Antonio Scurati, Varda quel mona col picon

da LA STAMPA di oggi

Varda quel mona col picon
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Generazione perduta
ANTONIO SCURATI

Non bisogna fidarsi di nessuno che abbia più di trent’anni». Di fronte allo
spettacolo senile e crepuscolare offerto dal congresso del Prc, verrebbe
voglia di appropriarsi del motto dei rivoluzionari cubani che abbatterono
Batista. Ma ce ne manca il fegato, e l’ardore. Primo perché i rivoluzionari in
teoria dovrebbero essere loro, questi anziani signori sconfitti, litigiosi e spenti,
secondo perché anche noi giovani scontenti, a furia di sperare nel
rinnovamento della sinistra, abbiamo valicato da tempo la dorsale dei
trent’anni. Il balletto di mozioni congressuali plurime, di odi di fazione, di
scambi di voti a scrutinio segreto, di imboscate fratricide andato in scena a
Chianciano ha la cadenza mesta di una danza macabra.

L’ostinata renitenza dei cosiddetti leader della sinistra che fu comunista a
ogni ipotesi di ricambio generazionale è l’acuto finale del cupio dissolvi. In un
clima di drammatico rischio d’estinzione di una gloriosa tradizione, emerge la
figura di un leader di «nuova generazione», Nichi Vendola, che per
caratteristiche personali e per storia politica potrebbe guidare la riscossa: un
uomo del Sud che, pur del tutto anticonvenzionale, ha coraggiosamente
strappato alla destra un suo feudo elettorale grazie all’entusiasmo popolare.
Uno che odora di vittoria. I suoi compagni di partito che fanno? Fanno di tutto
per affossarlo, a costo di gettare terra sulla propria sepoltura. Qui non si tratta
di biasimare gli «stanchi riti della vecchia politica». Ad avvilirci è la loro
monotonia ossessiva. Quegli anziani signori a congresso sembrano
appassionarsi solo ai riti funebri; paiono aver dimenticato ogni gusto per
quelli battesimali o propiziatori.

È lo sconforto di una generazione questo che ci prende. Una generazione
perduta alla politica. Se per politica s’intende la possibilità individuale di
agire nell’orizzonte grande della storia collettiva. Prima, negli Anni 70,
un’infanzia funestata dalle foto segnaletiche dei terroristi di sinistra trasmesse
dai tg. Poi, negli Anni 80, un’adolescenza «rieducata» dall’ideologia
iperconsumistica delle tv commerciali. Questa l’educazione politica toccata
alla generazione dei nati alla fine degli Anni 60, la mia generazione. Arrivati
alla soglia dei vent’anni, incontrammo la fine di un’epoca iperpoliticizzata e
iperideologica. Anche quelli che, per inclinazione caratteriale o provenienza
familiare, si sarebbero sentiti vicini alla storia della sinistra, e dunque alla
passione politica vissuta come impegno in prima persona, si affacciarono alla
vita adulta con l’atteggiamento disincantato e sfiduciato dell’orfano. Il crollo
del Muro di Berlino ci colse a gozzovigliare davanti alla tv, con un bianchino
in mano e il sarcasmo obbligatorio in bocca. Nemmeno fosse una serata del
Festival di Sanremo. Io, cresciuto a Venezia, di quella notte ricordo solo la
battuta di un mio amico che sembrava nato già mezzo ubriaco. Abbandonò
per un attimo la ciacola con le ragazze, gettò uno sguardo divertito al
televisore e commentò: «Varda quel mona col picón».

Se rievoco quest’episodio apparentemente incongruo, è perché quella notte
finì un’epoca della politica ma per la mia generazione non n’è mai iniziata
un’altra. Non a sinistra, quantomeno. Siamo entrati nella vita adulta con la
sensazione che nell’arena politica non ci fosse niente per noi e niente di noi:
nessuno spazio, nessun riconoscimento, nessun nostro leader, nessun
nostro progetto, nessun godimento. Quella sensazione ci accompagna
ancora mentre ci avviamo ai quarant’anni. Si è corroborata fino a diventare
abitudine e vi hanno contribuito tanto la tracotante volontà di potere della
nuova destra quanto il decadente cupio dissolvi della vecchia sinistra.

Ci abbiamo fatto quasi il callo oramai. Siamo a un passo dal cinismo, l’ultima
spiaggia della rassegnazione. Anche di fronte allo spettacolo di questi
distruttori mascherati da rifondatori, sarei tentato di dire, come quel mio amico
di tanti anni fa: «Varda quel mona col picón».
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piccolo mondo antico di RICCARDO BARENGHI
da LA STAMPA di oggi

La storia non finisce mai, ma a volte mette la retromarcia. Una retromarcia
così vistosa, così rapida, così spericolata che l’automobile potrebbe anche
sbattere irrimediabilmente contro un muro. Questo rischia di accadere a
Rifondazione comunista, vista la conclusione del congresso di Chianciano.
Oppure, già che siamo in clima comunista (molto comunista), possiamo
anche parafrasare Lenin e dire che il partito che fino a ieri è stato di Bertinotti,
e che da oggi è di Paolo Ferrero, fa un passo indietro per farne altri due
indietro.

La sconfitta di Nichi Vendola, che pure aveva ottenuto la maggioranza
relativa ma non quella assoluta necessaria per diventare segretario, è una
sconfitta che significa la cancellazione di tutto quello che è stato – nel bene e
nel male – il partito guidato da Bertinotti. Con le sue svolte culturali e politiche,
la rottura con la tradizione comunista più ortodossa, la scelta della non
violenza, i rinculi movimentisti e a volte estremisti, ma anche la decisione di
allearsi con il centrosinistra per tentare addirittura l’avventura del governo
(avventura però fallita). Una sconfitta che cancella anche qualsiasi ipotesi di
alleanze future, dal Pd a quel che resta della sinistra radicale (tranne forse
con i comunisti duri e puri di Diliberto). Niente di tutto questo, la Rifondazione
di Ferrero sarà un partito autarchico, molto identitario (dove l’identità sta
nell’essere comunisti, che poi nessuno è ancora riuscito a spiegare che
diavolo significhi nel terzo millennio), che non guarda la sfera della politica
ma passa oltre per immergersi nel «bagno purificatore» del sociale e magari
del giustizialismo di Di Pietro, che con la tradizione rifondarola non c’entra
nulla «ma che almeno fa opposizione». Un partito che riscopre antiche parole
d’ordine, slogan e inni che solo a sentirli non fanno venire nostalgia di un
passato remoto ma glorioso, semmai provocano la sensazione sgradevole di
non sapere più dove si sta, in che mondo si vive, in quale periodo storico. E
soprattutto per fare che (ancora Lenin), con chi, quando, come…

Un tuffo all’indietro, insomma, a occhi chiusi e senza neanche sapere se sotto
c’è un po’ d’acqua. Non indirizzato verso la tradizione comunista italiana,
insomma il Pci, ma molto più modestamente ai quei gruppi extraparlamentari
degli anni Settanta (e pure a quelli meno innovativi) che se non funzionarono
allora, figuriamoci oggi. Mettendo oltretutto insieme pezzi sparsi che non
c’entrano nulla l’uno con l’altro, vecchi militanti di Democrazia proletaria
(appunto Ferrero e Russo Spena) con uomini nati e cresciuti nel Pci e poi
nella Rifondazione cossuttiana (Grassi e Burgio), improbabili trotzkisti e
comunisti anti-imperialisti, qualche scampolo stalinista. Una maggioranza
fatta ad hoc, costruita artificialmente per battere Vendola, Giordano, Bertinotti.

I quali escono da questo congresso non solo sconfitti ma anche increduli,
come se avessero scoperto solo oggi che genere di partito è il loro (o forse
era, chissà quanto resisteranno lì dentro). E qui una qualche responsabilità
dell’ex leader e di tutti quelli che per quattordici anni hanno gestito
Rifondazione non manca, anzi. Cosa facevano, dove guardavano, chi
pensavano di rappresentare mentre il loro partito gli si trasformava sotto gli
occhi, cambiando così radicalmente natura? Un accenno di autocritica (altro
concetto caro al comunismo storico) sarebbe stato gradito. Purtroppo non c’è
stato.

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Antonio Scurati, Varda quel mona col piconultima modifica: 2008-07-28T17:28:00+02:00da mangano1
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