziato a fotografare i materiali a colori erano limitativi per sensibilità. In un certo senso li decideva la Kodak o la Fuji. Adesso, probabilmente, attraverso il controllo che si può avere con il computer si riesce a restituire il colore così come lo si sente. Faccio sempre questo esempio ovvio: a parte il fatto che parlo italiano traducendolo direttamente dal siciliano, ho vissuto per dieci anni a Parigi come corrispondente e alla fine parlavo molto bene in francese e soprattutto lo scrivevo per giornali come Le Monde Diplomatique. Ma la mia lingua è rimasta sempre l’italiano. È lo stesso per le fotografie. Credo di parlare decentemente il colore, ma la mia lingua madre resta il bianco e nero.
Che storia c’è, invece, dietro la fotografia con il televisore?
È una foto del 1960, la più vecchia tra quelle esposte. L’ho fatta a Bagheria quando era ben lontana da me l’idea di fare il fotografo. Mi piaceva l’atletica leggera e stavo vedendo le Olimpiadi. Quello è probabilmente il momento in cui Berruti sta per vincere i 200 metri. Ero lì, davanti allo schermo, ma avrei voluto essere a Roma, per cui ho fotografato il televisore. A prescindere dal racconto che c’è dietro, diventa la foto di un oggetto, il televisore con quella sua forma che visivamente si porta dietro la storia, un pezzo di tempo. È questo quello che mi incanta della fotografia. Tutte queste fotografie sono anche pezzi del mio album di famiglia. Se qualcuno vedendole si riconosce in una sua emozione, allora l’album di famiglia è comune.
L’ha raccontato centinaia di volte, ma è sempre bello ricordare i personaggi straordinari che ha avuto modo di conoscere nel tempo: Cartier-Bresson, Sciascia, Montalbán…
Borges, Cesare Brandi… Di mestiere faccio il discepolo. Sciascia è stato mio padre, mia madre, maestro, amico. Tutto quello che ho combinato di buono da un certo momento in poi lo devo a lui. Quando ero ragazzo, nella mia enciclopedica ignoranza, ho avuto intuito nel riconoscere l’eccezionalità di alcune persone che per questo non mollavo più. La mia fortuna è stata che questi maestri-amici mi hanno restituito l’affetto con grande generosità. Con Cartier-Bresson, ad esempio, parlavo raramente di fotografia. Avevamo così tante altre cose più interessanti da dirci!
Quando ha iniziato a fotografare proveniva dalla facoltà di lettere e filosofia…
Ero giovane, più che altro venivo da una famiglia contadina di Bagheria. La facoltà di lettere era la fuga da un destino preconfezionato. Non volevo fare né l’ingegnere né il medico. Ho avuto fortuna. Penso di aver ricevuto dalla fotografia molto più di quello che le ho dato. Non credo, anzi ho una certa tendenza ad essere certo di non aver mai avuto una particolare vocazione per la fotografia. L’ho incrociata in un momento in cui cercavo una via di fuga e questa si è rivelata effettivamente una buona via. Avevo diciassette anni quando ho iniziato a scattare fotografando le mie compagne di classe, perché volevo sedurle. Le mie foto piacevano, così ho scoperto che la fotografia era un ponte per entrare in relazione con gli altri. È per questo che sono diventato fotografo. La fotografia in sé non mi è mai piaciuta. Mi piace molto quello che fotografo, perché mi permette di raccontare le cose che mi appassionano, mi indignano o mi sorprendono. Semmai ho un rimpianto è quello di non aver incrociato un linguaggio che mi piacerebbe padroneggiare, che è quello dello scrivere.
Però scrive…
Sì, ma con complessi vertiginosi.
Ha affermato di recente che il destino della fotografia è segnato.
Gli uomini hanno vissuto migliaia di anni facendo cose straordinarie senza la fotografia. Solo negli ultimi duecento anni la fotografia ha avuto un ruolo culturale centrale, anche come grande metafora delle vicende della modernità. Però è nata in un preciso momento storico, tra l’altro nei gabinetti degli scienziati e non in quelli degli artisti, perché rispondeva ad un bisogno della società, del pensiero, degli uomini. Ha prodotto una rivoluzione copernicana: le fotografie sono le prime immagini che gli uomini non fanno, ma ricevono. È questo che fanno i fotografi, aprono l’obiettivo e là dentro entra un pezzo di mondo, magari si allenano a scegliere il momento buono. Ma è una lettura del mondo, non la sua scrittura. E la lettura del mondo è un’interpretazione. Penso che la fotografia sia più importante per le migliaia di immagini finite nei libri e nei musei che per il fatto che ognuno di noi abbia in tasca un documento chiamato carta d’identità, dove c’è la nostra foto. Se un poliziotto ci ferma pretende che noi assomigliamo alla foto, non che la foto somigli a noi. La fotografia è stata uno strumento straordinario di controllo della società, di conoscenza del mondo. Mi pare che questa esigenza, però, non sia più al centro delle preoccupazioni culturali contemporanee. Del resto il digitale ne cambia la natura intrinseca. Non c’è più la certezza della contemporaneità analogica con il fatto. La direzione che sta prendendo la fotografia è sempre meno narrativo-documentaria e più artistico-creativa, una direzione che la porta verso la pittura. Ma la pittura c’era prima della fotografia e probabilmente può fare a meno di essa. In questo senso parlo di un tramonto culturale che corrisponde ad una mutazione tecnologica.
Progetti futuri?
Ho 65 anni e faccio il fotografo da 43. Gioco soprattutto a dei solitari con le carte che ho messo insieme in tutto questo tempo. Però, avendo molte carte, posso fare diversi tipi di solitari.

Ferdinando Scianna, La fotografia è la mia lingua madreultima modifica: 2008-07-17T16:23:32+02:00da mangano1
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